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L’Apocalisse (VI)

Gruppo del venerdì
Marzo 1999

Dopo il settenario dei sigilli, concluso la volta scorsa, vedremo questa sera il settenario delle trombe, che va dal versetto 3 del capitolo 8 a tutto il capitolo 11. Leggeremo tutto il testo, anche se è molto lungo, per non perderne la globalità, il suono, come se fosse un quadro, poi lo commenteremo poco alla volta.

Dopo la lunghissima lettura del settenario delle trombe, dove l’Apocalisse inizia ad avere il tono “apocalittico”, con visioni violente: grandine, fuoco, cavallette, grande malvagità, orrore. Da qui in poi, ma in particolare questo settenario, saremo di fronte ad una interpretazione in chiave apocalittica in senso stretto, cioè circa la fine del mondo.

In moltissime rappresentazioni pittoriche del giudizio universale, oppure dell’Apocalisse, ci sono sempre ai lati i sette angeli con le sette trombe; la figura classica, con la tromba lunga: è questa parte che ha colpito l’immaginazione.

La lettura di questo testo è proprio in chiave di ultimo giorno anche perché, non so le l’avete colto dalla lettura, c’è un grosso problema verbale in questa parte del testo, in quanto si passa continuamente dal futuro al presente. Si vede bene sui testimoni: “Farò in modo che i miei due testimoni vestiti di sacco compiano la loro missione di profeti….” , come una promessa futura e poi, ad un certo punto, di colpo, si dice: “Ma dopo tre giorni e mezzo un soffio di vita procedente da Dio entrò in essi “, come se fosse una cosa già accaduta.

C’è un grande problema di presente e futuro. La spiegazione più semplice è sempre stata quella di leggerlo tutto al futuro e di attribuirlo alla fine dei tempi. Quest’operazione si può fare, è stata fatta nella tradizione.

La lettura che dell’Apocalisse si fa oggi, nella chiave dell’inquadramento globale come stiamo facendo, è invece esattamente l’operazione contraria, cioè leggere tutto al presente come significato. Ciò ha tra l’altro una spiegazione testuale anche più convincente: dopo la morte di Cristo, Giovanni ha una visione profetica per cui le voci gli dicono quello che accadrà dopo di lui ma, in realtà, descrive il presente. Quindi per noi la lettura congrua, dal punto di vista logico, è quella del presente.

Ma a parte questa spiegazione testuale la questione resta comunque quella del quadro interpretativo.

Personalmente trovo molto convincente il fatto che ciò di cui l’Apocalisse parla sia la storia in sè e non la fine della storia. Certamente racconta della storia in modo non storico, cioè non come una cronaca di quello che accade.

Il libro degli Atti è un modo storico di raccontare, naturalmente sempre all’interno del discorso biblico; racconta gli elementi costitutivi della comunità: gli apostoli, lo spezzare del pane, la carità fraterna, i problemi. Atti dice la difficoltà della comunità cristiana, dopo la morte di Gesù, a darsi una struttura, ad organizzarsi, a capire che cosa significava essere cristiani, con un tono “storico”, non in senso moderno, ma raccontando comunque la storia reale.

L’Apocalisse in qualche modo dice esattamente la stessa cosa, ma in termini simbolici, dal punto di vista del senso della storia.

Sarebbe abbastanza comodo pensare che tutto questo caos succede alla fine del mondo perché tutti abbiamo in fondo la piccola speranza che questo caos succeda dopo la nostra morte.

Quel che Giovanni sta raccontando è invece ciò che succede nella storia tout-court, cioè la grande apocalisse è vivere e quindi questo riguarda chiunque. E non solo la vita biografica dei singoli ma proprio il senso e la direzione della storia.

Più volte ho detto che l’Apocalisse funziona come un film. Se uno avesse dovuto scrivere oggi un testo simile, probabilmente avrebbe scritto un testo di filosofia, di filosofia della storia, di spiegazione del senso della storia o di filosofia politica.

Giovanni non sceglie questo registro, sceglie la chiave simbolica, quindi funziona per immagini, crea affreschi, ma la descrizione è del presente, del senso della storia, quindi del passato, del senso dell’antica alleanza, della questione ebraica, del perché viene Gesù alla pienezza dei tempi e di cosa questo significa. La preoccupazione di Giovanni è che i suoi contemporanei non pensino che Gesù è un profeta come tanti: Isaia, Geremia, Daniele, Elia, Mosè e Gesù che farebbe un piccolo aggiustamento dell’ebraismo.

Giovanni vuole mostrare come invece c’è una spezzatura, un’interruzione radicale e, dunque, questo comporta una serie di conseguenze. Quindi quando dice queste cose parla della vita dei cristiani e della loro possibilità di capire la storia.

Il che, rispetto a questa cosa, da una parte ammorbidisce il tono truculento perché se parla della storia, deve essere simbolico, non può essere una fotografia in quanto tutto questo caos non si è visto (grandine, fiumi di sangue..); dall’altra parte però inquieta un po’ di più; pur essendo simbolico, evidentemente ha un significato pesante. Non sta parlando di cose marginali, soft, ma di eventi di grande impatto.

Qui “simbolico” non vuol dire di fantasia ma un’immagine per il tutto, un simbolo che muove dentro un’emozione. (il cappottino rosso nel film Shinder list di Spielberg).

E’ intenzionale nell’Apocalisse provocare un senso di orrore che scandalizza, che fa paura. C’è da aver paura.

Giovanni voleva spiegare che la vita è una cosa seria su cui occorre avere un po’ di paura. La sua tesi fondamentale è la concezione agonica dell’esistenza: l’esistenza è una lotta tra il bene ed il male. La vera lotta avviene in cielo, ma la terra ne è lo specchio, lotta tra la bestia e il santo di Dio e dunque non è l’invito a una festa, ma una battaglia; ciascuno di noi, che gli piaccia o no, ne sia cosciente o no, si trova dalla parte di uno dei due eserciti. Non si può stare in mezzo perché la battaglia coinvolge tutti.

Giovanni ha fatto un’operazione simbolica corretta nel senso che voleva dire: ” La battaglia è durissima, fate attenzione perché se uno fa finta di niente si trova in mezzo e rischia di finire male”.

La prima cosa che colpisce in questa parte è che le trombe sono sette come i sigilli e, come i sigilli, sono quattro, e poi tre, (una, una e una) diverse.

C’è inoltre un’altra altra analogia di movimento. I primi quattro sigilli sono i quattro cavalli. C’è un movimento contemporaneo per cui succede una cosa dal cielo verso la terra ed una cosa dagli inferi verso la terra: una voce dice “vieni” dal cielo verso la terra ed il cavallo esce dall’abisso verso la terra. Per quattro volte si ripete questo movimento.

In questo capitolo invece nei primi quattro c’è solo il movimento dal cielo verso la terra: il suono della tromba e cadono grandine, fuoco, stelle.

Viceversa, mentre negli ultimi tre sigilli c’è un movimento dal cielo verso la terra, nelle ultime tre trombe c’è un movimento dal cielo verso la terra e contemporaneamente dagli inferi verso la terra.

E’ come se fossero incrociati.

Avevamo detto, rispetto ai sigilli, che le quattro prime trombe riguardano in qualche modo la storia vista dalla parte degli uomini, poi c’è la storia vista dalla parte di Dio. La storia dalla parte degli uomini vede sempre il male che viene come un destino dal cielo, impersonale, ma anche un male che viene dal basso, dalle scelte, dalle cattiverie che si possono riscontrare.

La questione è sempre tra cielo e terra.

Qui è rigirato: i primi quattro hanno il movimento dal cielo alla terra come se il destino prendesse il sopravvento; gli altri tre hanno invece cielo, inferi e terra. Il finale però, sia dei sigilli, sia delle trombe, è un movimento verso il cielo.

La conclusione è: nel cielo ci fu mezz’ora di silenzio, nei sigilli; nelle trombe è l’inno dei ventiquattro vegliardi e si apre il santuario di Dio.

Giovanni continuamente prende dei pezzi e li rispiega. Annuncia sempre tutto e poi ripete molto.

I sigilli erano la meditazione sulla storia umana: caduta, castigo, salvezza, i tre grandi passaggi, cioè la storia umana come cronologia, come successione.

Nel settenario delle trombe, invece, la storia umana è compattata come totalità: c’è una visione globale, non cronologica.

Ad esempio: un significativo rapporto tra due persone, può essere raccontato in due modi: metodo globale, che lo riassume sinteticamente; metodo cronologico, che ne spiega tutte le varie fasi. Alla domanda: perché continua il vostro rapporto, la risposta può essere: perché l’altro è la persona più importante della mia vita, oppure raccontarne tutto il percorso. I due metodi sono complementari per giustificare la continuità del rapporto.

Così è per il settenario delle trombe: non ha più una successione cronologica, dall’Antico Testamento fino a Gesù, ma dice il senso totale che, preso nella sua globalità, ha un effetto più pesante della visione soltanto cronologica.

Anticipando l’ultima frase che ridirò alla fine di tutto il settenario delle trombe, il senso che Giovanni dà è: la storia è questo luogo agonico, perché ciò sotto cui noi stiamo è il giudizio di Dio, dove giudizio non è il giudizio finale, legale, di resa dei conti. Il giudizio di Dio è come quello che si ha in un rapporto tra due persone legate da un affetto.

In un rapporto ci sono punti qualificanti in cui uno sta sotto il giudizio dell’altro nel senso che è perfettamente cosciente che la libertà dell’altro è in un momento di scelta e che lui ha giocato tutte le sue carte affinché l’altro scegliesse rimanendo, ma non può mettere la mano sul fuoco perché non ha il modo, se è onesto, di plagiare la libertà dell’altro.

Allora sta sotto il giudizio dell’altro pur essendo cosciente che fino ad un certo punto può prendere iniziative per spiegare, per influenzare il giudizio dell’altro, ma poi esiste una radicale libertà dell’altro. Questo giudizio nasce dal fatto che c’è un intervento reciproco nelle due vite.

Il giudizio non c’è ad una sola condizione: se si è estranei. Solo con gli estranei non si sta sotto il giudizio dell’altro.

Tra persone che hanno un legame di affetto si è sotto il giudizio dell’altro perché, coscientemente, stare nella sua vita significa avere posto le cose più importanti di sé nella sua libertà.

Nella situazione tipica degli amori, se l’altro è libero io rischio, ma se l’altro non è libero non vale la pena, per cui si sta in un dramma: se l’altro rimane per pietà, è come non averlo. Però se si deve accettare il fatto che l’altro decida liberamente, continuamente, di stare, è un rischio continuo.

E’ la posizione tipica degli amori per cui molta gente evita il problema non giocandosi su un amore serio, ma mettendosi su situazioni un po’ più tranquillizzanti.

In questo senso siamo sotto il giudizio di Dio, cioè c’è questa libertà giocata: noi stiamo nella vita di Dio e Dio sta nella nostra vita.

E Dio, secondo Giovanni, ha giocato la sua libertà nel senso che il suo giudizio è emesso in Gesù Cristo. Dio sta nella nostra vita perché ha mandato il Figlio.

Nel Prologo del Vangelo, Giovanni usa la simbologia matrimoniale per parlare dell’incarnazione: prese carne e venne ad abitare in mezzo a noi. La carne e la casa comune. E’ molto chiaro per Giovanni che Dio ha già emesso il suo giudizio in Gesù Cristo. E dunque noi siamo l’altra libertà in gioco.

In questo senso fortemente è il giudizio di Dio sul mondo, non di resa dei conti, ma della radicale libertà giocata nella libertà di un altro per cui uno sa che non torna indietro e non sarà mai più uguale a prima.

Intervento: ma quell’uno lì è la creatura o il Creatore?

Tutti e due. Da parte del Creatore, in Gesù Cristo, il giudizio è già emesso. Paolo lo ripete continuamente.

Quindi chi può usare la libertà è solo l’uomo, perché Dio in Gesù si è già compromesso. Paradossalmente, il che non è vero filosoficamente, ma lo è in termini esistenziali. L’unico libero è l’uomo, nel senso che Dio si è già giocato. Ha giocato le sue carte e sta a vedere che cosa succede. Il suo giudizio è già dato in Gesù Cristo.

In qualche modo qui Giovanni spiega questa cosa con una potente immagine perché, come dice il Cantico dei Cantici, più forte della morte è l’amore. Per dire questo tipo di legame puoi solo usare immagini potentissime.

E’ il ragionamento di un innamorato disperato il quale deve assolutamente tirare giù tutto il peso che ha per convincere l’umanità di fronte a questo giudizio.

Ciò che si vede qui è chiaro. Tutti i movimenti dal basso sono una spirale inarrestabile di violenza: la stella che apre l’abisso. Ma anche dall’alto non è che arrivi tanto di meglio. C’è questa violenza potentissima che si incrocia come se avesse scelto quale terreno di battaglia la terra. E succede di tutto. E il senso finale è abbastanza negativo.

La cosa interessante però è che i soggetti di tutto il settenario delle trombe, a differenza del primo, parzialmente, ma molto differentemente da quelli che vengono dopo, sono gli angeli.

Nel primo c’è una popolazione completa: Giovanni, i giusti, i martiri, quelli che stanno sotto l’altare, gli angeli, i vegliardi, una gran folla. Qui sono angeli fino alla fine. Giovanni è spettatore, viene chiamato in causa solo sulla visione del piccolo libro. Tutto il resto è l’umanità.

Nei settenari seguenti pigliano più forza i soggetti umani.

In questo settenario Giovanni riprende tutto il discorso sull’economia dell’Antico Testamento dove gli angeli sono mediatori tra l’uomo e Dio. Ad esempio non c’è il Cristo. Arriva alla fine il mistero di Dio quando, infatti, tacciono gli angeli.

Questo settenario si apre con la visione dell’angelo che brucia incenso, poi prende l’incensiere e lo butta sulla terra. E’ proprio il culto angelico, l’Antico Testamento, l’immagine del culto nel tempio.

C’è la struttura che noi oggi chiameremmo religiosa, destinata a finire, e sulla quale c’è un giudizio negativo. Alla fine gli angeli taceranno e parleranno i vegliardi. Il culto angelico è destinato a finire.

Storicamente la questione è che Giovanni ce l’ha con il giudaismo, quindi deve cancellare gli angeli che sono molto presenti nell’Antico Testamento.

In termini di lettura come parola di Dio è il rifiuto di ogni sovrastruttura religiosa, di questo culto dell’incensiere, di questa struttura in cui tutti fanno le loro cose pie ed è destinato a finire, perché il mistero di Dio, nella settima tromba, deve prendere potenza.

Vedremo il piccolo libro come immagine della Legge, chiara per gli ascoltatori di Giovanni, che dà dolcezza in bocca, ma amarezza nelle viscere.

La Legge funziona così, ci dà apparente sicurezza, ma alla fine ci ammorba. E’ legge di morte in quanto non si può mai essere all’altezza di tutte le norme ed anche se ha un aspetto di dolcezza per cui uno dice: “Se sono buono devo fare così, se sono cattivo devo fare così, so come funzionano le cose, tutto è semplice”, poi c’è l’amarezza delle viscere perché i conti non tornano, alla lunga.

C’è tutta questo quadro che poi vedremo, visione per visione, per cui la corte angelica rappresenta l’Antico Testamento, ma anche l’aspetto religioso destinato a finire rispetto al tempo del mistero di Dio, cioè al momento in cui il giudizio da parte di Dio viene giocato con il Figlio.

Dall’altra parte Giovanni utilizza tutta la cultura apocalittica del tempo. Usa le immagini non a caso, ma nel rispetto di quelle che circolavano, che erano d’attualità in quel periodo e conosciute dai suoi interlocutori.

Questo per noi è una difficoltà.

La grande cultura apocalittica di quel tempo è anche sulla questione, degli angeli ribelli e l’angelo caduto: Satana, originariamente angelo buono, pecca d’orgoglio e diventa demonio.

Tutta la storia del demonio come l’altra faccia della corte angelica era di gran moda ai tempi di Giovanni ed egli utilizza questa struttura.

La grande stella che cade è Satana precipitato che apre l’abisso; Lucifero portatore di luce. Dietro c’è questo senso, che a me pare molto bello, sul quale dovremo un po’ ragionare, per cui Giovanni usa gli angeli per spiegare che la verità di questa grande lotta, il giudizio che si attua, in realtà viene in cielo, non in terra.

In termini moderni si potrebbe dire: le cose non sono mai quelle che sembrano. (Il piccolo principe: l’essenziale è invisibile agli occhi). Attenzione, non vi fate ingannare: gli eventi, la storia, ciò che accade, ciò che si vede, non è il senso ultimo. Il senso della battaglia, chi sono i buoni, chi i cattivi, chi è Satana e chi è Dio, dove sta la direzione della battaglia, non è visibile immediatamente.

Giovanni, usando la cultura del tempo, dice: è una lotta angelica, c’è un angelo precipitato per dire che è invisibile agli occhi.

Noi abbiamo una cultura più personalista ed usiamo un’altra immagine, ma il senso è che la direzione delle cose si gioca non dove io decido: faccio questo, poi quello, il mondo sarà salvato perché io ho fatto opere buone.

Il cristianesimo è tutta questa economia, perché la grande lotta è angelica ed avviene nel cielo, perché sono i cuori che corrompono o salvano, perché ciò che accade non è mai visibile al primo colpo, perché la grande lotta nella storia non è solo la mia lotta, delle mie piccole opere buone o cattive, ma è la grande sfida amorosa tra Dio e l’umanità. Quindi ha una potenza che coinvolge necessariamente il più tutti possibile e non può essere vinta da uno da solo.

Intervento: tanti uno fanno tutti.

Si, ma non tanti uno, ognuno per conto suo; tanti uno, nella logica della goccia nel mare di madre Teresa, cioè la visione in cui il mio uno è giocato insieme a tutti gli altri, non in cui ogni goccia corre per conto suo. E’ vero che tante gocce fanno un oceano, ma è vero che le tante gocce devono mettersi tutte allo stesso posto per fare l’oceano.

Questo è un po’ il quadro.

Quello che dice Giovanni è un’analisi pessimistica della storia, almeno fino al Cristo, ma non in senso cronologico: non l’Antico Testamento, poi dall’anno uno in poi è cambiata la solfa. Almeno finché Cristo sarà tutto in tutti, quindi fino al suo ritorno, Satana è dominante sulla terra, cioè il male prevale sul bene. Quello che si vede sulla terra, nei cieli è diverso.

Subito dopo questo c’è la famosa visione della donna che partorisce in cielo ed il drago che cerca di portarle via il bambino ma non riesce.

Immediatamente dopo Giovanni dice: attenzione, nei cieli il drago è tenuto a bada, non vi scoraggiate. Però in tutto il settenario quello che mostra la storia dove prevale il tono negativo, cioè sostanzialmente la famosa idea della valle di lacrime, era vera. E chiunque abbia vissuto un po’ seriamente sa che bene o male, pur essendoci modo e modo, dignità e dignità di starci dentro, l’analisi globale non è positiva. Il vettore totale è un vettore negativo.

Questa riflessione mi pare molto interessante perché a noi culturalmente dà fastidio.

Ci viene da dire che l’uomo ce la farà: da una parte abbiamo l’ideologia del progresso, anche perché viviamo nei paesi sviluppati dove la ricchezza, la cultura, il benessere sono crescenti; dall’altra siamo immersi in una cultura dei diritti e sulla scorta della costituzione americana abbiamo pure la sensazione, implicita o no, di avere diritto anche alla felicità. In fondo se ci succede qualcosa ci arrabbiamo e ci chiediamo perché; se siamo contenti e pacifici pensiamo che la vita fa il minimo del suo dovere.

Quello che Giovanni dice qui non è così. La vita ha un’economia di bene e di male che non assicura la felicità di nessuno, anzi, Satana è all’opera.

Questa è la tesi di Giovanni su cui, secondo me, varrebbe poi la pena di riflettere un attimo.

Tra il primo ed il secondo gruppo di trombe, a differenza dei sigilli, c’è un segno di interruzione che è l’aquila: “Volava nell’ alto dei cieli e gridava: guai, guai agli abitanti della terra…”.

L’aquila nell’Antico Testamento è immagine della cura amorosa di Dio che rialza e solleva, che porta in cielo, che porta alla luce e ripara sotto le penne.

A noi non suona più così ma tutti i salmi sono in questa direzione. L’immagine dell’aquila ha questa connotazione di cura che poi, nell’impatto con il mondo romano, nei primi secoli del cristianesimo, si è spostata sul pellicano che si ferisce per nutrire i piccoli. Quindi si è persa nel medioevo ed è scomparsa in quanto queste immagini legate al mondo dei volatili a noi non dicono più niente.

Quest’aquila che vola e preannuncia i guai dice che veramente tutto è sotto il segno di questo Dio che comunque cura, tiene sotto controllo e non lascia che le cose vadano per conto loro.

Come nel capitolo 1, Giovanni ha questo suono della voce come di tromba e viene riposto nella visione, esattamente come all’inizio; c’è tutta una serie di segni di continuità, di immagini che tornano.

Vediamo ora almeno la lettura del proemio che è la visione dell’angelo con l’incensiere.

Il capitolo 8 dice: “Vidi che ai sette angeli ritti davanti a Dio furono date sette trombe. Poi venne un altro angelo”.

I sette angeli ai quali vengono date le sette trombe: il solito sette, la totalità, gli angeli fedeli a Dio. Tutti più uno. L’angelo dell’incensiere è una sovrabbondanza, più che tutti.

“Gli furono dati molti profumi perché li offrisse insieme con le preghiere di tutti i santi”.

E’ proprio l’immagine del culto, della liturgia e della intermediazione. Questo titolo dice che si sta parlando dell’Antico Testamento perché per i cristiani e per Giovanni è molto chiaro che Cristo è il mediatore. Dunque sta parlando dell’economia antica. C’è poi l’interruzione molto brusca:

“Poi l’angelo prese l’incensiere, lo riempì del fuoco preso dall’altare e lo gettò sulla terra”.

Questo piccolo proemio è, in qualche modo, il riassunto di tutto quello che verrà dopo.

Un’economia religiosa che funziona tutta per bene viene bruscamente interrotta da un giudizio di Dio sulla storia, da qualcosa preso sull’altare che piomba sulla terra: clamori, fulmini e scosse di terremoto. Sono gli stessi segni che Giovanni racconta nella Passione e Morte di Cristo.

Il terremoto è una costante di Giovanni; lo attribuisce alla morte di Cristo ed è sempre il segnale dell’interruzione.

Questo breve proemio è una specie di titolo di tutto il settenario.