Storia della Chiesa (V)
Gruppo del venerdì
Febbraio 2001
Il periodo che sta a cavallo del decimo secolo mi piace molto e mi diverte anche se molte persone non condividono quasi mai i miei ragionamenti. La premessa generale è che mi piace perché viene considerato tempo di secoli bui, X e XI secolo, soprattutto per la storia ecclesiastica; tempo di macinamento, di decadimento, anche se, quando nella storia ecclesiastica diciamo decadimento, pensiamo al 1500-1600, a papa Borgia, ad esempio.
Di questi secoli, in genere, a livello comune di conoscenza non si sa semplicemente nulla, non si ha idea di cosa sia successo. A me invece interessa molto questo periodo ed è forse quello che conosco meglio perché, secondo me, è un fondamento e consente la comprensione del modello, dellala forma nel senso forte, cioè di tutto ciò che costruisce la forma del cristianesimo che raggiungerà la sua sintesi positiva tra il 1200-1300, e conformerà i secoli seguenti fino a Vaticano II.
Sono anni molto particolari, di contaminazione di culture, di contaminazione tra cristianesimo ed eresie, di scarsa purezza dottrinale, di poca sistematicità. Anni molto confusi, ma capaci di produrre una sintesi con una durata molto superiore al modello ideale dei primi secoli che noi abbiamo in mente e che, nella realtà, resiste poco più di un secolo. E’ una sintesi, quella delle origini, realizzata da un momento particolare, con peculiari condizioni per quasi cento anni, ma che velocemente si sbriciola.
Invece nel crogiolo di compromissione, l’essere contaminati ed il contaminarsi con culture e modi diversi, l’essere anche un po’ rozzi e quindi senza paura, perché nella rozzezza non si capivano tanto i rischi, sono stati compiuti molti errori di cui, per alcuni versi, paghiamo ancora il prezzo, ma contemporaneamente si è costruita un forma di creatività, di vitalità e di durata che praticamente non è mai più stata raggiunta.
E la mia tesi personale è che noi, oggi, siamo più o meno nella stessa condizione, ma con una grande paura, sia come istituzioni sia come singoli, e con un’incapacità di contaminazione abbastanza forte. Avremo la necessità di trovare veramente una nuova sintesi, una nuova forma perché quella attuale, propriamente dentro la cristianità, è consumata. Piantata in crisi radicale nel cinquecento-seicento, si è trascinata agonizzante per quattrocento anni perché la centralizzazione romana l’ha tenuta compressa, ferma, immobile, ma è degradata ed esaurita. Non c’è più nessuna utilità in questo disegno, in questo profilo di chiesa che si è mirabilmente formato, dall’elaborazione delle opzioni personali (il rosario come noi lo conosciamo, l’uso del salterio, la modalità di molte preghiere, quindi la spiritualità personale, la devozione, nascono in questo periodo) all’organizzazione giuridica, economica, strutturale delle chiese. Su tutti i piani, il novanta per cento di ciò che noi oggi consideriamo funzionamento della chiesa, nasce in questo tempo e perdura in modo incredibilmente creativo.
Secondo me, noi avremmo la grande necessità di trovare una formula analoga, ovviamente diversa. Mi affascina studiare come i personaggi di quel periodo si sono mossi intorno ai problemi per vedere se la metodologia rimane quella, pur con altri questioni ed altre soluzioni.
Dalla fine dell’ VIII secolo, dopo il primo tentativo di Carlo Magno di dare una forma per la rinascita di una cultura di corte legata all’idea dell’impero, che però è anche una cultura liturgica, c’è un movimento, un punto critico tendenzialmente sottovalutato, ma molto grave, perché, una volta tanto, non nell’immaginario della gente ma nella realtà, crea un crinale di rottura: è il trattato di Verdun, quello in cui il regno di Ludovico, ultimo discendente dei Franchi, viene diviso in tre parti. Le tre zone sono più o meno: la Germania attuale riunificata, con praterie intorno fin dove ci si arrivava; l’area franco-spagnola e poi un corridoio che dal mare del Nord arrivava alla Sicilia.
Ciò che noi abbiamo studiato a scuola, tutta la storia dei microregni fino ai Comuni, riguarda il corridoio centrale il quale, per intenderci, era ciò che i Balcani sono stati dalla seconda guerra mondiale ad oggi, cioè una striscia cuscinetto della cui rissosità tutti si lamentavano, ma trovavano assolutamente comodo che rimanesse disunita e possibilmente in ebollizione perenne, senza diventare troppo esplosiva in modo da essere tenuta sotto controllo, però capace di funzionare da separazione, ma anche da motivazione alla pace dei due grandi blocchi che andavano creandosi. Quando, ad esempio, si dice che gli italiani non hanno senso dello stato nazionale, si dice una cosa che, in qualche modo, ha una parte di verità risalente fino a qui. In fondo quel senso di unità nazionale, di unificazione che l’area francese e tedesca cominciano ad avere dal decimo secolo in poi, noi praticamente non l’avremo fino all’ottocento.
Questa divisione in tre del grande impero era per l’ottanta per cento sulla carta, senza confini, passaporti, anagrafi. Il punto di cesura dipendeva da quanto si allargavano i singoli prìncipi, fin dove coltivavano, dove esercitavano lo ius primae noctis e quindi si spostava a seconda della forza di uno o dell’altro. Essa rimane anche relativamente sulla carta per quanto riguarda la nascita dei centri di studio: non è un caso che i tre grandi nuclei, futuri centri universitari, siano Bologna e Venezia, l’area centrale, Parigi e poi l’area del cosiddetto distretto delle università tedesche con Tubinga, Heildelberg e Freiburg, perché sono i tre punti tendenzialmente confinanti, un triangolo di queste tre zone di influenza che stanno nel centro della possibilità di commercio e di spostamenti senza troppi guai.
In seguito, a nord, dal 1200 in poi, ci saranno la guerra dei cento anni e le Fiandre con tutto il loro caos; a sud l’andirivieni mediterraneo, di là si allargheranno di volta in volta le varie popolazioni migranti dall’est e quindi il cuore centrale sarà quello che riuscirà a conservare una possibilità di comunicazione e di conoscenze.
Qui sta il crinale: questo piccolo e sconosciuto trattato di Verdun divide l’idea dell’impero franco in tre zone e subito viene a crearsi un problema, perché la dignità imperiale, non tanto l’imperatore, ma l’idea dell’imperatore come potere assoluto, universale, comincia a saltare. In questo noi abbiamo un esempio molto moderno: presidente degli Stati Uniti e presidente russo, Kennedy e Kruscev, fino a quarant’anni fa significavano, nell’immaginario collettivo, i potenti del mondo, al di là del dato legale che dava loro grandi poteri. Non è un caso che la figura di questo Papa così visibile, emerga nella misura in cui non esiste più l’identificabile potente del mondo. Teoricamente dovrebbe essere il segretario delle Nazioni Unite, ma nei fatti non ha l’autorevolezza necessaria.
La figura imperiale che aveva funzionato o no nella realtà, a seconda dei momenti, serviva da referente di unità mentale della vita, ma la spartizione in tre regni sancisce che tutto ciò non esiste più. Questo crea, nell’immaginario, un forte vuoto di autorità scatenando una serie di guerre civili e provocando nel corridoio centrale continue scorribande sia in verticale che in orizzontale per cui troviamo i siciliani con gli occhi azzurri perché i normanni sono arrivati fino in Sicilia. Ma è la strutturazione solida in questo modo che consente tutto il caos.
Interessante è vedere come si muovono le reliquie perché in questo periodo chi scappava se le portava via così come chi invadeva se ne impossessava come segno di conquista del territorio. La conseguenza di ciò è la nascita del commercio di reliquie e, se si segue il loro percorso nell’Europa, ad esempio quelle famose di S. Martino di Tours, si può ricostruire tutto un movimento di guerre, di sovranità.
Domanda: anche Nicola di Bari?
Sì, ma Nicola viaggia meno, non supera mai certi livelli, però l’uso di S. Nicola al nord transita su questo passaggio. Ad esempio in questo periodo c’è un regno magiaro in Borgogna nel senso che i due assi stabiliti dal corridoio nel suo attraversamento in orizzontale, diventano la via di comunicazione. I Saraceni continuano ad imperversare, ecc.
Per circa un secolo c’è un’instabilità totale. Il villaggio e le persone ad esso legate abbassano il loro livello di vita e di appartenenza, per cui, quello che noi usiamo definire campanilismo, nasce in questo periodo: il piccolo gruppo di persone che si conosce come già si conoscevano i loro antenati, sa che si può fidare perché tutti sono ben radicati nel territorio, si compatta al massimo tentando, nel livello basso di popolazione, di stare sott’acqua rispetto al passaggio per avere il minor danno possibile, attraverso un atteggiamento di attesa nella convinzione che la tempesta passerà.
Mentre il “civis romanus”, a torto o a ragione, pensava sempre che “tutto succede, ma l’impero resta”, nel senso che Roma era eterna, qui l’atteggiamento mentale è esattamente contrario “tanto tutto passa, lasciamo che facciano, le guerre sono dei potenti che ci hanno sfruttati “. Il tentativo è quello di defilarsi. Non sarà un caso che, un secolo e mezzo dopo, la grande opera di stabilità comincerà ad essere data dalle cattedrali, cioè, l’uscita da un periodo di perenne instabilità, si avrà con una grande operazione simbolica proprio in questo triangolo europeo attraverso la costruzione delle grandi cattedrali, segno della ritrovata stabilità non più intorno ai castelli ma intorno ai vescovi.
Questo è il passaggio alla cristianità, è esattamente ciò che succede: crollato l’impero, c’è un tempo in cui tutti dicono che tutto passa chiedendosi quando sarà che si potrà reinvestire sul futuro. Ed è in questo tempo che tali costruzioni prendono il nome di “cattedrali” che deriva da cattedra: il vescovo diventa governatore, ministro religioso ed insegnante. Qui si struttura quello che si chiama il triplice “munus”, quella triade che oggi sta anche nel codice di diritto canonico, cioè che il vescovo ha potere di insegnare, santificare, governare.
E qui, per esempio, nasce l’idea che i preti devono dedicarsi a tempo pieno all’impegno del prete, mentre fino al mille avevano tutti un lavoro.
Il passaggio di: stabilità dell’impero, instabilità radicale, stabilità costruita intorno alla struttura religiosa, provoca i cambiamenti. In questi anni, intorno al mille, inizia la pratica del celibato ecclesiastico che prima non c’era.
Domanda: il senso del governare significa proprio governare politicamente?
Certo, i villaggi che, vedendo passare orde varie e gente di ventura, trovano ad un certo punto chi si prende cura di loro, manda i suoi armigeri in aiuto, accettano ben contenti, anche se non è più il padrone del castello. Non hanno il problema nostro della commistione Stato e Chiesa perché non esiste il concetto di Stato né quello di Chiesa come noi abbiamo oggi. E’ la nascita di quello che noi chiameremmo oggi le istituzioni.
In questo sistema diventa punto di riferimento fondamentale la vita monastica che già aveva per prima pensato un modello totale di convivenza, la coltivazione dei campi, il denaro. Cluny ad esempio in questo periodo stampa il proprio denaro, ha la zecca di se stessa. E’ un’autosufficienza che in tempi così confusi viene vista come un porto sicuro: diventare converso con la propria famiglia, le poche pecore, l’asino, in un monastero non a caso circondato da mura, ed avere una grangia da lavorare, era considerato una pacchia di vita anche se poi si dovevano consegnare gli otto decimi del raccolto all’abate; ma, se la grandine non permetteva raccolto, venivano dati dall’abbazia i due decimi rispetto alla misura dell’anno precedente. Per un contadino di quei tempi questo significava la differenza tra la morte e la vita e quindi la protezione.
Dopo un secolo circa di tale situazione c’è il primo tentativo, (e da qui fino al 1500 i tentativi si ripeteranno con la durata di cinque secoli, solo perché l’evoluzione era più lenta; oggi sarebbero durati cinquant’anni) di restaurare l’impero che da entità funzionale, diventa entità mitica. Si comincia a dire il Sacro Romano Impero per tornare indietro, il che è un tipico movimento perdente nella storia.
Alla fine del X secolo un sovrano tedesco, Ottone I, cerca di rimettere insieme l’impero. In realtà non andrà al di là dei confini della Germania. Quando proverà un Franco, rafforzerà la Francia, ma nessuno riuscirà mai a riagganciare i due mondi che vanno progressivamente differenziandosi.
In questo periodo c’è una fase molto forte di inizio di intromissione o di occupazione di un vuoto da parte delle strutture ecclesiali. Ma non pensiamo le strutture ecclesiali come noi penseremmo oggi il Vaticano; questa è una centralizzazione successiva. Sono i singoli vescovi che in genere, bene o male, con lungimiranza storica o con miopia, agiscono a partire da situazioni molto concrete, cioè da ciò che alla loro gente accade. Poi, naturalmente, ci sono vescovi più lungimiranti i quali realizzano progetti funzionanti sul lungo periodo, altri che combinano guai con ripercussioni su loro stessi o di cui noi, dopo 7 – 8 secoli, vediamo gli effetti negativi.
Ma il primo modo in cui l’ intromissione comincia ad entrare è sul tentativo mitico di restaurare l’impero perché, sulla memoria dell’incoronazione di Carlo Magno e dell’autorità come discendente da Dio, tutti coloro che tentano di restaurare l’impero, cercano di accaparrarsi la benedizione del Vescovo di Roma o almeno di quello locale in quanto ciò diventa un accreditamento. Succede però che molti di questi non sono battezzati perché barbari o ancora ariani. Allora nasce l’idea del “cuius regio, eius religio” nel senso che, ad esempio, questi imperatori trattano il loro battesimo dicendo: “Io mi battezzo, mi impegno a far diventare cristiano il mio regno, ma tu benedici i nuovi imperatori”. Ed infatti si incomincia a chiamare il Sacro Romano Impero dove l’aggettivo sacro viene appiccicato come credenziale. Ciò si verifica a ripetizione anche fuori da questa area: il cosiddetto battesimo della Russia (989) è di questo periodo.
Su questa questione nasce quello che tutti abbiamo studiato a scuola come sistema feudale. Mentre il tentativo cosciente è quello di restaurare l’impero, ciò che in realtà accade è la costituzione di un sistema nuovo, quello feudale, con un altro tipo di andamento: l’impero veniva costruito sul modello di quello romano, centralizzato, a piramide; il nuovo che si mette in atto è una radicale novità. In questo senso parlavo di contaminazione molto creativa.
Nasce dunque il sistema feudale che è quello incrociato tra pari: un feudatario che bada al suo potere su un grande possedimento terriero in cui l’accoppiamento è terra-potenza. Terra comprende anche i contadini, i soldati di ventura e tutto quanto c’è sopra. I feudatari quindi agganciano delle clientele: vassalli, valvassori, valvassini che, a ricaduta, garantiscono alcune cose offrendo in cambio protezione. E’ un sistema di riconoscimenti incrociati, grandissima novità perché si può considerare l’antefatto della democrazia perché spezza l’idea di un’autorità solamente verticale e costruisce, per la prima volta in occidente, una serie di sistemi paritetici in cui esistono livelli diversi e, a pari livello, si trovano concordanze, ragionamenti, alleanze. Un feudatario stringe alleanza con un altro feudatario, ma è un vassallo a farne una con un altro vassallo: è una ripartizione del potere.
E’ interessante leggere come si stabiliscono alcuni principi. Ad esempio:
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contano solo i confini che gli uomini stabiliscono tra loro con un giuramento. Quindi i due che occupano uno spazio, tracciano una linea, definiscono il confine e giurano tra loro di rispettarlo;
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la terra appartiene al guerriero che la difende;
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non esiste mai un’autorità terza chiamata a convalidare.
Di fatto si stabiliscono due “classi”: i guerrieri ed i proprietari. Comincia a configurarsi quella che sarà la stratificazione sociale.
La chiesa, però, nel secolo di interregno, aveva occupato una serie di spazi. Molti vescovi erano stati guerrieri che avevano difeso dei territori, sicché, spesso, per acclamazione popolare, certi contadini che erano stati sotto vescovi, non accettavano di passare ad un principe, magari sconosciuto, e continuavano a tenere il vescovo. Nascono perciò i vescovi-prìncipi, in quanto la chiesa, senza scegliere e decidere in qualche modo, viene a trovarsi nella condizione di dover entrare in questo sistema.
Intervento: e vicaria il potere …
Sì, esattamente, ma soprattutto si trova sia dalla parte dei guerrieri che dalla parte dei proprietari, con vescovi guerrieri e vescovi proprietari, al punto che il sistema feudale viene spiegato come i tre stati: alto clero, proprietari, guerrieri perché essi finiscono per essere una figura terza che, progressivamente, li farà diventare, non una, ma la figura terza che il sistema feudale non aveva.
Quindi tutte le volte viene concesso più arbitrato per cui, ad esempio, se sorge un problema tra il signore ed i suoi mercenari, non si risolve con un conflitto tra di loro perché perdente sarebbe il signore; questi perciò si rivolge al vescovo. Ciò, ovviamente, crea un accumulo di potere pazzesco, progressivo ma anche relativamente veloce.
Da qui ha inizio quello che si rivelerà un dramma: poiché alcuni vescovi, avendo difeso i villaggi, possiedono della terra, si passa all’idea che ogni vescovo ha diritto a della terra. Il passaggio, come un sillogismo, è socialmente automatico. Quindi nasce l’idea di beneficio ecclesiastico: la diocesi x possiede determinati possedimenti; l’abate di Lerins aveva possedimenti in tutta la Provenza, poi Genova, Venezia, Pisa, le repubbliche marinare.
Intervento: e il passaggio di proprietà non avveniva di padre in figlio, ma di vescovo in vescovo
Sì, e questo crea il problema dell’elezione dei vescovi perché, quando sono in gioco gli interessi, non si può mantenere l’elezione per acclamazione popolare che, d’altro canto, è comprabile, manipolabile dai principi vicini.
Allora il Papa àvoca a sé il diritto di nominare i vescovi come criterio di cura pastorale. L’idea è di Gregorio Magno perché il Papa non ha come primo riguardo il pensiero del beneficio, ma la cura di ogni porzione di anime. Ed in quel momento era vero perché non era il Papa come noi lo pensiamo oggi, ma il vescovo di Roma, lontano in genere dagli altri e quindi, molto banalmente, senza interessi in gioco.
Perciò, l’attuale nomina pontificia dei vescovi, che noi oggi sopportiamo malissimo chiedendoci perché non si ritorna all’uso originario per acclamazione, in realtà nasce contro gli abusi.
Questa questione mano a mano si svilupperà: ad esempio vescovi principi incominciano a dotarsi di eserciti; le diocesi meglio servite sono le più desiderate e tutto ciò produce un certo caos.
La questione dell’elezione dei vescovi, cioè di chi nomina il vescovo, si manifesta qui ed arriverà di fatto fino a Lutero, perché tutti i tentativi di riforma che i vescovi di Roma o i Concili faranno in questi secoli, per cercare di dare un ordine all’inserzione della Chiesa nel sistema feudale, restano solo sulla carta, non funzionano fino a Trento che, essendo cambiate le situazioni, riuscirà ad imporre una riforma reale. Succede semplicemente che, nascendo una spaccatura di tipo confessionale con i luterani, l’elemento dell’elezione diventa discriminante per capire chi è cattolico e chi non lo è. Esempio: se si dice che portare la cravatta o no distingue l’appartenenza ad un gruppo x anziché y, non è come imporre l’obbligo di indossare la cravatta. Ma se si dice che chiunque porta la cravatta è del gruppo x e chi non la porta è dell’altro, a seconda di dove ognuno vuole collocarsi, mette la cravatta.
Così, quando con Lutero questo accadrà, cioè si dirà: i vescovi nominati da Roma sono fedeli al romano pontefice, quelli nominati dai principi sono luterani, non ci sarà bisogno di imporre un ordine, ma i vescovi e le diocesi si divideranno sull’obbedienza a questo principio. Quindi in realtà la questione dell’elezione dei vescovi si apre nel 1000-1100 e resta un marasma fino al 1500 per cui, obiettivamente, si trova di tutto: vescovi popolari, vescovi nominati o vescovi riconosciuti da Roma. Di ciò noi abbiamo ancora alcuni segni: esistono in Europa alcune diocesi con il privilegio della nomina del vescovo da parte dei canonici della cattedrale che sono comunque dei cardinali in piccolo i quali segnaleranno, con il nuovo codice, una terna e Roma potrà scegliere tra quei tre. E’ un piccolo segnale della enorme diversità che veniva attuata. Molto spesso, a fronte delle riforme che i vescovi di Roma cercavano di attuare da lontano, i Capitoli delle cattedrali si rifiutavano di far nominare il vescovo dal feudatario decidendo di provvedere loro stessi alla nomina perché erano abbastanza autonomi.
Su questa vicenda è da notare che il feudo episcopale è un feudo-plus, non solo normale, perché il vescovo riceve pastorale e spada, cioè il governo spirituale oltre che il governo politico e quindi tale feudo, in genere, possiede una dignità più ampia del proprio territorio feudale nel senso che governa sul piano spirituale anche i vicini che non sono episcopali. Esercita autorità spirituale su tutti i feudi laici del circondario e l’autorità amministrativa nel suo. Questa faccenda, che a me pare allucinante, all’inizio è vista malissimo per il fatto che non bisognava avere l’autorità spirituale. A noi oggi dà fastidio l’autorità politica, invece per loro il ragionamento era esattamente opposto: se un feudatario deve occuparsi delle cose del suo feudo, aver cura della sua gente, nutrire i contadini, perché deve occuparsi d’altro? Il che dice qual era il livello dei vescovi.
Secondo me, anche qui, sarebbe necessario fare qualche riflessione sull’opinione corrente circa l’interventismo della chiesa sulle “cose” della società. Ad esempio, da un lato riteniamo che la chiesa debba battersi contro la pena di morte, dall’altro esprimiamo obiezioni quando si schiera per la scuola cattolica privata.
Qui occorre fare qualche pensiero più articolato. Non so esattamente quale sia la soluzione, dico soltanto che non bisogna fidarsi della prima impressione. Ovviamente è chiaro dire che un vescovo debba occuparsi di cose spirituali. Credo che ci troviamo di fronte ad un nuovo feudalesimo in cui le grandi proprietà non sono più quelle terriere ma i cosiddetti poteri forti delle televisioni, delle banche, ecc. C’è un nuovo feudalesimo di cui uno degli esiti visibilissimo è il sistema tangentizio. Al di là del piccolo delinquente che esiste in tutti sistemi, l’opinione generale indotta dai media funzionali al potere, è che non vi è nulla di male nel sistema di privilegi che avvolge la società con la sua corruttela in quanto c’è una percezione di questi rapporti feudali, di vassalli, valvassori, valvassini a ricaduta ed i legami di reciproca protezione come l’unico modo per sopravvivere. Mi pare che la chiesa in questo momento stia esattamente annaspando per trovare soluzioni volta per volta e, dopo averle trovate, inventi il criterio, esattamente come è stato fatto in questo periodo, con il rischio che fra qualche centinaio di anni potrebbe verificarsi un nuovo scisma. Stiamo mettendo le buone basi per creare una tale confusione per cui, ad un certo punto, qualcuno praticherà uno strappo, forse non in quella forma ma più silenziosamente, però mi pare che la situazione sia, per alcuni versi, molto simile.
Il grande, inquietante problema di quei secoli è che la chiesa non dovrebbe perdere tanto tempo per le cose spirituali, ma occuparsi del suo feudo, perché questa è la realtà, della costruzione della città di Dio che deve essere un feudo giusto e può diventare faro altri.
L’esito di tutto ciò sarà la Cavalleria e la grande mitologia ad essa legata. I feudi episcopali inventeranno questa grande istituzione. La difesa dei deboli, tutte le saghe sui cavalieri, la Tavola Rotonda, l’ordinazione nella cappella, l’onore del cavaliere, sono invenzioni dei vescovi feudali che, nella gestione dei loro feudi, tentano di dimostrare che cosa significa applicare l’ordine di Dio alla vita. Possiamo discutere sulla soluzione trovata e su quanto sarebbe applicabile oggi, ma l’essere stati capaci di mettere in moto un progetto culturale tale che ancor oggi si vedono film su Lancillotto, significa che ha mosso l’immaginario, tanto che ancora oggi diciamo ai bambini che bisogna essere leali, rispettare la parola data insegnando la separazione delle cose brutte dalla altre.
E oggi quale problema hanno i cristiani? Quello stesso: sono stati divisi nettamente i due campi senza risolvere nulla.
E dove ci si muove si sbaglia, nel senso che o si fanno puri discorsi generici: essere gentili, pazienti, altruisti, o si prova a costruire una nuova visione del mondo. Ad esempio che cosa vuol dire oggi pensare ad una neocavalleria, cioè ad una regola per una vita all’insegna del regno di Dio? Quali leggi darci? Pensiamo a tutto ciò che nell’ottocento è diventato l’immaginario sull’uomo per bene: colui che manteneva la parola data, non faceva del male a nessuno, non avrebbe fatto passare un pellegrino senza dividere ciò che aveva, poco o tanto che fosse. Questo immaginario è la mediazione culturale operata dai vescovi feudatari con l’invenzione della Cavalleria mettendo insieme una serie di elementi culturali allora esistenti.
Noi, oggi, viviamo quell’immaginario come formale perché non ci funziona più, ed è vero. Ma l’immaginario che noi oggi riusciamo a creare è, al massimo dei massimi, un cristianesimo sociologico tipo il volontariato e la Caritas. Oppure, all’estremo, tutti gli integrismi. Nel dato positivo, il massimo che siamo riusciti a creare è l’immagine del volontariato che, non a caso, ha un megasuccesso e riesce a muovere tante persone incrociando tutta una serie di dati di realtà tipici di questa società, ma è un tipo di immagine che è riuscito ad intercettare tante condizioni diverse: giovani delusi dalla politica, pensionati …..
Intervento: il volontariato ha solo sostituito le confraternite che erano la stessa cosa, anzi un tempo erano molto più diffuse. In Fossano, alla confraternita partecipava dal trenta al trentuno per cento della gente. Un altro ordine di grandezza rispetto ad ora. Era molto di più.
Sto parlando in termini di potenza di immaginario. Se tu oggi dici il dogma della Trinità, il novanta per cento degli italiani non sa di cosa stai parlando, Se dici la parola “volontariato”, poco o tanto, bene o male, credenti o non credenti, hanno un’idea di che cosa stai parlando. E’ un prodotto culturale per cui quello che tu dici avvalora ancora di più, cioè pur essendo una cosa non così potente nella realtà come in altri periodi, ha nell’immaginario una potenza comunicativa molto grande.
Domanda: ci sono anche i media che contribuiscono a pubblicizzarla?.
Non solo, perché è una figura che riesce ad intercettare persone molto diverse dando un’immagine di contentezza, rilevanza possibile, fattibilità, gratificazione. Questo è il massimo che il mondo cattolico ha culturalmente prodotto nell’ultimo secolo di commerciabile. Popolo di Dio sono belle parole, ma fuori dai circoli ristrettissimi di addetti ai lavori non hanno una simile presa.
Domanda: ha una visibilità mondiale oppure…
Tendenzialmente nel mondo ricco. Questo è un altro elemento di novità rispetto al periodo di cui stiamo parlando ed è che c’è una realtà nettamente divisa tra in mondo sviluppato e non. E’ chiaro che ora mi riferisco al mondo figlio di questa storia e di questa cultura nella quale è l’unica figura culturale, oggi, di presa di prodotto del mondo credente come elaborazione fruibile da tutti. Mi chiedo se la potenza ordinatoria ed immaginifica della Cavalleria sia molto di più; in tempi più confusi, più complessi, senza media, in cui non era banale far circolare.
Intervento: allora il potere vero era nelle mani dei vescovi?
Non lo avevano se non nei loro feudi che erano microcellule nel caos. Non esisteva un’entità centrale. Infatti la crisi del feudalesimo provocherà la centralizzazione romana proprio come necessità di non essere schiacciati in questo gioco dei principi che spostano le caselline. Il potere in senso moderno del termine, paradossalmente l’hanno maggiormente ora.
In questa fase, proprio perché non c’è una centralizzazione, non esistono criteri che noi oggi definiremmo di selezione del personale, non ci sono criteri generalizzati per l’elezione dei vescovi, succede di tutto e di più. Così, da un lato si hanno ottimi vescovi, santi vescovi, santi monaci, dall’altro il peggio. Dodicenni che, manovrati dalle famiglie, diventano vescovi per unire feudi vicini con grandi manovre perché manca il governo centrale. Questa fascia di incidenza, miseri vescovi e cattivi papi, andrà crescendo fino al 1500.
Non sto dicendo bellissimi secoli, anzi, grande caos, grandi contaminazioni, grandi errori, però anche una grande capacità creativa.
In questo tempo scoppia la questione sul celibato soprattutto, come sempre, sugli abusi, cioè sul fatto che alcuni vescovi feudatari, per essere dismessi, vengono accusati di avere troppe mogli: cinque, sei, sette, o di non aver cura di tutti i loro figli. Inoltre i vescovi, non possedendo feudi ereditari, hanno il problema di sistemare i figli cadetti e quindi la cosa si complica.
Allora, vorrei, molto brevemente, aprire una parentesi sulla questione del celibato dal punto di vista di evoluzione storica, così ce la spieghiamo una volta per tutte. Dal punto dell’evoluzione giuridica vi do l’interessante notizia che l’obbligo del celibato ecclesiastico, in termini giuridici come noi oggi lo conosciamo, viene definito nel 1917, nel vecchio codice di diritto canonico, perché nell’ 83 è stato compilato quello nuovo. Bisogna attendere tale codice del 1917 perché venga detto che il matrimonio costituisce un impedimento agli ordini e dunque sia imposta esplicitamente la legge del celibato ecclesiastico. Dal punto di vista giuridico, formale, di legislazione chiara, si dice che il matrimonio è impedimento.
La questione nasce così: Paolo dice, nel Nuovo Testamento, che sceglie di non sposarsi per essere più disponibile al Vangelo, ma aggiunge che non esiste regola su questo. Nelle sue pastorali l’unica regola data è: piuttosto che ardere, meglio sposarsi. La sola prescrizione concernente il matrimonio in tutto il N.T. sta nelle pastorali in cui si dice: bisogna che il vescovo, nemmeno i presbiteri, sia sposato ad una sola donna.
Questa regola per secoli è stata interpretata non come ci viene da immaginarla in termini antipoligamici, (nel mondo greco la poligamia non era praticata), ma come il divieto di ordinare vescovo un vedovo risposato, o un separato, perché in quel momento non c’è l’idea che il matrimonio sia un sacramento. I matrimoni erano quelli civili, romani, greci o delle nazioni dove la gente viveva, erano un contratto inscindibile nella quasi totalità, con modalità e condizioni di scioglimento a seconda delle culture e tradizioni per cui si poteva stipulare un altro contratto rispettando le regole stabilite. E’ quello che noi oggi chiameremmo divorziati-risposati.
Il matrimonio era quindi un atto puramente civile rispetto al quale l’esperienza religiosa non aveva nulla da dire se non che era meglio per un vescovo essere sposato ad una sola donna. Come a dire: se uno non sa scegliere per sé, organizzando la propria vita nell’ordine, non si capisce come possa organizzare la vita della chiesa. Questo era il criterio, dello stesso tipo per cui Paolo sostiene che un vescovo non deve essere un ubriacone perché, se è così scontento della propria vita, come fa a rendere contenti gli altri ? Sono norme di buon senso.
Nei primi tre secoli nessuna legge, sia in occidente, sia in oriente, vieta l’ordinazione di uomini sposati, né chiede ai presbiteri sposati di astenersi da relazioni coniugali. Egualmente non sembra ci sia obiezione al presbitero celibe al momento della sua ordinazione, in seguito si sposi. Tuttavia la valorizzazione dell’ascetismo e della verginità fa pensare che sia più perfetto teoricamente per un presbitero restare celibe o astenersi dalle relazioni coniugali se sposato. Ma è un sentire perché non esiste alcun tipo di norma in proposito.
Intervento: la valorizzazione nasce dall’ascetismo di S. Paolo?
Sì, ma anche da quello dei padri del deserto e da una sostanziale sessuofobia della cultura, non del cristianesimo che poi però se ne impossessa. La sessuofobia è originaria del mondo latino mentre non esiste in quello greco. Il mondo ebraico e quello latino colludono su una forte sessuofobia di origine culturale, in seguito il cristianesimo la assume.
Nel IV secolo si ha una prima regola rispetto a questa questione e, sia in oriente che in occidente, viene sancito il divieto del matrimonio dopo l’ordinazione. Quindi si lega al presbiterato ed all’episcopato la necessità della stabilità affermando che l’ordinazione sacerdotale è segno della maturità piena della scelta sulla vita, in quanto a quel punto si deve aver già scelto le altre cose. Questo mostra che il matrimonio è considerato scelta secondaria, ma non la massima delle scelte possibili: si scelgono una serie di cose, come la professione, e quando la vita è sistemata si può accedere all’ordinazione. Il principio è che ciascuno deve essere fedele al primo legame contratto: matrimonio o ordinazione, ma non si escludono, sicchè se uno prima è ordinato, poi rimane tale e basta; se prima è sposato, può essere ordinato, ma non può più cambiare né separarsi.
Domanda: attualmente i greci ortodossi si sposano?
Sì, ma anche i cattolici di rito bizantino. In Italia saranno un’ ottantina i preti cattolici romani sposati e sono in perfetta unione con Roma.
All’inizio del IV secolo non esiste ancora distinzione tra matrimonio ed uso del matrimonio. Poi invece si spaccano i due aspetti per cui sul matrimonio non ci sono problemi, ma si iniziano a porre difficoltà sulle relazioni sessuali in relazione al ripristino di usi di purità rituale del mondo ebraico. Quindi, ad esempio, si fanno questioni, non tanto sui maschi quanto sulle donne, sul fatto che, come nel mondo ebraico il sommo sacerdote per otto giorni non poteva entrare nel tempio se aveva avuto rapporti sessuali perché doveva prima purificarsi, così il sacerdote ordinato non può presiedere l’eucarestia per otto giorni. Quando ciò, nel VI secolo, colliderà con l’inaugurazione della messa quotidiana, il gioco è fatto.
In occidente alcuni Concili iniziano a consigliare ai vescovi l’astinenza coniugale, ma è alla fine del IV secolo la prima volta in cui si trova scritta tale questione. Nel VI secolo in oriente rimane la prassi antica e rimarrà anche nei giorni nostri; in occidente il vescovo di Roma chiede a tutti di imporre l’astinenza coniugale ai vescovi ed ai presbiteri, ma possono continuare ad abitare con la loro sposa. La dimostrazione che il matrimonio era un puro contratto di rito civile è anche in questa distinzione: non fa problema l’idea del matrimonio, ma comincia a coagularsi sulla questione della purezza rituale. Nel VI secolo in oriente si stabilisce la prassi che esiste ancora oggi, cioè si mantiene la situazione che si ha allo stato di diaconato: quando si è ordinati diaconi, se si è sposati si resta sposati, se si è celibi si resta celibi. Per diventare vescovi bisogna essere scelti nel clero celibe. Se un uomo sposato è scelto come vescovo gli è imposto il divorzio, deve continuare a mantenere la moglie, ma deve separarsi da lei anche come abitazione. L’esistenza di questa norma ha origine dal fatto che venivano scelti uomini sposati come vescovi.
In occidente i Concili continuano a ripetere il discorso dell’astinenza; addirittura un Concilio propone un sorvegliante che dorma nella camera dei vescovi. Ed incominciano le sanzioni contro coloro che hanno figli dopo l’ordinazione. Da Carlo Magno all’undicesimo secolo, quello di cui ci occupiamo, si continua ad ordinare uomini sposati. Tuttavia hanno prestigio particolare i presbiteri celibi, formati nelle scuole delle cattedrali e, nonostante esista una proibizione specifica, continua ad esserci gente che si sposa dopo l’ordinazione. Questi non si sposano ancora con un rito in chiesa, ma dall’autorità civile, il feudatario e tutto finisce lì.
Nel 1073 c’è la Riforma Gregoriana. Gregorio VII non distingue più tra presbiteri sposati prima o dopo l’ordinazione ed ogni coabitazione inizia ad essere vietata, pena la sospensionei dal ministero. Nasce qui la sospensione a divinis. Si trovano molte resistenze alla decisione pontificia, molti vescovi scrivono che la legge è insopportabile ed irrazionale perché, senza l’aiuto della donna, nessuno sopravviverebbe e quasi tutti accusano Gregorio di modificare la tradizione.
A questo punto, benché si dichiari che il matrimonio dei presbiteri è illecito, viene comunque considerato valido. E nasce la questione del matrimonio-sacramento nel senso che si incomincia a distinguere tra lecito-illecito, valido-invalido.
Questa distinzione ha radice nell’attribuzione al doppio potere: lecito-illecito riguarda il governo, valido-invalido riguarda il potere spirituale. Allora, se una cosa come il matrimonio, che può essere illecito ma valido, non è solo un contratto civile, deve avere una sua consistenza spirituale e di qui il sacramento.
Domanda: come sarebbe?
La questione dei due governi, potere spirituale e potere temporale dei vescovi e dei feudatari, comincia a creare il problema che in tutte le cose, ed il matrimonio ne è un esempio, si pensa se hanno una dimensione spirituale e una temporale, oppure solo spirituale o solo temporale perché, ad esempio il vescovo deve sapere a quale livello sta condannando o giudicando o rimproverando quando dice che si può o non si può. Tutto ciò non è un bizantinismo, ma nasce dalla preoccupazione del rapporto tra fede e vita dei vescovi migliori, cioè del dire che essi devono aiutare i loro fedeli non solo nelle cose ma anche nel senso spirituale che le cose hanno. Quindi occorre capire quali sono le cose e quali i valori spirituali. Ai furti, all’omicidio non si riconosce solo il valore di cosa; la loro portata è legata ai comandamenti, comando divino, ma sulle “cose”, sulla loro amministrazione, sulla vita delle persone, dei loro beni. Il comando è di origine divina, però l’omicidio viene punito come da qualsiasi feudatario, così come il furto.
Sulla questione del matrimonio dei presbiteri si pone ad un certo punto il problema di quale sia la dimensione: materiale o spirituale. Allora si inventano le due parole, lecito-valido, che ci trasciniamo ancora nel codice di diritto canonico.
Lecito è ciò che riguarda il piano delle cose, il piano temporale; valido ciò che riguarda il piano spirituale. Allora ci possono essere cose lecite, ma non valide, illecite, ma valide. L’esempio è l’applicazione della questione morale dopo Vaticano II quando si dice: esiste un male oggettivo che si può compiere in una situazione soggettiva della propria vita in cui non si hanno alternative. Il caso tipico è il dissidio tra due mali: se ci si trova a dover scegliere tra due soluzioni che sono comunque due mali e si opta per quello minore, si compie oggettivamente un male, ma un’azione moralmente valida perché l’unica cosa che si poteva fare era scegliere il male minore, anche se era azione illecita.
Tale è il campo morale che in questo periodo viene applicato a tutte le realtà della vita in quanto è la fatica di articolare il vivere quotidiano.
Intervento: il dolore, ad esempio la morte di un genitore che di per sé non è un male perché è naturale che muoia prima di te, viene colta come una cosa negativa e dolorosa anche se non dovrebbe.
E’ sempre la distinzione di due piani, la logica è la stessa: di per sé ciò che accade secondo natura è lecito, ma non è detto che sia sempre valido. Nel caso specifico, sulla questione del matrimonio ai presbiteri, i vescovi si chiedono se sia lecito o no, valido oppure no. A tale punto decidono che il lecito non si può fare dal punto di vista canonico, ma resta valido perché non riescono a dire che è un male in sé, però aggiungono che, per la maggior disponibilità al dono di Dio, non funziona. E’ esattamente il ragionamento opposto a ciò che viene fatto oggi sul celibato: non è un problema funzionale, come si tende a dire sostenendo che sarebbe pure meglio perché con una famiglia i presbiteri risulterebbero più equilibrati, ma è un problema spirituale. Oggi si dice esattamente il contrario mentre a quel tempo si affermava che è illecito, ma valido. A questo punto, però, per poter definire il bene che il matrimonio è, cioè la sua validità, devono far leva sul piano spirituale perché se è solo un contratto ed è illecito, non esiste nulla di buono.
Intervento: quindi nasce il sacramento.
Nasce una configurazione precisa di sacramento per dire l’esistenza di un bene superiore che va al di là del contratto e viene identificato nel “bonum prolis”, la nascita dei figli, la fecondità.
La questione ha poi avuto conseguenze terrificanti, ma la preoccupazione di dire che, nella relazione di intimità a due, c’è un bene e non è solo un contratto, è corretta ed attualissima perché è un bene per la vita e non sta soltanto nel fatto che ci si è sposati, ahimè nemmeno in chiesa dove sposarsi, oggi è assolutamente contrattuale.
Preparando queste riflessioni mi chiedevo: la profezia che questa definizione del matrimonio come sacramento è stata, cioè l’intuizione dell’esistenza di bene capace di superare il contratto, che andava individuato, questa intuizione profetica in quegli anni , per esempio oggi che cosa significa la capacità di vedere dove sta il bene da salvaguardare, la capacità di vedere un bene superiore? Ci sono beni, ma concreti, non dire il bene in generale, ma riarticolare la quotidianità dei beni che vanno protetti come beni superiori. Detto ciò, però, quanto siamo capaci di dire, oltre l’illecità, il tipo di validità, o per lo meno, qual è la validità che potrebbe esserci, il bene da salvaguardare e dunque di dire alla gente: “Se per noi in questo momento l’unico modo di salvaguardare la validità è questo, non ci piace però è così, ma sappi che questo da salvaguardare e non altro”. Allora io trovo che questo è uno dei passaggi su cui si gioca una creatività possibile e che necessariamente crea delle contaminazioni.
Il secondo Concilio Lateranense del 1139 decide che il matrimonio dei presbiteri non è valido.
Domanda: qual è la differenza tra presbiteri e diaconi?.
I presbiteri sono i sacerdoti, i diaconi sono a servizio della carità Infatti il fatto che Vaticano II abbia instaurato nuovamente la figura dei diaconi permanenti sposati, ha suscitato vivaci reazione. E’ stata una delle grandi profezie di questo Concilio che nessuno ha colto perché i diaconi sono già ordinati, nel loro grado sono già dentro il sacramento dell’ordine, e sono l’eccezione che Vaticano II ha introdotto nella prospettiva di andare verso il matrimonio.
Domanda: quali funzioni ha il diacono?
Predica, battezza, distribuisce l’ Eucaristia. E’ una figura caduta in disuso.
Domanda: diaconi sposati dopo Vaticano II ce ne sono stati?
Sì, in Italia sono duemila e più. A Torino, dove il cardinale Pellegrino aveva spinto molto, ce ne sono parecchi.
Nel 1139 per il Concilio Lateranense non è più valido il matrimonio dei presbiteri ma nel 1170 Alessandro III, papa, dice: “Se un uomo sposato deve essere ordinato, occorre che la moglie sia d’accordo, acconsenta di andarsene e che egli provveda a lei economicamente”. Questo testimonia l’esistenza di una prassi che aveva ignorato il precedente concilio. Concretamente l’applicazione di Lateranense I è molto difficile. La situazione è tollerata per moltissimi anni ancora, almeno 5 – 6 secoli, fino agli abusi del 1500 – 1600. Ufficialmente proibito, accade nella normalità senza scandalo per nessuno e nessuno viene rimosso dalla proprie responsabilità purché sia sposato, ma pubblicamente in modo palese. Il Concilio di Trento è il primo a sistematizzare i sette sacramenti ed il loro funzionamento con criteri di legittimità e di validità (1548). Ma fino al 1700 abbondante nessun cristiano si scandalizza se il proprio sacerdote è sposato.
Intervento: il fatto è che anche adesso non ci si scandalizza più. E’ la gerarchia a scandalizzarsi.
Intervento: No, se la gente non si scandalizzasse il problema sarebbe già risolto.
Credo che molta gente si scandalizzi perché è conservatrice. A parte questo, fino al 1700 è assolutamente tollerato. La conclusione di tutta la questione è che la formalizzazione giuridica del non matrimonio dei preti, avviene, di fatto soltanto dalla fine dell’ottocento in poi con la figura del prete celibe, fino al 1917 quando non è più consentita l’ordinazione ai preti sposati.
Tutto questo ha poco più di un secolo e mezzo come prassi realmente accettata dalle chiese. Però è vero che è sempre stato un problema per cui si è legiferato moltissimo, si è detto tanto ed il contrario di tutto in quanto è un nodo complesso dell’ecclesiologia spostando il quale si spostano molte altre questioni.
Intervento: tutta la posizione della chiesa per quanto riguarda la vita matrimoniale e la procreazione, finché i preti non sono sposati è un dire ed un fare, ma nel momento in cui ci si trova di fronte a preti sposati, queste questioni, secondo me, diventano più grosse.
Queste sono, a mio parere, affermazioni demagogiche. La questione nasce da altri problemi: da un lato, secondo me, da una cattiva digestione di tipo culturale della sessualità, dall’altro da una serie di tematiche sulle quali noi, sentendoci oppressi da un certo tipo di legislazione, pensiamo sarebbe bellissimo se fosse diverso. Non so se trent’anni dopo che fosse diverso, saremmo altrettanto convinti, nel senso che, sia sugli anticoncezionali, sia sui preti sposati, credo che si risolverebbero certi problemi e se ne creerebbero altri. Certo avremmo meno preti fuori di testa perché le mogli provvederebbero a mandarli dal medico per farli curare.