“Gente che benedice”
di Stella Morra
Ho imparato che non posso esigere l’amore di nessuno. Posso solo dar loro buone ragioni per apprezzarmi e aspettare che la vita faccia il resto.
William Shakespeare
Un punto di comprensione da ritrovare
«L’architrave che sorregge la vita della Chiesa è la misericordia» (“Misericordiae Vultus”, 10): è una affermazione breve che rischia di sfuggire nella Bolla di Indizione del Giubileo, o che rischiamo di leggere con riferimento unico ad una dimensione interiore, personale, spirituale nel senso più limitato di questo termine.
Ci pare proprio questo il rischio maggiore di fronte a cui siamo posti: una riduzione ancora una volta di tipo individualistico e spiritualizzante nel senso più deteriore di questo termine; e ci sembra che sia esattamente tutta qui la sfida di un (ennesimo?) Giubileo: cominciare a riattraversare quella separazione storica che ha finito per attribuire quasi a due mondi diversi la dimensione spirituale e quella strutturale della nostra esperienza credente.
Sappiamo e crediamo che la buona notizia dell’Evangelo è l’amore, l’amore incondizionato di un Dio che non guarda alle colpe e fa festa per il figlio perduto che torna a casa, sfidando anche il malumore del primogenito che si sente buono. Un amore un po’ esagerato e irragionevole, come tutti gli amori veri. Lo sappiamo, ma poi le nostre comunità, i modi in cui abbiamo formulato la dottrina, le esigenze della vita comunitaria, hanno mano a mano preso le forme di tutte le istituzioni umane (e del loro evolversi nella storia).
E’ pur vero che ci sono regole e linguaggi diversi per le logiche del cuore e quelle del pubblico, del visibile e del comune: ma questa diversità deve mantenere un legame e una tensione, che è ciò che garantisce quello che la migliore tradizione teologica e spirituale chiama “verità”. Non si tratta di una semplice e ridotta adeguazione intellettuale, ma piuttosto della comprensione che ciò che è amato e gustato nel cuore chiede carne e forme storiche che abbiano una corrispondenza e che ciò che è vissuto, nel corpo, nei sensi e nei corpi istituzionali e storici chiede un radicamento reale e vitale, riconoscibile, nella profondità del cuore di ciascuno.
La complessità di questo legame sempre precario e sempre da ricercare ha provocato riduzioni e deformazioni, la più “facile” delle quali è la separazione progressiva dei due ambiti, relegando alla spiritualità (o ad una sua caricatura) e alla devozione popolare (a ad una sua comprensione paternalistica) la dimensione calda del cuore, un po’ folle e anarchica, paradossale e radicale e poi richiedendo un (progressivamente sempre più rigido) realismo e giuridismo per regolare la vita comune e le sue prassi. Questo realismo finisce per esprimersi nella esattezza della dottrina come enunciato e nella richiesta di una coerenza morale che si fa sempre più coerenza alla dottrina e al suo enunciato che non alla “cosa” che la dottrina si sforza di esprimere.
Quale vivibilità e visibilità per la fede comune?
Siamo arrivati fino al punto che, senza riflettere, pensiamo che “credente” o “non credente” significhi definirsi in relazione all’essere d’accordo o no con delle affermazioni (Dio esiste, Gesù è il suo Figlio morto per noi e risuscitato, ecc.) di dottrina appunto. Ma “credente” è invece un participio presente, indicando colui che è nell’atto di… di cosa? E’ proprio qui la questione, il rischio di perdita del referente ermeneutico che consente di ritrovare la “cosa” sotto e dentro la dottrina. Non che non lo sappiamo più teoricamente, qualsiasi parroco invoca nelle omelie la necessità di ritrovare un legame tra le affermazioni della fede e la vita; ma, nel concreto, le strutture che dovrebbero servire questo legame complesso (azioni pastorali, attività, le stesse celebrazioni liturgiche…) sono spesso diventate autoreferenziali e agiscono inconsapevolmente sotto la categoria generatrice della dottrina che perpetua se stessa.
Ipotizziamo che credente è colui che è, sempre e di nuovo, nell’atto di imparare a fidarsi (credere, appunto) dell’amore di Dio e organizzare la propria vita, personale e pubblica, comune, su questo criterio, e che per questo ha anche bisogno di comprendere ed esprimere in ragioni, spiegazioni, affermazioni, ma questo è solo una parte del tutto, che è altrove. Se questo è vero, allora non è la misericordia che è parte della dottrina cristiana (il che è pur vero!), ma è esattamente il contrario: è la dottrina che è parte e strumento dell’esperienza della misericordia.
La visibilità e vivibilità delle fede si sposta così dall’adesione alla dottrina all’esperienza della misericordia, ricevuta da parte di Dio e partecipata a tutti: ci pare davvero questo il cuore della ricerca di una nuova forma di chiesa, inaugurata dal Vaticano II e rilanciata con forza da papa Francesco che in modi diversi ci sta coinvolgendo tutti.
E un Giubileo della misericordia diventa un luogo semplice e strutturale (pubblico, comune e visibile) perché tutto il popolo di Dio possa iniziare a sperimentare, prima nei gesti e su di sè che dottrinalmente!, una nuova e antichissima forma della propria fede, quella che è la nostra e della Chiesa e che ci gloriamo di professare.
Le opere/operazioni di misericordia
Per essere congruenti con il ragionamento fin qui esposto, dunque, la questione non è in prima battuta riflettere sulla misericordia come tema (radici e casi biblici, storia dell’uso teologico, contenuti e dimensioni, …), ci sarà tempo e possibilità per questo nella vita concreta, nei giorni durante e dopo il Giubileo. La questione è piuttosto, ci sembra, cogliere l’occasione per mettere a tema il “funzionamento” della misericordia come categoria che innesca processi e mette in moto altri stili di vita al di là di ogni volontarismo, per conformazione.
Non a caso, nella più comune e popolare tradizione cristiana, la misericordia ci è detta come carattere di Dio e come causa di opere (di misericordia corporale e spirituale!) per parte nostra: è un criterio divino di processo e di atti, compie “operazioni” diremmo noi oggi.
E la prima e fondamentale operazione è il suo essere correlativa ad un negativo (il correlativo classico è che si ha misericordia di chi ha peccato, altrimenti si ama e basta).
Nel legame complesso tra ciò che accade nel cuore e ciò che è visibile, pubblico e strutturale, dopo la liberante uscita dallo scrupolo e dal moralismo che Vaticano II ci ha annunciato, abbiamo rischiato di sottovalutare la serietà e necessità di prendere in carico il negativo: tra rimozione culturale di tutto ciò che rischia di essere frustrante, e eccessivo ottimismo nel fatto che la potenza della bontà avrebbe fatto funzionare tutto, ci ritroviamo oggi con la necessità di ritrovare un posto realistico e serio quanto le vite per ciò che non funziona, in noi e nel mondo. In questo la misericordia come categoria teologica per la forma della chiesa molto ci può interrogare e aiutare.
Del caso del Giubileo…
Quanto al Giubileo nello specifico, basta leggere, insieme alla Bolla di indizione “Misericordiae Vultus” (11 aprile 2015) anche la Lettera scritta il 1 settembre 2015 dal Papa a Mons. Rino Fisichella, Presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione, dove si danno disposizioni concrete per l’ottenimento dell’indulgenza giubilare: è evidente la volontà di rompere ogni logica giuridica e allargare il più possibile una esperienza di misericordia ricevuta e condivisa, fino a dire che per i carcerati, ad esempio, “ogni volta che passeranno per la porta della loro cella, rivolgendo il pensiero e la preghiera al Padre, possa questo gesto significare per loro il passaggio della Porta Santa, perché la misericordia di Dio, capace di trasformare i cuori, è anche in grado di trasformare le sbarre in esperienza di libertà”.
Dunque si tratta di cogliere la sfida di fare di questo Giubileo non solo un itinerario di conversione personale, sempre necessaria, ma anche il tempo di una “conversione strutturale”, perché le chiese come luoghi concreti diventino trasparenti di un’accoglienza reale e che ristabilisce le vere priorità (ospedali da campo?). Non c’è dubbio che questo ci farà discutere (fino a che punto? Cosa concretamente? Ma dobbiamo davvero non chiedere nulla?) perché ogni volta che si esce dai valori teorici e si va verso scelte concrete le sensibilità si dividono (e ben lo abbiamo visto al Sinodo sulla famiglia) e serve la fatica dell’ascolto reciproco per trovare strade che non sono mediazioni, ma com-promessi, cioè promessa comune. E’ forse esattamente a reimparare questo che dobbiamo convertirci?
Stella Morra