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4 Ottobre 1999
Stella Morra

1. La libertà viene dalla creazione e dalla elezione (1)

Commento a: Lv 25, 1-12


In italiano la parola Giubileo ha, per la comune radice ebraica, una vicinanza con la parola giubilare, fare festa; la parola ha di per sè come riferimento tutto il tema della gioia, mentre in realtà tutte le volte che sentiamo parlare di Giubileo pensiamo al tema della penitenza, dell’indulgenza, della conversione.

La questione che ci poniamo è: che cosa è il Giubileo nel suo senso più profondo e come mai questo tema; e come mai, dato che questa parola sta dalla parte della gioia, si insiste sul tema della conversione, della penitenza, del cambiamento di costumi, ecc.

La radice biblica di cui ci occuperemo non comprende ovviamente tutte le questioni storiche che ci sono state dopo, quindi la questione delle indulgenze, della pena e dei peccati, la questione del rapporto con i protestanti, ecc.: questi sono temi che non troviamo nella Bibbia.

I credenti, a mano a mano che vivevano queste cose, si trovavano a dover affrontare problemi concreti, cercavano una soluzione che andasse loro bene, la sperimentavano e, dopo un po’, di solito, c’era una crisi. Questo però succede anche a noi. Questo ci dice che la Scrittura non si può leggere in modo fondamentalista. Tutte le generazioni di credenti hanno letto la Scrittura, hanno cercato di incarnare lo spirito della Scrittura in modi concreti e si sono scontrati con problemi concreti.

Ognuno di noi si trova ad esperimentare questo. Ad esempio, quando uno dice: ”Ti voglio tanto bene” è una cosa bellissima, ma quando poi sorge la domanda: “Chi va a comprare il pane?”, nasce un problema, nel senso che il primo giorno, dato che ti voglio tanto bene… vado io, no, vado io, nel senso che… vado io… dopo una settimana, in genere, significa il contrario: vai tu… no,vai tu… Tutte le volte che lo spirito di una cosa tenta di concretizzarsi, prima o poi nasce un problema, perché nascono delle scelte concrete.

Mi sembra importante cercare nella Bibbia le radici, lo spirito del Giubileo, e poi da lì ognuno, da solo, o in compagnia, con chi gli pare, provare a vedere dove lo porta questa comprensione dello spirito del Giubileo.

La prima cosa che salta agli occhi è che lo spirito del Giubileo, nella Scrittura, non è mai quello che abbiamo in mente noi, cioè non è mai il risultato di un comportamento nostro ( non è: siccome faccio bene i compiti, allora piglio dieci; dunque mi converto, faccio le opere buone, bisogna fare questo piuttosto che quest’altro, e poi allora sarò perdonato). E’ esattamente il contrario.

Lo spirito del Giubileo è un dono straordinario di libertà, e da qui il titolo: “Chiamati a libertà”. E’ una esperienza di libertà che ha avuto vari percorsi nella Scrittura e da questa esperienza di libertà, caso mai, scaturiscono delle scelte sulla vita. Il Giubileo è sempre un’esperienza di Grazia, cioè un tempo in cui si sperimenta, in modo concreto, non astratto, la misericordia di Dio sulla storia. E’ come se noi avessimo, nel Giubileo che viene a scadenze fisse, l’obbligo di ricordarci che Dio ama la storia, e dunque noi; l’obbligo di ricordarci che tutto si può fare, che c’è ancora vita, che c’è ancora tempo.

Il Giubileo, infatti, riguarda il tempo. E’, in qualche modo, una chiamata alla speranza, una chiamata alla libertà e, quindi, alla speranza, alla possibilità, a rompere i legami della schiavitù, che non è soltanto la schiavitù oggettiva (povertà, schiavitù imposta da altri), ma anche i legami della schiavitù a cui noi sottoponiamo noi stessi: la schiavitù di una vita, ad esempio, costruita tutta in un certo modo, per cui ad un certo punto uno ha la sensazione che non potrà mai più succedere nulla di diverso, perché tutto ciò che doveva succedere è già successo.

Il Giubileo ci ricorda, tramite la Scrittura, che dopo un certo numero di anni ci viene detto: “Ricordati che sei chiamato a libertà, che non c’è niente che ti possa trattenere lì tutto dove sei e solo dove sei: tu puoi essere di più, altro, e meglio”.

Questo è un po’ il tema generale: il Giubileo come esperienza di Grazia ricevuta, oltre che di Grazia, in qualche modo, cercata. Ho “copiato” il tema “Chiamati a libertà” dal libro L’urgenza della libertà che commenta i primi 12 versetti del 25° capitolo del Levitico che rappresentano il testo che fonda il Giubileo per l’antico popolo ebraico.

Come tutti i testi del Levitico è un testo legale, un testo che prescrive delle norme. Partiamo dunque dall’istituzione del Giubileo ebraico, per vedere che cosa ci dice, poi andremo avanti, al passaggio successivo, con il tema della libertà in Cristo, quindi il passaggio successivo è imposto dalla venuta di Cristo, poi esamineremo alcune delle questioni che ci stanno a cuore come “libertà dalla legge” e “libertà nello spirito”: la grande questione del peccato, della conversione. Più avanti esamineremo il tema della libertà in una tradizione: come si fanno i conti con la libertà stando nella Chiesa, con i suoi insegnamenti. Da ultimo il tema più prospettico: la libertà verso il futuro, come speranza, come esperienza di speranza. Sono tutti temi alla riscoperta del senso del Giubileo come ricevuto, come dato, non come cercato.

Il testo di questa sera è Levitico 25, 1-12 che è il testo classico legale della fondazione del Giubileo nel mondo ebraico.

Nel mondo ebraico c’è una differenza fra l’anno sabbatico e l’anno giubilare. Per Israele ci sono due istituzioni fondamentali: la Legge e il Sabato. Nell’alleanza con Dio i due punti chiave sono proprio la Legge che Dio ha dato a Mosè sul monte Sinai e il Sabato, a imitazione del Creatore che il settimo giorno si è riposato, per il popolo ebraico il sabato è giorno di riposo. Questi sono i due capisaldi della tradizione ebraica.

Spesso diciamo che per i cristiani il sabato è diventato domenica e la Legge è diventata la legge dell’amore. Questo, di per sé, è falso, nel senso che la nostra domenica non è lo spostamento di un giorno, cioè del sabato: è proprio un’altra cosa. Al riguardo vi sono molti equivoci. Infatti noi, la domenica, ricordiamo la risurrezione del Signore, non il riposo di Dio dopo la creazione. Riguardo alla Legge, pensiamo di aver tenuto, di tutti i precetti, i Dieci Comandamenti perché importanti e abbiamo aggiunto “la legge dell’amore”, col risultato che nel concreto non sappiamo come comportarci. Per cui ogni tanto si seguono i Dieci Comandamenti e ogni tanto il principio dell’amore: la carità funziona sempre. La legge ha una logica, invece, che è quella del soddisfare dei precetti, che di per sé non è la logica centrale del cristianesimo: il suo cuore non è soddisfare dei precetti.

In Israele, a partire dal principio del sabato, c’era tutta una scansione del tempo su cicli di sette. Questo è molto interessante perché presso tutti i popoli dell’antichità le scansioni sono o lunari o solari. Sette non è né lunare, né solare: sette è un numero che non c’entra niente con il calendario astronomico, con il sole e con la luna, perché sette è il numero dei giorni della creazione. Allora di per sè l’ebraismo misura il proprio tempo su una misura che non è della natura, ma che viene da Dio.

Questa è una cosa che abbiamo mantenuto: misuriamo la settimana in sette giorni, cioè su una misura divina, non naturale, non corrispondente ad un ciclo del sole, della luna. (Infatti poi abbiamo bisogno degli anni bisestili, di tanti calcoli per aggiustare il conto in sette con gli avanzi rispetto al sole e alla luna).

Su questo conto di sette, su questo parametro della creazione, Israele organizza tutta la sua vita e, per esempio, ha un anno sabbatico: “Per sei anni seminerai il tuo campo e il settimo anno riposerà” C’è qui una questione: l’imitazione; come Dio ha fatto, così i figli d’Israele devono fare. Poi c’è l’altra questione, cioè: dopo sette settimane di anni, c’è il quarantanovesimo, che è sempre un anno sabbatico. Poi dice: “Conterai il cinquantesimo anno“ e non è più un anno sabbatico, di riposo, ma un anno giubilare. E dice: “Dichiarerai santo il cinquantesimo anno e proclamerai la liberazione nel paese per tutti gli abitanti”.

C’è un tema, che è il riposo, e c’è un altro tema, quello giubilare, che è la santità, la liberazione e il ritorno. Sono due temi, in qualche modo, diversi. Di per sé si parte da qui: l’anno giubilare è un anno dichiarato santo, per proclamare la libertà. Qui la parola ebraica che c’è dietro alla liberazione è libertà, che in tutta la Torah è usata solo qui. Perché c’è proprio questa proclamazione della libertà.Non è: “Ricercherai la libertà” o “Creerai la libertà”. La proclama. Si dice: c’è questa libertà, che è totalmente un dono sulla misura del tempo, che è la misura di Dio, non la misura nostra.

Su questo piccolo inizio di riflessione ci sono alcune cose interessanti. Per esempio: quali sono i criteri reali sui quali noi scandiamo il nostro tempo? Un criterio assolutamente reale è, ad esempio, quello delle ferie. Prima delle ferie, dopo le ferie: è una divisione che tutti capiscono. E’ una scansione che funziona sul tempo reale. Anche se non si ha il mito della ferie, in realtà la vita si organizza con ritmi che ne tengono conto.

La Scrittura è sempre giocata sulla misura del sette, che è la misura del tempo di Dio (e forse bisognerebbe chiedersi che cosa significa riorganizzare la propria vita sulla misura del tempo di Dio). Qui ci sarebbe da fare un’attenta considerazione su una delle frasi più diffuse di questo secolo: “Adesso non ho tempo, ma la prossima settimana…”.

C’è infatti sempre una prossima settimana nella quale si pensa di essere organizzati meglio. Ma quella “prossima settimana” in realtà non arriva mai. Che cosa significa “Adesso non ho tempo”? Rispetto a che cosa non ho tempo?

Forse una riflessione sul tempo potrebbe essere un buon modo per cominciare ad avvicinarci al Giubileo. Prima di fare tanti pensieri moralistici, forse uno potrebbe cominciare a pensare a come organizza il proprio tempo, quali sono le sue settimane di anni, quali sono i suoi anni sabbatici. La proporzione tra riposo e lavoro dovrebbe essere uno a sei. Ognuno faccia un conto su di sé: se rispetta questo ritmo scritturistico con la proporzione di riposo-lavoro da uno a sei, al di là dei bisogni strettamente fisiologici del dormire un certo numero di ore. Qui si parla di riposo scelto, non del riposo necessario, fisiologico Per avere come cinquantesimo anno un anno santo di liberazione occorre essersi prima riposati sette volte. Se uno ha la misura del tempo che non è quella di Dio non può precipitare dai tremila all’ora in un anno di santità e liberazione. Sapientemente ci sono sette settimane di anni, per poter avere un anno di riposo, che è di santità e di liberazione.

“Il Signore disse ancora a Mosè sul monte Sinai…”.

Ogni volta che il Signore parla a Mosè, o a un profeta, la preposizione che si usa nella Bibbia per “parlare a”, quando il soggetto che parla è Dio, è una preposizione particolare; noi diremmo “verso”. E’ come un riversare le parole da parte di Dio sul suo profeta, su questo soggetto umano che, in qualche modo, si fa carico di raccogliere delle parole.

Dio parla verso Mosè e allora si ha proprio la sensazione che ci sia la sapienza di Dio che si riversa verso Mosè; poi Dio dice a Mosè di parlare “verso” il suo popolo, cioè mette Mosè dalla sua parte, gli fa compiere lo stesso tipo di operazione.

Dopo si dice: “Quando sarete entrati nel paese verso cui vi ho condotti… proclamerete la liberazione… verso tutti i popoli, verso lo straniero che è presso di te”. E’ come se ci fosse questa parola di Dio che provoca un movimento, che è una specie di reazione a catena. Poiché Dio parla a Mosè e annuncia la legge del riposo e della liberazione, Mosè allora può parlare al popolo dando il riposo e la liberazione, e le azioni del popolo diventano un andare verso una terra di liberazione; il popolo può annunciare agli altri popoli la liberazione. Allora la parola di Dio funziona non come un concetto che si “impara”, ma come un motore di movimento, come una cosa che rivolta alle persone le mette in movimento, ed esse ripetono quel movimento, non un altro.

Io credo che una delle grandi difficoltà nella nostra esperienza di credenti sia questa: ancora troppo e sempre, per diversi motivi, consideriamo la Scrittura un insegnamento. Il nostro problema è: che cosa mi insegna, che cosa mi dice che devo fare? Dunque la parola di Dio non ci mette in movimento: non fa succedere delle cose. Al massimo ci fa pensare delle cose. Per far succedere il Giubileo bisognerebbe ricominciare a far funzionare la parola di Dio nelle nostre vite, come un motore e non come un insegnamento. Sentire il suono della parola senza chiederci immediatamente che cosa ci insegna, che cosa ci spiega: lasciare un po’ che questa pazienza di Dio che da quattromila anni accompagna il suo popolo, che questa fornace che è il monte Sinai, ci raggiungano, che in qualche modo la Parola faccia di noi una possibilità di liberazione.

Secondo me la prima norma del cristianesimo è: non agitarsi. Mi sembra infatti che uno dei nostri problemi rispetto alla fede sia sempre quello di fare il bene, cioè di voler a tutti i costi fare, sapere, capire, organizzare, essere… e che spesso questa agitazione ha come unico risultato di stancare noi stessi e basta. Di per sé il cristianesimo è già compiuto: noi siamo salvati, il Figlio di Dio è morto per la nostra salvezza e l’essere cristiani è l’esperienza di stare dentro a questa salvezza. Forse bisogna ritrovare il suono della parola “verso”. Forse le nostre parole per gli altri sarebbero più efficaci se fossero parole “verso”. Se fossero parole con la stessa potenza di movimento. Chiaro che se noi ci chiediamo sempre che cosa la Scrittura ci insegna, quando parliamo agli altri della fede, insegniamo, e, in genere, questo non cambia molto la vita degli altri: raramente consola, forse fa sentire l’altro un po’ più idiota di quanto già si sentisse di suo.

C’è poi la questione del monte Sinai: luogo dell’alleanza per Israele. Il monte Sinai è una grande figura: secondo il racconto di Levitico tutte le leggi sono state date sul monte Sinai. La descrizione, anche nelle minuzie, della vita di Israele, nel racconto della Bibbia è ambientato sul monte Sinai. Il Sinai è il monte “in cui” stanno Dio e Mosè, stanno “piantati” sul monte Sinai.

Per entrare nella liberazione del Giubileo bisogna chiedersi dove stiamo: su quale monte o in quale valle, e in compagnia di chi, nel senso che uno, per ricevere un annuncio di libertà deve stare con qualcuno che gli dica dove sta la libertà, e deve stare in un posto che non è un posto qualsiasi, perché queste cose non si dicono in un luogo qualsiasi.

Allora è chiaro che se noi stiamo sempre nella scansione del tempo di cui sopra, a tremila all’ora, in mezzo a settemila cose che stiamo facendo, potrebbe risultare tendenzialmente abbastanza complicato sentire la voce di Dio. Questo è uno dei motivi per cui tutta la tradizione,da quella ebraica a quella cristiana, il Giubileo è legato a un tempo di pellegrinaggio, che non è un problema di business; è piuttosto un problema di partire da dove si è per andare in un altro posto, per un motivo semplice e umano: che nel luogo dove siamo, normalmente ci distraiamo. Il pellegrinaggio è l’idea di un movimento che ti fa staccare con la testa, in cui tu vai su un monte Sinai, in un luogo dove sia possibile ricevere un annuncio di libertà con un tempo che è la misura di Dio e non la nostra.

“… Parla agli Israeliti e dì loro: Quando entrerete nella terra che io vi do, la terra dovrà avere il suo sabato consacrato al Signore…”.

Vi risparmio il problema sui tempi dell’ebraico. Il testo è tuttavia abbastanza fedele, benché con una frase sgrammaticata. Dovrebbe essere infatti “… quando entrerete nella terra che io vi darò”. La concordanza dei tempi non funziona. I verbi entrerete e avrà sono al futuro, mentre l’atto di Dio di dare la terra è al presente: che io vi do.

La terra è data, è già data (anche se il racconto è ambientato sul Sinai, cioè a metà della peregrinazione degli ebrei nel deserto).

Ci sono fasi della vita nelle quali si vive pensando ad un “quando” futuro, poi sopraggiunge il momento tragico in cui tutti questi “quando” si realizzano e ci si trova di fronte alla necessità di ristrutturare, di rimettere a posto molte cose perchè, a forza di dire “quando” è passata una vita e si è organizzata un’esistenza tutta proiettata sul “quando” sarebbero accadute una serie di cose. E va bene quando le cose succedono, ma spesso succede anche che le cose non si avverano o non arrivano tutte fino in fondo.

Israele è sempre combattuto nel deserto fra: “…stavamo meglio in Egitto” (passato) e “…quando saremo nella Terra Promessa” (futuro).

Dio invece parla sempre con il presente storico; i gesti della sua salvezza sono sempre al presente, perché sono già anche lì, nel deserto. Certamente ci sono cose, come coltivare la terra, che si potranno fare solamente quando saranno nella terra, perché nel deserto è impossibile. Ci sono delle concretizzazioni che si attueranno solo là, ma l’amore di Dio è già qua.

Allora: è vero che nella nostra vita ci sono delle cose che noi potremo fare solo quando ne saranno accadute delle altre, e non possiamo farle sempre. Questo ci dice delle nostre stagioni della vita. Ma è anche vero che in ogni stagione Dio ci ha già dato la terra e la salvezza. Tenere insieme queste due cose si chiama, di per sé, fede.

La fede è la certezza che Dio è con noi e che non ci chiede niente di più di quello che possiamo dare in quel tempo: qualsiasi sia la cosa che possiamo dare, insieme alle stagioni buone e alle stagioni cattive, la vita pesante e la vita meno pesante, le gioie e i dolori, le cose che sono quelle che sono, senza aggravarle di altri pensieri.

“… la terra dovrà avere il suo sabato consacrato al Signore…”. L’ebraico è una lingua che si presta molto a fare dei giochi linguistici: e molti ne sono stati fatti, per tanti motivi. Questi giochi non sono né giusti, né sbagliati, ma ci servono per ricordarci delle cose.

Ad esempio si fa risalire la radice di shabbat al verbo smettere (sbèt)con un procedimento grammaticale, come se il sabato fosse il giorno in cui si smette. Questa è una lettura molto moderna di questo termine. Quello che si dice è che il sabato è il frutto del riposo. La terra ha diritto al riposo, come noi abbiamo diritto al riposo. E’ l’imitazione del riposo del Creatore. Ciò che da qui in avanti si dice, si ripete più volte, è che per sei anni si semina e si mangiano i frutti della terra e il settimo anno ci si nutre di quello che si è accantonato e di quello che la terra produce spontaneamente.

Una delle forme del riposo è togliere al prodotto quello che noi chiamiamo il suo valore economico. Il prodotto serve per nutrirsi, perché bisogna mangiare, ma non è più un prodotto che ha un valore in sé: ha solo il valore dell’uso che se ne fa. E per questo si dice: “Ne mangerai tu, il tuo schiavo, la tua schiava…”; cioè tutti allo stesso modo: forestieri e padroni. Il riposo dunque significa che si rimettono i giusti valori al posto giusto.

Chiaro che se uno lavora, coltiva, fa, inevitabilmente è molto preso dalle cose, e qualsiasi lavoro fa è contento di avere un risultato nel suo lavoro: non necessariamente è un avido che vuole tanti soldi

La Scrittura dice che ogni sette anni bisogna spezzare questa logica, perché altrimenti ci abituiamo, perché la logica delle cose ci “mangia”. Teoricamente noi dovremmo essere padroni delle cose, ma in realtà le cose, sia il denaro, sia il prodotto del lavoro, diventano, in qualche modo, padroni di noi, senza che lo vogliamo, o rischiano di diventarlo.

C’è questa grande sapienza, qui riferita al cibo, e non caso, essendo il cibo un valore centrale della nostra vita, in cui si dice: per sei anni lavori e vivi del tuo lavoro; il settimo anno il cibo arriva come una grazia.

Attenzione: non sto dicendo che così, storicamente, sia accaduto; infatti probabilmente l’anno sabbatico non è mai stato applicato, ma è interessante che la Scrittura lo ordini, nel senso che è come se ti dicesse che tu, al settimo anno, devi ricordarti di azzerare il livello delle esigenze sulle cose. Questo è il senso del riposo sabbatico. Rispetto alle cose è l’azzeramento della nostra schiavitù ad esse, la liberazione della nostra schiavitù.

Il cibo serve per vivere, serve a me come al forestiero, al padrone del campo come allo schiavo, serve a tutti allo stesso modo, perché tutti devono vivere, e dunque bisogna ricordarsi, una volta ogni sette anni, che il cibo ha un valore per vivere, non altri, non ha un valore simbolico aggiunto.

Qui è molto forte l’insistenza sul fatto che tutto questo non riguarda solamente i proprietari, non riguarda solo i residenti. Questo tema dell’azzeramento non riguarda solo i ricchi. Anche il diritto al cibo non riguarda solo i ricchi. C’è un azzeramento sapiente: possedere non ci fa diversi.

Inizia poi la questione dell’anno giubilare.

“Conterai sette settimane di anni…”, cioè sette volte sette anni. Queste sette settimane di anni fanno un periodo di quarantanove anni. Il riposo sta da questa parte: l’azzeramento per rimettere ordine, secondo il tempo di Dio. Poi c’è un ciclo più ampio: sette settimane di anni, come il sabato degli anni sabbatici: in qualche modo, il riposo al quadrato, che diventa il cinquantesimo anno, il quale è di una qualità diversa, cioè è l’anno giubilare, che viene proclamato al decimo giorno del mese, nel giorno dell’espiazione.

“Nel giorno dell’espiazione” è uno di quei versetti che è stato preso e ingigantito. Nel corso della tradizione di concretizzazione, dato che era difficile azzerare il possesso, era difficile non coltivare, si è preso il giorno dell’espiazione come senso unico del Giubileo, Giubileo come espiazione. E’ un punto di appoggio che si è dilatato, mentre nella Scrittura è un’indicazione temporale: indica la festa di yom kippur.

Il decimo del mese è un giorno nel quale, nella Scrittura Antica, succedono tante cose. Ad esempio si dice che l’ingresso nella Terra Promessa avviene il decimo giorno del mese. Il giorno in cui finisce la manna è il decimo del mese. Il decimo del mese, nella Scrittura, è legato a tanti eventi relativi al cibo ed è anche il giorno della fine dell’assedio di Gerusalemme, quando stavano morendo tutti di fame. Per un buon ebreo, che conosceva bene la Scrittura, quella che noi chiamiamo Antico Testamento, il decimo del mese aveva una valenza molto forte, legata al cibo e all’intervento di Dio per il cibo.

E’ chiaro che la dichiarazione del Giubileo al decimo del mese vuol dire che questo evento sta in continuità con la tradizione dell’intervento di Dio sul cibo.

“… farete squillare la tromba per tutto il paese…” Il sofar è ancora oggi lo strumento usato dal popolo ebraico per l’annuncio delle grandi feste. (Il sofar è un corno lungo che si appoggia in terra, uno strumento strano nella storia dell’Antico Testamento. Quando Mosè scende dal Sinai il sofar suona da solo: suonato dagli Angeli, da Dio stesso. Il sofar è legato all’immagine del fiato. Nella nostra tradizione religiosa lo strumento legato all’annuncio delle feste, sono le campane: uno strumento di percussione, mentre in tutta la tradizione ebraica sono strumenti a fiato. C’è il senso del soffio. Come in Genesi Dio trasmette la vita con il soffio, così le feste si annunciano con il fiato).

Il sofar viene suonato dopo che si sono contate sette settimane di anni.

Bisognerebbe riflettere sul come si contano gli anni. Nella nostra tradizione gli anni si contano per compleanno; stiamo sostanzialmente in una civiltà individualista, nella quale la misura del tempo è sul singolo individuo; ognuno di noi inoltre ha degli anniversari, delle date dalle quali conta gli anni. Una delle cose che bisognerebbe mettere in conto riguardo alle possibilità dell’anno giubilare è: provare a “raccontare” gli anni, anziché contarli.

Uno dei punti per poter ricevere la chiamata a libertà del Giubileo è avere una storia da raccontare, gli anni da contare e da raccontare. (Che cosa ci è successo dallo scorso Giubileo ad ora? Che cosa potremmo raccontare di noi stessi? Della nostra vita? Della nostra vita comune? Qual è il racconto che unisce lo scorso Giubileo a questo? ). Sarebbe un buon tema perché ci darebbe la misura di come abbiamo contato le sette settimane di anni per arrivare al Giubileo.

“… proclamerete la liberazione per il paese e per tutti i suoi abitanti… e sarà per voi un Giubileo…”.

Si dichiara santo l’anno; quello che si proclama è la liberazione, e ognuno torna nella sua proprietà e nella sua famiglia. Così i tre movimenti del Giubileo.

Che cosa significa dichiarare santo un anno: è un tema centrale. La libertà nasce dalla santità di Dio e dall’invito, per noi, ad essere santi. Dunque l’anno giubilare è un anno di santità nel quale si proclama la liberazione come un dato avvenuto, come una realtà.

E si torna. Si torna alla proprietà e alla famiglia. Si torna da dove si è venuti, si torna alla propria radice, si torna a se stessi.

La santità è il superamento del moralismo, del giudizio su buono-cattivo, un altro criterio rispetto a buono o cattivo; la liberazione è l’esperienza di avere ancora una vita in più, di non essere costretti ad essere solo ciò che siamo; il ritorno, il ritornare a sé, presso di sé: sono queste le tre dimensioni fondamentali della nostra esperienza umana.

Mi sembra sapiente un libro che ci ricorda che, almeno una volta ogni cinquant’anni, cioè almeno una volta nella vita, c’è un punto in cui uno deve fermarsi, chiedersi come sta rispetto al proprio moralismo e forse smettere di giudicare se stesso, proclamare una liberazione, cioè coltivare la speranza di non essere solo tutto lì, ma di poter avere ancora una novità, uno stupore da sé, dalla propria vita, e tornare.

Per chiudere su una cosa divertente: l’alfabeto ebraico ha anche valore numerico, perché gli ebrei usavano le lettere per scrivere i numeri, non avendo i numeri arabi. Dunque tutte le parole hanno valore numerico: da qui è nata poi la cabala. I rabbini medievali hanno fatto grandi elenchi delle parole che sono equivalenti, cioè che hanno lo stesso valore numerico. Ne risultano associazioni strane. Ad. esempio la parola libertà ha lo stesso valore numerico di due parole: santo (kadosh) e ascolta (shema), che è la prima parola della prima preghiera che qualunque ebreo impara e che è tenuto a recitare tutti i giorni. Queste tre parole sono le uniche che hanno quello stesso valore numerico.

Mi sembra che il succo sia: la libertà, la santità e ascolta (Israele) sono una famiglia di termini. Mi pare che l’istituzione del Giubileo ebraico possa cominciare ad aiutarci a muoverci da qui, da questa riflessione sul tempo, sulla misura che Dio ha del tempo, dalla riflessione sulla parola di Dio che ci raggiunge non come un insegnamento, ma come un dato che mette in movimento e dalla questione su un Giubileo di santità, di liberazione e di ritorno, di ascolto. Queste linee cominciano a farci entrare, in qualche modo, in un percorso giubilare.

Fossano, 4 ottobre 1999
Monastero Cistercense

Testo non rivisto dal relatore

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