Skip to main content

L’Apocalisse (V)

Gruppo del venerdì
Febbraio 1999

L’altra volta avevamo iniziato a esaminare la questione dei sigilli ed avevamo letto i primi quattro. Ad ogni sigillo che viene aperto dall’Agnello succede qualcosa.

I sigilli sono sette, divisi in due gruppi: quattro rappresentano sempre la stessa scena: un cavaliere che arriva, caratterizzato da colori diversi: bianco, nero, rosso, verdastro ed a cui viene dato qualcosa. Gli altri tre sono un gruppo a parte.

La simbologia dei numeri è sette, la totalità, non materiale come un elenco telefonico, ma della storia dall’inizio al compimento, dal caos originario al riposo del settimo giorno. Quattro sono gli elementi della terra: acqua, terra, fuoco, aria, e indicano la storia umana, il punto di vista degli uomini.

Nelle grandi cattedrali gotiche molto spesso i finestroni sono quattro da una lato e tre dall’altro o i loro rispettivi multipli. Sono asimmetriche perché quattro è la storia umana e quindi le finestre, dal lato dove sono quattro, hanno la rappresentazione, nei capitelli, o nelle finestre vere e proprie, delle arti e mestieri: esempio S. Crispino ed i calzolai. Rappresentano proprio l’attività umana, l’homo faber. Dall’altra parte invece sono tre, il numero di Dio. In genere tutti i gruppi di tre sono messi insieme, ma non sono replicanti: ognuno con un’individualità in quanto rappresentano la Trinità. Sono tre, ciascuno con la sua personalità.

Le cattedrali gotiche usano lo schema di Giovanni. Personalmente l’ho scoperto prima in architettura che nei testi della Scrittura. E’ molto bello perché ha il senso di equilibrio asimmetrico tra Dio e l’uomo: ci sono sempre i due aspetti, mai solo Dio o solo l’uomo, né c’è una fusione.

In tutte le simbologie classiche c’è la coppia originale, nord – sud, alto – basso, quindi poteva benissimo essere: la terra, la storia degli uomini due; la parte divina tre, che è il modo in cui di solito ragioniamo noi: noi siamo buoni, Dio è buonissimo. Questo è invece totalmente estraneo, non si trova in alcuna simbologia della storia cristiana. E’ sempre quantitativamente maggiore la parte umana.

Intervento: può essere solo una concezione di tipo piramidale, l’uno alla base, poi tre e poi i molti dell’umano

Questo può essere una spiegazione, ma presuppone una mentalità molto platonica che al tempo della costruzione delle chiese gotiche non c’era: l’idea lì è proprio che l’uno è superiore al diverso. Allora a quel punto Dio dovrebbe essere uno, invece è tre . Nella Trinità cristiana c’è già l’idea che supera il platonismo dell’unicità, dell’uno universale.

Le cattedrali gotiche sono costruite dall’esterno verso l’interno, come simbologia. Il centro è l’altare, dove si celebra l’eucarestia, quindi è il punto di maggior luce, ed è, in genere, il punto più spoglio.

Più si va sull’esterno più si arricchisce di diversità, fregi, mostri, sempre più sul negativo: sugli spioventi esterni ci sono tutti mostri demoniaci; dentro, sui finestroni, le arti ed i mestieri umani; sulle colonne le attività angeliche.

I cristiani che nel medioevo costruivano le cattedrali capivano bene l’Apocalisse; noi molto meno per la nostra logica meno visiva, più rigorosa, fatta di parole e concetti.

Ovviamente le immagini non sono a caso, hanno dentro un’idea che sta nei primi tre versetti: rivelazione di Gesù Cristo nella storia. Il tempo della storia come il tempo della grande battaglia agonica tra Dio e il male e, dunque, l’Agnello mostra se stesso come il vincitore del male.

Riprendiamo il capitolo 6 dal versetto 9:

“Quando l’Agnello aprì il quinto sigillo, vidi sotto l’altare le anime di coloro che furono immolati a causa della parola di Dio e della testimonianza che gli avevano resa. E gridarono a gran voce:

Fino a quando, Sovrano,
tu che sei santo e verace,
non farai giustizia
e non vendicherai il nostro sangue
sopra gli abitanti della terra?

Allora venne data a ciascuno di essi una veste candida e fu detto loro di pazientare ancora un poco, finché fosse completo il numero dei loro compagni di servizio e dei loro fratelli che dovevano essere uccisi come loro.

Quando l’Agnello aprì il sesto sigillo, vidi che vi fu un violento terremoto. Il sole divenne nero come sacco di crine, la luna diventò tutta simile al sangue, le stelle del cielo si abbatterono sopra la terra, come quando un fico, sbattuto dalla bufera, lascia cadere i fichi immaturi. Il cielo si ritirò come un volume che si arrotola e tutti i monti e le isole furono smossi dal loro posto. Allora i re della terra e i grandi, i capitani, i ricchi e i potenti, e infine ogni uomo schiavo o libero, si nascosero tutti nelle caverne e fra le rupi dei monti; e dicevano ai monti e alle rupi: Cadete sopra di noi e nascondeteci dalla faccia di Colui che siede sul trono e dall’ira dell’Agnello, perché è venuto il gran giorno della loro ira, e chi vi può resistere?.

Dopo ciò, vidi quattro angeli che stavano ai quattro angoli della terra, e trattenevano i quattro venti, perché non soffiassero sulla terra, né sul mare, né su alcuna pianta.

Vidi poi un altro angelo che saliva dall’oriente e aveva il sigillo del Dio vivente. E gridò a gran voce ai quattro angeli ai quali era stato concesso il potere di devastare la terra e il mare: Non devastate né la terra, né il mare, né le piante, finché non abbiamo impresso il sigillo del nostro Dio sulla fronte dei suoi servi.

Poi udii il numero di coloro che furono segnati con il sigillo:
centoquarantaquattromila, segnati da ogni tribù dei figli d’Israele:
dalla tribù di Giuda dodicimila;
dalla tribù di Ruben dodicimila…..e cita tutte le tribù.

Dopo ciò, apparve una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, razza, popolo e lingua. Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, avvolti in vesti candide, e portavano palme nelle mani. E gridavano a gran voce:

“La salvezza appartiene al nostro Dio seduto sul trono e all’Agnello”.

Allora tutti gli angeli che stavano intorno al trono e i vegliardi e i quattro esseri viventi, si inchinarono profondamente con la faccia davanti al trono e adorarono Dio dicendo:

“Amen! Lode, gloria, sapienza, azione di grazie, onore, potenza e forza al nostro Dio nei secoli dei secoli . Amen”.

Uno dei vegliardi allora si rivolse a me e disse: “Quelli che sono vestiti di bianco, chi sono e donde vengono?”. Gli risposi: “Signore mio, tu lo sai”. E lui: “Essi sono coloro che sono passati attraverso la grande tribolazione e hanno lavato le loro vesti rendendole candide col sangue dell’Agnello. Per questo stanno davanti al trono di Dio e gli prestano servizio giorno e notte nel suo santuario; e Colui che siede sul trono stenderà la sua tenda sopra di loro.

Non avranno più fame,
né avranno più sete,
né li colpirà il sole,
né arsura di sorta,
perché l’Agnello che sta in mezzo al trono
sarà il loro pastore
e li guiderà alle fonti delle acque della vita.
E Dio tergerà ogni lacrima dai loro occhi.

Quando l’Agnello aprì il settimo sigillo, si fece silenzio in cielo per circa mezz’ora. Vidi che ai sette angeli ritti davanti a Dio furono date sette trombe”.

L’ho letto tutto perché è di un suono letterario molto particolare.

Nei primi quattro c’è una specie di ritmo (un cavallo che fa una cosa… poi l’altro) per cui si pensa che vada avanti così per tutti i sette sigilli.

Ad un certo punto, invece, c’è una brusca interruzione, nel quinto e sesto sigillo, con l’espressione: “quando farai giustizia (….), “i centoquarantaquattromila segnati (….) e una moltitudine immensa…..”.

C’è un crescendo con una moltitudine che si piazza in mezzo agli angeli, ai vegliardi, ai quattro esseri viventi e poi, nel settimo sigillo, mezz’ora di silenzio. Quindi segue il settenario delle trombe.

Nella lingua originale si sente ancora di più la spezzatura perché è scritto più o meno in metrica: leggendolo si sente la cadenza e il settimo sigillo è fuori metro.

La prima cosa da fare è provare ad entrare dentro l’immagine, a visualizzarla. Giovanni, con le parole, costruisce quella che per noi sarebbe una scena pittorica perché, nel suo tempo, tutte le immagini erano proibite e l’unica potenza era la parola. Non a caso gli ebrei hanno sviluppato la loro capacità affabulatoria.

Bergman ha girato il film “Il settimo sigillo” e tutto il medioevo, il ‘500 e ‘600, hanno dipinto l’Apocalisse che è stato poco studiata ma molto rappresentata.

Il concetto è sempre quello della rivelazione progressiva di Gesù nella storia. Non dobbiamo dimenticare che la questione per Giovanni non è mai l’ultimo giorno. Egli non ha il problema di dire cosa succederà alla fine, ma di che cosa sta succedendo nella storia: se Gesù è morto e resuscitato, perché non è tutto chiaro?.

E’ il nostro stesso problema: se mi sono comportato secondo coscienza, mi sono sforzato di far bene, perché non succede quello che era giusto succedesse?

Ciò che Giovanni si sforza di dire continuamente con tutte le immagini è: non va bene perché c’è questo tempo agonico, questa lotta tra Dio e il male che in cielo si vede benissimo ed in terra meno bene. Ma è una lotta che ha il suo tempo e non è senza un prezzo.

Giovanni rappresenta la storia.

Dicevamo la volta scorsa che nella visione dell’Agnello si vede la storia dal punto di vista di Dio poiché il dialogo è tra Colui che siede sul trono e l’Agnello: Dio Padre e Dio Figlio.

La storia, per come si vede dalla parte di Dio, è senza peccato originale perché quello che Dio vede non è la questione del peccato.

Invece i sette sigilli veri e propri, quattro più tre, rappresentano gli uni la storia vista dalla parte dell’uomo mentre gli altri tornano sulla visuale divina. Quindi i quattro rappresentano la frattura del peccato sperimentato dall’uomo.

Dio, quando guarda la terra, non vede il peccato, ma l’Agnello.

Il problema è che noi quando guardiamo la nostra storia vediamo il peccato.

L’altra volta parlavamo dei quattro sigilli con i quattro cavalieri. Il contenuto è totalmente innovativo: rappresenta quattro tappe della storia che noi chiamiamo dell’AT, quattro tappe del rapporto tra Dio e l’uomo.

Noi siamo abituati a pensare, a vedere i quattro cavalli dell’Apocalisse come portatori di distruzione, invece l’Agnello che apre i sigilli vede per prima cosa una scintilla creaturale, il cavallo bianco che esce per tornare a vincere. E’ l’immagine di Dio posta alla creazione dell’uomo, bella e luminosa; esce vittoriosa dalla storia e tornerà per vincere.

Il secondo cavallo rappresenta Caino e Abele: “si sgozzassero l’un l’altro”, la violenza dell’uomo contro l’uomo.

Segue ciò che per Israele è la storia del deserto. In termini antropologici, l’esperienza della penuria, del bisogno che porta fame. In generale è l’esperienza nell’uomo della propria inadeguatezza, avendo sempre bisogno di qualcosa, non necessariamente materiale.

Infine il cavaliere che si chiama Morte e si porta dietro l’inferno, non è solo la morte come evento puntuale, ma è Ade, termine greco.

La differenza tra la morte e l’Ade è che la morte è un evento, paradossalmente fa parte della vita, sta dentro l’esistenza (noi conosciamo la morte degli altri in quanto continuiamo a vivere dopo la loro morte); l’Ade è lo stato, il rimanere nella morte, quello che ci succede dopo, quando, almeno per noi, la storia finisce.

Il cavaliere si chiama Morte e si porta dietro l’inferno: non è solo morte accidentale, ma la stabilità di questa condizione, il fatto che la storia soggettivamente finisce.

Riferito alla storia ebraica, anche con l’uso del termine greco che richiama il tempo dei Maccabei, c’è tutta una costruzione letteraria, molto raffinata, usata da Giovanni per far suonare alle orecchie dei suoi interlocutori il richiamo alla seconda caduta di Israele, quando ritornano al tempio e si compromettono con i greci.

Questo crescendo è la storia di Israele fino alla venuta di Gesù, però rappresenta quattro dimensioni perenni nell’esperienza umana:

  • la scintilla di bene, il desiderare il bene almeno per sé, insito in ciascuno di noi;
  • l’esperienza del rapporto con l’altro, chiunque egli sia; la fatica di controllare la violenza più o meno istintiva in quanto l’altro è, tendenzialmente, un nemico (lo spazio che occupa lui non può essere occupato da me);
  • il rapporto con se stessi, la penuria come l’esperienza di essere mancanti a se stessi;
  • il rapporto con il tempo, la morte.

Quindi tanto la storia d’Israele, quanto, in qualche modo, quella che potremmo chiamare in termini moderni, la storia psichica di ciascuno di noi: nell’adolescenza soffriamo per i tradimenti degli amici verso di noi o dei nostri verso loro; nella giovinezza abbiamo il problema di sapere chi siamo e di che cosa vogliamo fare nella vita; nella maturità pensiamo di non avere più tutto il tempo disponibile.

L’aspetto interessante su cui non ci eravamo soffermati la volta scorsa è che tutto questo accade quando l’Agnello apre il sigillo.

La dinamica delle visioni è: l’Agnello apre il sigillo, l’essere vivente dice “vieni” e c’è l’ingresso in scena, come se Giovanni dicesse: tutto questo accade, ma tutto è sotto il segno dell’Agnello; tutto, paradossalmente anche il male, è già sotto il segno del Crocefisso risorto. E’ Lui che apre il sigillo, il senso nascosto della storia.

Due possibili sottolineature tra le molte:

* è attraverso il Cristo che la storia si vede così; è Lui che rende possibile vedere. Se si guarda Cristo si comprende la storia d’Israele e la propria. (Questi termini non sono certo quelli che avrebbe usato Giovanni. Questa è una trasposizione, ma la sostanza è la stessa. Non avrebbe parlato di cammino psichico in quanto non esisteva il concetto);

* tutto è già redento da Lui, da una parte, e dall’altra come se si mostrasse la causa della Sua uccisione, perché era necessario che morisse.

Naturalmente l’Apocalisse non è un trattato: bisogna andare avanti e indietro per recuperare i pezzi come si farebbe per un quadro.

Arrivati al secondo tradimento di Israele, viene da dire che dopo c’è il Cristo; invece no, perché i quattro che funzionano come la storia umana si fermano storicamente.

Poi ci sono i tre i quali non funzionano più in cronologia come la storia umana perché si ritorna dal punto di vista di Dio e quindi sono tre facce, tre “oblò” da cui Dio guarda la storia e vede tre spicchi di storia contemporanei, in quanto Egli è eterno.

E sono tutti e tre il punto critico, il punto della venuta del Figlio: si arriva fino a lì con la storia umana; poi, spostandosi, si vede perché Dio ha mandato suo Figlio. Allora abbiamo il quinto, il sesto ed il settimo sigillo.

Il quinto: “Vidi sopra l’altare le anime di coloro che furono immolati a causa della parola di Dio e della testimonianza che gli avevano reso”.

Qui c’è un grande problema di traduzione: si scrive immolato, la stessa parola che prima Giovanni usa per dire sgozzato.

Costoro hanno subito la stessa morte dell’Agnello, la parola è la stessa, ed anche loro sono in piedi: sono sgozzati e parlano; hanno un legame con il Cristo molto forte.

La lettura più facile è quella che dice: “Questi sono i martiri cristiani”, ma non dà conto di troppi elementi, non ultimo il fatto che questi sono molto connessi a quanto succede dopo, al sesto sigillo, i centoquarantaquattromila tratti da ogni tribù di Israele.

Normalmente la lettura adottata è che, il quinto e la prima parte del sesto, rappresentano due punti di vista della stessa realtà: i giusti d’Israele.

La seconda parte del sesto sigillo, la moltitudine di ogni razza, popolo, è l’universalismo e poi c’è il settimo sigillo.

Qui non si parlerebbe di cristiani e nella logica di Giovanni è giusto: egli arriva fino alla morte di Cristo, non ci sono ancora i cristiani. Ci sono quelli che in Israele sono stati i giusti e poi la moltitudine, le genti che non hanno confessione alcuna, con la sola condizione che abbiano passato la grande tribolazione.

Questi che sono stati sgozzati a causa della parola di Dio e della testimonianza: questa coppia, parola e testimonianza, è classica non solo nel NT, ma anche nell’Antico. Definisce la giustizia: è giusto colui che agisce e muore a causa della parola e della testimonianza.

Esprimo una mia riflessione che, non obbligatoriamente, si trae dal testo. Sempre di più sono turbata da come siamo riusciti a tradurre la giustizia e la battaglia per essa (la concezione agonica della storia, la lotta tra bene e male come lotta profonda dell’intimo di ciascuno di noi in ogni azione della vita quotidiana, ma anche delle grandi dinamiche della storia), come siamo riusciti a tradurre tutto questo in termini di correttezza. Abbiamo fatto diventare la giustizia correttezza.

Ci sono dieci norme, i comandamenti, cinque o sei precetti, (andare a messa…) e, se non abbiamo violato nessuno di essi, allora ci sentiamo a posto.

Certamente banalizzo: nessuno di noi ragiona così. Per molti di noi si tratta però solo di una sostituzione; abbiamo sostituito i comandamenti ed i precetti con cose più moderne: occuparci degli extracomunitari, fare attenzione agli anziani… Abbiamo elaborato un elenco ammodernato di questa correttezza, ma continuiamo a ragionare come se la grande battaglia tra bene e male si risolvesse non facendo niente di male.

Nell’Apocalisse è chiarissimo: coloro che stanno dalla parte di Dio nella storia, sono coloro che vivono e muoiono, (si vive tanto quanto si può morire) a causa della parola di Dio e della testimonianza, e non “non facendo niente di male”.

Sono conformati all’Agnello, sgozzati e vivi, a causa della parola di Dio e della testimonianza. E’ un’altra logica, un’altra dimensione.

Intervento: non solo i martiri, dunque.

Si vive e si muore: può accadere che la storia porti in un punto in cui la scelta è tra vivere e morire e si diventa un martire; ma anche si vive e si muore di vecchiaia a causa della parola e della testimonianza.

Nei racconti evangelici, Maria e Giuseppe sono sempre coloro che custodiscono la parola e testimoniano, si muovono su questa dualità, non sono martiri. Vivono e possono avere vite anche “di secondo piano” come quella di Giuseppe, che è un giusto perché si fida della parola ricevuta e la testimonia. Dunque via qualunque idea moralistica della religione, qualsiasi lettura di correttezza, di non violare un certo numero di norme.

Intervento: come mai questa cosa si è perduta?

Un po’ perché negli ultimi duecento anni la fede, per tutta una serie di motivi culturali, ha subito un processo di razionalizzazione giuridica per cui la parola di Dio è diventata il luogo della verità, che certamente è, ma nel senso sempre più stretto di verità concettuale, quindi un elenco di verità da credere (il caso Galileo è emblematico da questo punto di vista: qual è la verità da credere sul fatto che il sole gira intorno alla terra? Non è un problema rispetto alla parola di Dio!).

Inoltre la testimonianza è stata sempre più letta in termini morali per cui la grande preoccupazione era il peccato. La società dell’800 aveva per proprio tema psichico e sociale, anche al di là del cristianesimo, tutta una serie di fobie.

In un certo senso la grande colpa del cristianesimo è stata quella di non riuscire a esercitare su questo una carica profetica.

Intervento: non può essere invece proprio la funzione dell’istituzione che è quella di normalizzare mentre il Cristo ha svolto un’azione di rottura?.

Questa tesi ritorna sempre nel dibattito tra carisma ed istituzione: S. Francesco innovatore e poi i francescani che diventano istituzionali; Gesù innovatore, Paolo burocrate. E’ un po’ invecchiata come tesi sociale e, rispetto all’istituzione chiesa, dice troppo poco. Certamente la chiesa ha dimensioni istituzionali che funzionano per definizione in modo normativo ma a volte no: ad esempio Vaticano II è uno degli eventi più istituzionali eppure con una carica di spostamento delle istituzioni tale da provocare scismi, l’ Olanda, di Lefevre.

Intervento: mi domando: mentre questi soggetti con grande carica profetica, in effetti smuovono negli uomini delle cose rispetto alla loro vita, è più difficile che ciò avvenga ad opera delle istituzioni le quali hanno la preoccupazione, come si diceva innanzi, di rapportarsi alla correttezza.

Non sono di questa teoria, frutto di un’analisi socioculturale. Indubbiamente nella vita ci vogliono i profeti, ma sono pure necessarie la continuità e la permanenza garantite dalle istituzioni.

Nel cristianesimo, dal ‘500 al ‘700 ed anche prima, l’istituzione non aveva neppure il problema della correttezza. E’ una questione che riguarda gli ultimi tre – quattro secoli con un dibattito molto forte che forse ci porteremo dietro ancora per un po’, però non mi pare un dato costante.

Intervento: storicamente la chiesa riformata ha vissuto queste cose?.

Peggio e quasi da subito. Non avendo una dimensione sovranazionale, avendo dovuto legarsi ai principi elettori prima ed alle strutture nazionali poi, ha avuto molto minor margine di manovra rispetto alla possibilità profetica. L’istituzione non era lei, ma quella a cui era legata: dalla lotta ai contadini, al non riconoscimento di Bonhoeffer e della chiesa confessante in questo secolo. Essendo invece la chiesa cattolica lei stessa definita come istituzione, per lo meno non ha pagato prezzi ad altri ma solo a sè.

Intervento: ho la sensazione che quel popolo lì sia molto più nella linea meno legata alla correttezza.

Se tu incontri i cattolici di Corea o del Sudan hai sensazioni bellissime: sono meno dell’ 1% della popolazione dentro una realtà sociologica-culturale totalmente diversa, per cui hanno dovuto definirsi maggiormente come identità.

La stessa cosa si verifica per la minoranza di protestanti in Italia che nella loro storia hanno patito non poco, dunque hanno pensato di più e si sono preparati di più, essendo maggiormente motivati sulla loro identità. In ambienti pacificamente protestanti sono uguali a noi nell’avere il senso dell’istituzione.

Nel quinto sigillo i termini sono esattamente quelli dell’Esodo, quando Dio dice: “Ho sentito il grido del popolo giungere fino a me” e decide di salvarlo. E’ proprio il nuovo Esodo, la richiesta del popolo schiavo.

Giovanni stuzzica la memoria dei suoi ascoltatori. Questi sono i deportati, gli schiavi sotto l’altare che dicono di non poterne più. Il fatto è che , mentre nell’Esodo Dio dice “scenderò a liberarlo”, qui scrive: “fu data loro una veste candida; fu detto loro di pazientare ancora un poco…”.

Viene riconosciuto lo status, la veste candida, ma viene detto, nella versione in greco, di riposare.

Questa è una chiave molto bella: dall’oblò di Dio, guardando la storia, il patimento è un riposo.

Dio, che si rivolge alla storia e guarda alla tribolazione da noi vissuta come una schiavitù, dice: “Riposate ancora un poco”. E’ una cosa strana.

Bisognerebbe ragionare un po’ su cosa vuol dire per un credente pensare la propria vita, il tempo che gli è dato, come il tempo della pazienza o del riposo, come un tempo di esercizio per attendere che il tempo sia compiuto.

E’ un altro modo di guardare la nostra storia.

Noi siamo istintivamente portati e ci sentiamo quasi giustificati dalla parte del grido “fino a quando”, soprattutto quando stiamo male.

Invece è come se Giovanni ci dicesse: la storia che ci è data, questo luogo di battaglia, è il tempo in cui dovremmo riposare.

E’ molto chiaro qui il richiamo liturgico: in tutta la tradizione antica, quella che proviene dalle aree di Giovanni, la liturgia è chiamata il riposo in Dio o di Dio. Come se ci dicesse : nell’agonia che la storia è, rimanete centrati nella liturgia, trovate il riposo di Dio per attendere che sia compiuto il tempo. Il tempo dalla parte di Dio.

Non a caso questi stanno sotto l’altare, luogo liturgico, come se volesse dire: tenetevi saldi lì, attaccati a questo tempo di riposo che è la liturgia. Cristo è il culto supremo, non c’è altro.

Ricevono la veste candida; gli altri sono già avvolti nella veste candida e ricevono anche la palma.

Ai fedeli è data la veste candida nel battesimo. Questi sono i giusti dell’AT, i non battezzati che ricevono la veste candida quando sono sotto l’altare, riconoscono la centralità del culto di Cristo e vengono immessi d’autorità.

Poi c’è il sesto sigillo in cui Giovanni rifà la storia degli interventi di Dio con un racconto di tragedia: il sole nero, le stelle che cadono come i frutti di un fico scosso. E’ l’altro racconto possibile del peccato originale, non della fine, ma dell’inizio del mondo.

Dopo l’armonia del cosmo originario, nel precedente capitolo, con lo specchio d’acqua davanti al trono, l’arcobaleno…., si spacca l’armonia ed allora ci sono i centoquarantaquattromila del popolo eletto, i giusti d’Israele e quindi i fedeli.

Nella prima parte c’è la scena dei quattro angeli che trattengono i venti ai quattro angoli della terra.

E’ chiaramente una parafrasi dell’Esodo: gli ebrei segnano gli stipiti e l’angelo passa ad uccidere i primogeniti, tranne che nelle case segnate.

L’operazione è tutta angelica, non sono loro che possono segnarsi. I quattro angeli danno il via perché la grande catastrofe del peccato ha scombinato tutto e dunque inizia una storia delle calamità.

Ma prima che questa storia inizi, l’angelo passa e segna con il sigillo di Dio i centoquarantaquattromila giusti.

Il peccato è una grande frattura ma, fin dal momento del peccato, esiste un progetto di salvezza. Siccome quest’immagine poteva far pensare: “Qualcuno sì, e gli altri?”, subito dopo, nell’altra visione, compare l’ innumerevole folla di ogni tribù, razza, popolo, che indossa già la veste e non è segnata da nessuno.

Traducendo in linguaggio moderno potremmo dire che Giovanni scrive: nella prima parte intendo dire che c’è un progetto di salvezza di Dio, contemporaneo al peccato, il quale, indipendentemente dai vostri sforzi di bontà, vi conduce in quanto segnati, ma non è riservato a qualcuno. Subito dopo infatti parlo di ogni tribù, razza, popolo.

Corregge l’immagine proprio perché nel linguaggio delle immagini si corre il rischio di vedere più interpretazioni.

Nella seconda scena ci sono vesti bianche, cioè partecipazione alla vita divina, e palme del martirio, vittoria sul peccato. Dunque il nuovo popolo eletto è l’umanità intera.

Intervento: la visione è quella dei santi?

Sì, questa è una delle tipiche letture scelte da Vaticano II che ha ripensato alla distribuzione delle letture nella liturgia e ha posto questa alla Festa di tutti i santi.

Poi c’è tutto un crescendo di comparse, grande scena, quindi un primo abbassamento di tono con il piccolo dialogo tra Giovanni e l’anziano: “Uno dei vegliardi si rivolse a me e disse: quelli che sono vestiti di bianco chi sono e da dove vengono?”. Domanda retorica a cui Giovanni non sa rispondere.

Il vegliardo disse: “Essi sono coloro che sono passati attraverso la grande tribolazione ed hanno lavato le loro vesti rendendole candide col sangue dell’Agnello. Per questo stanno davanti al trono di Dio e gli prestano servizio giorno e notte nel suo santuario e Colui che siede sul trono stenderà la sua tenda sopra di loro. Non avranno più fame (…) e Dio tergerà ogni lacrima dai loro occhi”.

C’è una risonanza scritturistica enorme in questo passo. Giovanni ha saccheggiato consapevolmente impastando tutto il suono che vi echeggiava.

Primo oblò: i Giusti dell’AT sotto l’altare: tenetevi stretti al riposo di Dio.

Secondo oblò: siete scelti fin dall’inizio quando Dio progetta la Salvezza non per pochi ma per tutti.

Il terzo oblò sarà il settimo sigillo.

Dopo questi due passaggi la risposta su chi sono questi potrebbe essere: quelli che sono passati attraverso la grande tribolazione.

Su questo c’è ovviamente un’orgia interpretativa. Il modo semplice in cui c’è stata una spiegazione è quello del martirio, sostenendo che Giovanni sta parlando delle persecuzioni. Il che è possibile rispetto alla stesura letteraria, anche se non del tutto convincente.

Certo che se il quadro è la grande riflessione sulla storia, non sulla sua fine, allora il ragionamento non torna: il tempo in cui non ci sono persecuzioni sarebbe tagliato fuori.

Tutti gli esegeti sono d’accordo nel dire che la grande tribolazione è la vita: passare attraverso ad essa è la consapevolezza della propria esistenza e lavare le proprie vesti nel sangue dell’Agnello, è riconoscerne la centralità.

In questo senso il testo torna benissimo: “Stenderà la sua tenda sopra di loro”.

Ancora il richiamo all’Esodo, una nuvola come tappeto, però anche il luogo dell’abitazione, della convivenza: Prologo di Giovanni: ” E venne ad abitare in mezzo a noi”.

“Non avranno più fame, non avranno più sete, né li colpirà il sole, né arsura di sorta”. Delle cose indicate dai quattro cavalieri Dio cura il rapporto con sé: non hanno più penuria, perché il rapporto con gli altri e con il tempo lo dobbiamo curare noi.

E dopo c’è il settimo sigillo.

“Quando l’Agnello aprì il settimo sigillo, si fece silenzio in cielo per circa mezz’ora”.

Il silenzio è quello delle voci angeliche che lodano Dio, della preghiera e della richiesta di giustizia dei santi, del grido degli uccisi.

C’è il silenzio su tutta la terra, lo stesso riferito da Giovanni al momento della morte di Cristo, è l’interruzione della liturgia, del riposo.

Tutta la storia della Salvezza, del terzo oblò, con la storia di Dio e degli uomini si incontrano.

I primi quattro sono i passaggi dell’AT; poi ci sono i due zoom da parte di Dio; il terzo è anche una cosa che accade agli uomini ed è la morte di Cristo. Il silenzio su tutta la terra, l’interruzione della liturgia, la fine dell’antica economia e l’inizio della nuova. proprio la spaccatura.

Sulla mezz’ora l’ipotesi più ragionevole ed anche più fondata dal punto di vista storico-letterario dice: spesso si dice che è semplicemente l’indicazione di un breve periodo di tempo. Noi possiamo aggiungere che è l’indicazione di una durata spirituale, non misurabile quantitativamente, l’indicazione cioè di una linea di demarcazione tra qualcosa che finisce e qualcosa che ha inizio.

Ma un autore come Giovanni raramente usa espressioni vaghe o casuali. Non è impossibile che anche l’enigmatica espressione “mezz’ora” contenga un velato richiamo scritturistico.

Questa unità di tempo, ora che viene divisa in due, fa pensare, infatti, alla divisione che il profeta Daniele fa dell’ultima delle settanta settimane. (Daniele ha una visione apocalittica, a cui Giovanni si rifà molto, sui quattro regni e sulle settanta settimane indicando per ogni settimana che cosa succede).

L’ultima settimana la divide in due mezze settimane. Non è soltanto l’analogia della suddivisione a far pensare questo. Nella seconda mezza settimana Daniele poneva anche la profanazione del tempio e il tradimento del culto da parte di Antioco IV. Quei fatti, per Giovanni, altro non erano se non la prefigurazione di quanto sarebbe accaduto, in maniera assai più grave, alla morte di Gesù: il velo squarciato, il tempio finito. Questa, avvenuta per istigazione dei sommi sacerdoti giudaici, avrebbe profanato definitivamente il tempio causando la fine del culto giudaico.

La mezz’ora di silenzio corrisponderebbe dunque alla durata dell’intervallo tra la morte di Cristo e la sua Risurrezione, una durata che Giovanni computa nel suo racconto evangelico sulla passione con tre giorni e mezzo, cioè mezza settimana.

Durante questo intervallo, nel cielo si fa silenzio, cessa cioè l’antico culto amministrato dagli angeli in attesa che il nuovo abbia inizio, con la Risurrezione di Cristo.

Sembra più un segnale per i suoi ascoltatori del tempo e un legame, sicuramente convincente, a come Egli struttura la passione. Il conto dei tre giorni, che noi diciamo sempre, non torna: morendo il venerdì alle tre e risorgendo il sabato notte fa un giorno e mezzo.

Giovanni, che pure riferisce così, fa conti sbagliati per spiegare che sono tre giorni e mezzo perché il riferimento è Daniele con la mezza settimana.

Nella testa dei suoi contemporanei siamo ad ottanta anni dalla profanazione del tempio, da Antioco IV che profanava il tempio. L’interruzione, la necessità di purificazione del tempio, erano un avvenimento recente, che ancora bruciava.

Quindi, poichè Daniele nella seconda mezza settimana, allude alla profanazione del tempio, quando Giovanni dice la morte di Gesù è una mezza settimana, tutti pensano: è una profanazione del tempio.

Giovanni infatti fa dire a Gesù quella frase enigmatica: “Distruggete questo tempio e lo ricostruirò in tre giorni” ed è tutta la sua simbologia connessa all’idea di Gesù come tempio.

Mezz’ora sarebbe il mezzo periodo, il corrispondente in cielo dell’interruzione tra il tempio di prima profanato e il nuovo tempio.

Intervento: il sesto sigillo non contraddice il passo dei sinottici che dice avevo fame e mi avete dato da mangiare, cioè l’apertura di questa opera del regno e quest’opera di misericordia? Se la salvezza viene da Dio solo, cosa dobbiamo fare noi?

Sono due direzioni complementari. Il problema sta solo nella misura in cui si considera l’una senza l’altra. Canonicamente stanno tutte e due nella parola di Dio e ciò significa che sono necessarie entrambe.

Da un lato c’è la tentazione perenne di un cristianesimo orizzontale, tutto giocato sulle opere, dall’altro la tentazione altrettanto perenne di un cristianesimo verticale, mistico, tutto centrato nel culto.

La cosa da ricordare è che sono indispensabili l’uno e l’altro.

In questo tempo storico, per noi è molto più immediato, automatico, quello dei sinottici: non è detto che lo pratichiamo, ma lo capiamo. Siamo invece un po’ in apnea rispetto alla dimensione più mistica. Abbiamo orizzontalizzato molto la liturgia e perso molto la possibilità di capire il significato agonico dell’esistenza della quale abbiamo un senso manipolatorio e tecnologico.

Per questo mi sembra importante insistere sul secondo aspetto, non perché sia più importante in assoluto ma perché culturalmente è più dimenticato.

Intervento: credo che le due parti si completino perché ciò che si fa è in nome di Cristo.

Certo, non è solo un generico dare un bicchiere d’acqua, opera meritoria, ma è dal punto di vista della collaborazione alla grande battaglia di Dio nella quale noi siamo fanti di quarta linea.

La donna e il drago, Maria e il demonio, combattono in cielo e sono, con i santi, la prima linea. Noi siamo abbastanza indietro e quindi, forse, la nostra collaborazione alla battaglia è un bicchiere d’acqua.

Intervento: dare un bicchiere d’acqua o darlo in nome di Dio è questione solo di consapevolezza individuale, di attenzione o di cosa?. Qual è la differenza?

Nessuna ed enorme contemporaneamente: da un lato non c’è alcuna differenza perché il gesto che si compie, l’attenzione che si ha, è qualificata dal dato oggettivo, non soggettivo, e quella è uguale; dall’altro è vero che, rispetto all’instaurazione del regno, stando a quanto dice Giovanni, bisogna stare dalla parte di Dio. Non è indifferente questo riconoscimento.

E’ la stessa differenza tra i centoquarantaquattromila delle tribù e l’enorme numero della moltitudine. Paradossalmente chi è più consapevole, chi, in fondo, sa di stare dalla parte di Dio, la veste la deve comunque ricevere. La moltitudine immensa che sembra la meno consapevole, ha già la veste. La questione è, secondo me, che la consapevolezza è quella del proprio peccato.

Ricordiamo quanto già detto: per il cristianesimo non è “prima ero peccatore, poi ho incontrato Gesù Cristo”, bensì “ho incontrato Gesù Cristo e dunque ho scoperto di essere peccatore”.