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3 Marzo 2007
Stella Morra

5. SONNO, FEDE E AUTORITÀ

Commento a: Mc 4, 35-41


Premessa

Continuiamo il percorso sulla paura. Il testo della volta scorsa, Anania e Saffira, ha lasciato molti perplessi, ed ho avuto alcune e-mail di domande; quello di oggi è molto conosciuto, apparentemente più semplice. Ma riprendiamo le fila del percorso.

Nei primi tre incontri, con il testo di Genesi, il Salmo e il testo di Deuteronomio sulla guerra, abbiamo visto le componenti umane, le dinamiche della paura legate ad un’esperienza abbastanza comune, condivisibile, non necessariamente credente. La volta scorsa abbiamo commentato il testo di Atti, che fa da legame tra la prima e la seconda parte del nostro percorso; contiene, infatti,  alcune strutture di quella dinamica di paura molto comuni, condivisibili – la paura di non salvaguardare il proprio possesso, di tenere qualcosa per sé – ma contemporaneamente inserisce già un orizzonte più legato ad una parola potente, quella della prima chiesa, la parola detta in nome di Gesù. Con il brano di oggi e i due successivi, tutti e tre dal Vangelo di Marco, entriamo nella seconda parte, nel legame più stretto tra fede cristiana e paura. Lasciamo quindi l’aspetto più descrittivo, fenomenologico, che descrive le cose come accadono, se guardate con un po’ di calma e di profondità, e affrontiamo una questione più radicale che è, per dirla con una battuta, …se uno che si dice credente può permettersi di avere paura, e di che cosa e perché, oppure se no; se uno fosse un bravo credente non avrebbe più paura!.

I tre testi di cui ci occupiamo in questa seconda parte del percorso sono evangelici e dovrebbero aiutarci a misurarci con la figura di Gesù. Vale sempre la premessa che non ripeto tutte le volte, valida per tutta la scrittura. Parlando noi diciamo: Gesù dice, Gesù fa… In realtà questa non è una descrizione di realtà; gli evangelisti ci fanno il racconto della vita di Gesù senza la preoccupazione di cronaca, ma con l’intento di trasmetterci la stessa esperienza che hanno fatto loro. Dunque, paradossalmente, sono molto sinceri, ma non necessariamente veri. Forse Gesù non ha mai detto quella parola o fatto quel gesto; gli evangelisti cercano di consegnarci la stessa esperienza che hanno fatto loro camminando sulle strade di Galilea con questo rabbi, e di consegnarcela nel modo compiuto in cui la comprendono,  quando la storia è totalmente finita. Gli evangelisti, anche quando parlano di fatti precedenti alla morte e alla resurrezione, scrivono dopo la resurrezione; dunque hanno già nella testa il finale. Questo è il motivo per cui noi abbiamo non uno, ma tre vangeli sinottici, più quello di Giovanni.

Colgo l’occasione per fare una battuta rispetto ad una questione di cui si è molto parlato negli ultimi anni a causa dei vari Dan Brown e cose simili. L’opzione è molto interessante: non un Vangelo, non tutti i vangeli, ma quattro. Alcuni vangeli, che sono stati pubblicati e non sono affatto segreti, sono dichiarati apocrifi, cioè non viene loro riconosciuto lo stesso valore riconosciuto a quei quattro. Non uno, non tutti. La chiesa fin dai primi secoli intuisce che non c’è un solo modo di raccontare, di rendere sperimentabile l’esperienza che i discepoli hanno fatto, ci sono più modi, più strade; intuisce anche che non è possibile che tutte le strade vadano bene, non è che tutto è uguale a tutto. Ci sono più strade, ma non tutte; per questo noi abbiamo quattro vangeli.

Ho scelto tutti e tre i brani dal Vangelo di Marco, perché è un Vangelo molto asciutto, poco retorico, con poca poesia. E’ puntato all’essenziale, dove le singole parole sono pesate, e probabilmente chi l’ha scritto aveva un dono della sintesi e davanti a sé una comunità che gli diceva: omelie brevi, per favore! Nella nostra vita ci servono tutti gli approcci, dal più intellettuale di Giovanni, al più narrativo di Matteo, ma in questa fase a me era molto simpatico questo tono scarno, essenziale.

Il passaggio

Il brano è semplice, l’immagine è molto conosciuta e commentata, torna più volte nei cicli liturgici, dunque è molto famigliare. Prima di questo racconto troviamo tutte le parabole, con lo  strano discorso, che solo Marco fa, sul segreto: Gesù parlava in parabole perché capissero, ma non capissero, … chi capiva non capiva …; poi c’è questo testo che conclude la sezione delle parabole. Come se alla fine di un capitolo intero di parole e di privilegio per i discepoli – a voi è stato confidato il mistero del regno, gli altri invece ascoltano in parabole – Marco, a controbilanciare, mettesse una bella figuraccia dei discepoli. Questi, che sono eletti, sono anche quelli che hanno paura, anzi una paura al quadrato, perché, prima, hanno paura del mare e, quando Gesù ferma il mare, hanno timore di Gesù. Hanno paura della loro stessa paura. Già questo aspetto mi pare carino: i discepoli, che sono coloro che non ascoltano in segreto – noi pensiamo che dovevano avere tutto chiaro, perché erano vicino a Gesù, lo frequentavano, a loro parlava chiaro e non in parabole – sono quelli che hanno paura! La folla no, non ha paura.

Alcune considerazioni sul peso delle parole di Marco.

“In quel medesimo giorno, verso sera, disse loro: ‘Passiamo all’altra riva”.

Marco mette in un versetto due segnali di passaggio: la sera e l’altra riva. Non può essere casuale. La sera è il ponte lanciato verso l’indomani, è il segno della giornata che si è conclusa e di cui sappiamo come è andata; c’è questo tempo della notte che ci separa dal domani e ci può far pensare che il domani è ancora lontano, per cui per ora possiamo risparmiarci l’ansia. E’ un passaggio di tipo molto particolare. C’è una bellissima, breve poesia di Patrizia Cavalli che dice che uno si può mettere alla sera a dormire d’impegno, perché ciò che doveva fare è fatto e ciò che accadrà domani … è domani; fin che domani resta domani, questa sera posso dormire, e posso farlo con impegno!

Credo che questo primo segno di passaggio, anche nella scrittura, indichi la fine del governo umano. La sera tanto ci fa stare un po’ meglio, perché ci possiamo rilassare, la giornata è finita – magari c’è stato anche qualche pasticcio, però fino a domani non posso farci nulla in più – tanto ci inquieta perché uno scivola in un sonno che è un tempo – come sarebbe che il mondo continua senza di me; io mi distraggo e tutte le cose accadono…Per questo nella scrittura il sonno è sempre il luogo delle visioni, dove Dio parla, agisce, perché gli uomini mollano un momento il governo, e Dio può fare. Nell’Antico Testamento, quando deve fare delle rivelazioni, Dio fa sempre cadere un grande sonno – per creare la donna da Adamo, fa cadere il sonno su Adamo e così via. La sera è un passaggio ambivalente: è il passaggio del riposo che segna la divisione tra oggi, che è già passato, e domani; ma è anche il passaggio dal governo, dalla consapevolezza, dalla decisione, a un tempo come di sospensione, in cui agiscono altre forze. Ed è chiaro: la tempesta e il vento sono altre forze. A noi, che non viviamo più in un mondo tecnologicamente povero come quello dei Vangeli, non fa grande impressione – poi, se uno è stato in Terra Santa, ha visto che il mare di Galilea è in realtà un lago… mare è un nome un po’ pretenzioso – e ci chiediamo quale tempesta si sarà potuta scatenare su questo laghetto! In realtà, in un mondo tecnologicamente povero, gli elementi scatenati della natura sono l’immagine esatta di ciò che non è governabile. Se l’avesse scritto un piemontese, per esempio un langarolo, avrebbe parlato di grandine – uno lavora la vigna tutto l’anno e poi arriva la grandine e non puoi farci niente; non dipende da te, dalla buona volontà…

Verso sera… Si sta avvicinando questo momento di abbandono e Gesù raddoppia il passaggio e dice “Passiamo all’altra riva”. Gesù non rassicura, nè qui, nè dopo. Anche questa è una bella botta: di fronte ai passaggi a noi viene l’ansia, che è diversa dalla paura, – è l’ansia da governo della realtà – e non solo Gesù non dice, sì, avete ragione, facciamo una casetta per difendere il vostro sonno, ma dice, passiamo all’altra riva, raddoppia l’ansia. Andiamo da un’altra parte, lasciamo il luogo dove siamo.

Passiamo all’altra riva è anche passiamo il confine, passiamo laddove non c’è la folla, non c’è il riconoscimento, dove siamo sconosciuti. Passiamo all’altra riva, a me fa venire in mente il testo che abbiamo tante volte commentato della lotta di Giacobbe, che manda dalla altra parte del fiume, gli schiavi, la moglie i figli, il bestiame e rimane a lottare con l’angelo per poter passare all’altra riva.

Questo testo sta sotto un titolo, si tratta di un passaggio. Passaggio è esodo, passaggio è Pasqua, dunque un tema molto rilevante, forte per il cristianesimo. Il valore del passaggio, al di là della poesia è sempre un valore ambiguo: è il passaggio che ti consente di non sentirti responsabile di tutto e di rilassarti un attimo, la sera, ma è anche la paura e l’ansia di non essere responsabile di tutto; esattamente la stessa questione, che il mondo non dipende da te e dunque come farai!?

Lasciare il luogo del riconoscimento

Il secondo versetto è altrettanto bello e denso.

“E lasciata la folla, lo presero con sé, così com’era, nella barca. C’erano anche altre barche con lui”.

Lasciano la folla. A me sembra che la questione che viene al fondo del ragionamento sulle parabole, sul segreto, sul parlare apertamente, dopo che la folla l’ha acclamato come maestro, qui lasciare la folla è innanzitutto lasciare un luogo dove hai ottenuto un riconoscimento, dove qualcuno ti ha chiesto: tu chi sei e cosa fai? E te l’ha detto positivamente, bene e tu finalmente sai chi sei: questa immagine di me mi viene rimandata da una folla plaudente!

Qui metto un asterisco: penso che uno dei nostri problemi contemporanei – molto più forte di quanto non crediamo e spesso esemplificato con le teorie sulla società dell’immagine, i reality…- sia che, per vari motivi culturali, siamo tutti un po’ più sbilanciati, che non in altri secoli, sul riconoscere noi stessi in base all’immagine speculare che gli altri ci rimandano – che sarebbe il senso di civiltà dell’immagine, non tanto nel senso che vediamo gli altri, ma nel senso che ognuno di noi sa di sé qualcosa in base a come gli altri ci guardano. Il risultato è che, rispetto anche solo a cinquant’anni fa, investiamo tutti un po’ più di tempo nel nostro aspetto – nel vestire, nel come ci presentiamo, in alcuni particolari che provocano nell’altro uno sguardo. Tutti siamo un po’ più attenti a sapere cosa si dice di noi; riceviamo tutti, molto di più, la nostra solidità da un ruolo, da una conferma o da una sconferma dall’esterno. La sconferma dall’ esterno ci manda più in crisi, di quanto facesse ai nostri nonni, che avevano ruoli molto più stabiliti, erano più chiari da un certo punto di vista e forse più immutabili, con il peso che questo poteva significar. Per una donna cinquant’anni fa, sposarsi e avere una famiglia era un destino praticamente costruito il giorno in cui si sposava. Si sapeva più o meno chiaramente, con pochissime variabili, e la grande variabile possibile era se aveva sposato un brav’uomo o uno che andava all’osteria. Questa era la differenza sostanziale possibile, ma il percorso era più o meno segnato. Noi siamo tutti figli dell’idea che ognuno si deve realizzare, con l’ottimo risultato che non sappiamo mai bene chi siamo e che, dovendoci realizzare, abbiamo bisogno che qualcuno dall’esterno ci dica: ti ho visto, esisti, sei convincente, ti sei realizzato!

Lasciare la folla, mi pare che declinata in questa cultura dell’immagine, sia molto fortemente lasciare il luogo dove siamo riconosciuti. E poi c’è quell’osservazione curiosa: “…lo presero con sé così com’era…”. Com’era? Era lì che stava parlando… E’ come se lasciare la folla corrispondesse a essere così come si è, a non costruire nulla di particolare.

Fede e paura

“C’erano anche altre barche con lui”. Ci sono altre barche che non hanno a bordo il Signore e che subiranno la tempesta a causa dell’insegnamento che il Signore deve compiere, ma guadagneranno anche la bonaccia a costo zero. Quando leggevo questi versetti mi è venuta in mente la tradizionale immagine della barca di Pietro – la chiesa è la barca di Pietro, dove è salito il Signore  – esatto, con l’Eucaristia ci sta – che sta in mezzo alla tempesta, ha paura e guadagna la bonaccia per tutte le barche, non solo per sé!

Io credo che bisognerebbe ragionare sul fatto che non c’era solo quella barca lì, e che noi siamo abbastanza tentati di pensare che, o tutto il mondo sta su quella barca ed ha la discussione sulla paura, sul mare, sulla tempesta, con Gesù che dorme, oppure quegli altri sono tutti la folla, sono rimasti tutti a riva, non hanno capito che bisognava fare il passaggio. Qui almeno ci sono tre livelli: la folla, le altre barche e la barca di Pietro dove c’è il Signore. Anche questo mi pare un dato interessante e mi pare visibile che le altre barche guadagnano senza paura e a costo zero, cioè: la differenza tra avere il Signore a bordo oppure no, è la differenza di un prezzo che si paga e di un dialogo, ovviamente. Dunque di un insegnamento. Ma da questa situazione comincia a venire il sospetto che forse chi non ha o non riconosce una fede in Cristo non ha paura. Chi ha una fede in Cristo ha paura e fa bene ad averne … forse.

“Nel frattempo si sollevò  una gran tempesta di vento e gettava le onde nella barca, tanto che ormai era piena”.

Una gran tempesta di vento e la barca si riempie d’acqua. La domanda è sempre la stessa: chiunque abbia più di quindici anni sa che le bufere non sono evitabili; per quanto ti prepari, ti organizzi, curi tutte le situazioni, prima o poi un momentaccio nella vita arriva. Ma non solo perché i malanni, i guai, le cose succedono; anche momentacci, come mi sembra questo, del tipo: hai scelto il Signore convinto, hai scelto liberamente le persone che ami, ne sei contento…e ti arriva una tegola da dentro, ti senti dentro un’altra cosa, … senti che vorresti cambiare improvvisamente tutta la tua vita, che non vorresti dovere passare all’altra riva, volevi rimanere là, volevi fare un’altra cosa. Una delle sapienze dell’esistenza è ricordarsi che queste bufere arrivano e che quelli che dicono di non averla mai passata mentono, se hanno più di trent’anni. Non esiste il modo di attraversare un mare senza una bufera. E non esiste il modo di vivere una pienezza di sentimenti, di relazione, di fede, di sequela del Signore, di amicizia verso gli altri, di innamoramento di qualcuno senza almeno il pensiero di tradire. Poi, certo, uno deve decidere se percorre questo pensiero o no, 

La bufera arriva e la barca rischia di naufragare. Non è mai una faccenda piccola. Scocciature ce ne sono molte, ma la bufera è un’altra cosa. E la bufera è sempre una radicale questione di vita o di morte.

“Egli se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva”.

Qui c’è questa bella immagine della radicale inutilità del Signore Gesù, che se ne sta lì e dorme, non ha una preoccupazione di governo. Quello che abbiamo detto sul sonno vale anche per l’umanità di Gesù: perde il controllo della situazione. Questa immagine è stata dipinta, commentata moltissimo. Marco, poi, ci mette anche questo particolare del cuscino, che è gustoso, e sottolinea che Gesù sta proprio comodo.

Una cosa su cui forse si dovrebbe riflettere è che, per godersi il viaggio, invece di passare di bufera in bufera e da tormento e paura, a tormento e paura, bisogna imparare a dormire in mezzo alle tempeste. Qui emerge l’immagine di Gesù che si sta godendo il viaggio. E’ sera, è tempo di dormire, di mollare il governo, e lui dorme! Mi chiedevo quanto spesso ci capiti di passare di tempesta in tempesta, di non mollare mai! Non siamo capaci di dormire nella bufera; abbiamo una tale ansia da governo, che non riusciamo a metterci su un cuscino, belli comodi! Quindi non ci godiamo mai il viaggio. Raramente ci godiamo il viaggio dell’esistenza.

L’atteggiamento, un po’ provocatorio di Gesù che se sta lì a dormire, nella descrizione di Marco, ci dice: il maestro sa stare tranquillo, i discepoli no. Questo è evidente, anzi, quasi glielo fa un po’ per dispetto a stare lì quieto e tranquillo…

Presenza di Dio e Silenzio

“Allora lo svegliarono e gli dissero:’ Maestro, non t’importa che moriamo?”.

Come se Marco volesse veramente sottolineare che i discepoli chiedono conto a Gesù di come possa lui non preoccuparsi del fatto che si sta morendo; infatti non gli dicono ‘salvaci’, come nei testi paralleli dei sinottici. Gesù mostrerà con la sua croce che gli importa di morire, ma perché accetterà di morire per noi, dunque che la morte non è una cosa irrilevante.

E’ chiaro che Marco apre su questa questione. “Non ti importa che moriamo?” Gli importa eccome! Ma contemporaneamente è come se Marco ci dicesse che per i discepoli conta più la paura di morire che la presenza di Gesù, e che confondono il suo silenzio con un’assenza. E qui, credo, bisognerebbe fare una buona meditazione quaresimale, nel senso che, credo, una delle esperienze più consuete dei credenti sia confondere il silenzio di Dio con la sua assenza.

Il fatto che non risponde, non agisce immediatamente come noi pensiamo che dovrebbe, ci fa concludere che non gli importa che io muoia, come se lui per me non ci fosse. E forse dovremmo tutti dedicare un po’ di tempo a pensare più a fondo qual è il rapporto tra la presenza di Dio e il suo silenzio. Perché Dio c’è e sta zitto? Cosa dice e cosa fa uno che mi vuole bene, c’è e sta zitto? Cosa mi sta dicendo con il suo silenzio? Io credo, per esempio, che chi vuole bene a qualcuno nella quotidianità, in una vita condivisa, non astrattamente, sa bene che c’è tutta una fase iniziale in cui pare che il problema sia parlarsi, e poi c’è una fase molto più realistica in cui pare che il grande problema sia imparare a far silenzio, a non dirsi alcune cose. Non a non dirle per negarle, ma mordesi la lingua e dare il tempo che le cose trovino la loro strada, la loro forma, perché se no ci si ammazza su quasi tutto. E che quei silenzi non sono il contrario di una comunicazione, anzi certi silenzi sono indispensabili ad una comunicazione vera, perché lì la parola sarebbe solo l’ira, la reazione del momento, l’isterismo di vuotare addosso all’altra persona tutta la stanchezza accumulata al lavoro, con altre persone con cui non te la puoi prendere, e dunque uno conta fino a cinque, si calma e forse due ore dopo ce la fa dire delle parole vere, perché la tempesta è calmata.Questa dinamica della presenza, assenza, silenzio, imparare a parlare, imparare a tacere, ci dovrebbe occupare, perché mi pare che nella logica di una società dell’immagine, siamo anche una grande società della parola. Per esempio diciamo sempre Dio parla il che è vero, ma non chiacchiera, dunque non è come una radio che non molla mai; Dio parla e comunica nella sua parola e nella storia in modo significativo e reale, dunque con parole vere – che non vuol dire vero, scientifico  – dunque ogni tanto tace, perché non ci sono parole vere senza un bel po’ di silenzi.

Parola efficace

L’altra questione, che mi sembra molto significativa, è che in questo racconto di Marco i discepoli non dicono salvaci. Danno per scontato che si sta per morire e gli dicono Non ti importa? Come se la vera questione in gioco fosse agitarsi o non agitarsi, e che uno per mostrare che gli importa deve agitarsi. Non risolve niente lo stesso, ma bisogna agitarsi. Mi pare che questo atteggiamento sia molto moderno. Spesso non crediamo affatto che il nostro agitarci porti una soluzione, ma ci pare quasi che se uno si agita, dà prova di avercela messa tutta, il che generalmente non è vero; l’agitazione non è  mettercela tutta. Anche rispetto a Dio spesso siamo così, non osiamo dire Signore salvami perché siamo abbastanza preoccupati, come giustamente dimostra poi il finale del racconto, che se davvero ci salva, dopo… è peggio! Uno ha più paura di prima, nel senso che la domanda è: ma chi è costui? Spesso noi non domandiamo a Dio perché, se poi per caso ci esaudisce, rischia di essere peggio. Dunque, l’unica cosa che facciamo, gli rimproveriamo di non agitarsi, inutilmente, come noi. In fondo un Dio un po’ più umano, agitato e inconcludente, ci andrebbe pure bene.

Invece qui Gesù funziona totalmente in un altro modo, destatosi non si degna neppure di rispondere alla domanda. “Destatosi, sgridò il vento e disse al mare:’Taci, calmati!”. …Della serie un po’ di silenzio, per favore! “Il vento cessò e vi fu grande bonaccia”.

Matteo ci dice che Gesù usa la parola come il Dio creatore: “Sia la luce  e la luce fu”. Dice: “Taci” e il vento si ferma. E’ una parola creatrice, divina, che nessuno di noi ha. Matteo non ci sta dicendo che Gesù fa dei grandi miracoli, ma che è Dio. Il problema non è se sapeva il trucco per fermare le tempeste, ma che la parola di Gesù funziona come il racconto della creazione, in cui le cose sono create da una parola efficace.

Gesù, il maestro, si alza e usa una parola efficace che attiene solo a Dio. Quindi non può essere per noi un esempio, perché possiamo esercitarci quanto ci pare, con bacchette magiche e formule, ma non funziona. La questione qui non è, ancora una volta, Gesù come modello morale, ma la dinamica che c’è tra Gesù e i discepoli, tra come Dio agisce, tra il suo silenzio che non è assenza, tra le sue poche parole, non rispondere all’accusa, una parola efficace e che si dimostra vera, e l’atteggiamento dei discepoli che passano di paura in paura.

“Poi disse loro: ‘Perché siete così paurosi? Non avete ancora fede?’ E furono presi da grande timore…”.

Hanno accantonato la paura della tempesta, perché c’è bonaccia ed hanno guadagnato una nuova paura, un nuovo timore “…e si dicevano l’un l’altro: Chi è dunque costui, al quale anche il vento e il mare obbediscono?”.

Una delle cose che mi piace molto nella struttura di Marco, è che tutte le volte che parla di fede, la conclusione, cioè, quando tutta la storiella è accaduta, c’è stato l’insegnamento…. la frase finale è sempre un’altra domanda. Mi pare una efficace descrizione della fede. Se uno è credente e si impegna molto, riesce persino a riconoscere il Signore, a stargli vicino, a sopportare la paura delle tempeste, … il risultato finale è che ha un’altra domanda. “Chi è costui?”

Funziona esattamente come gli amori, uno cerca di conoscere colui che ama e più lo conosce, più ha domande e alla fine, rispetto al mondo, lo conosce, sa come ragiona, ma rispetto a lui, la questione perenne è: non ti capisco, non puoi rispondermi così, perché questo non entra in tutto ciò che so di te. Funziona così: un amore che funziona porta sempre ad un’altra domanda.

Il primato alla vita

“Perché siete così paurosi? Non avete ancora fede?”.

Ci fermiamo ancora un po’ su questa frase forte. La fede è il contrario della paura? Bisogna avere fede per non avere paura? Forse sì, forse no. Non sappiamo se avessero fede o no quelli che stavano sulle altre barche, ma non hanno più paura perché la tempesta è finita, raggiungono lo stesso risultato con minor sforzo. Qui mi pare che la questione non sia tanto l’alternativa tra la paura e la fede, ma piuttosto chiedersi se il primato assoluto sia quello della fede. Che cosa intendiamo quando diciamo credere nel Signore Gesù? E davvero il fatto che noi crediamo in lui è la cosa decisiva? Sempre di più mi viene il sospetto che non sia così, ma che la cosa decisiva sia che lui crede in noi e non viceversa. E chiederci se noi crediamo in lui, è una domanda un po’ oziosa – certi giorni sì, certi giorni no, a volte un po’ meno, a volte con più entusiasmo, a volte forse proprio no – ma lui non smette di credere in noi. E per questo noi possiamo dare il primato non alla fede, ma alla vita.

Noi possiamo occuparci delle nostre paure, delle nostre tempeste, di svegliare il Signore, di trafficare, di fare, perché la questione non è un primato assoluto della fede, ma piuttosto il primato di una vita che sta lì a fianco al Signore che a volte dorme, a volte è sveglio, che parla e tace, opera con parola potente ed altre volte sembra non operare, a cui chiediamo miracoli e non sempre li fa, a cui affidiamo i desideri più seri e profondi della nostra vita e che a volte li compie e a volte no, che però, certo, vuole bene alla nostra vita e la benedice. E rimane lì, a volte dormiente, a bordo della nostra barca.      

Mi chiedevo se spesso la nostra paura non nasce anche da una nostra visione troppo volontaristica del cristianesimo, della sequela del Signore come una sequela molto giocata sulle scelte, la coerenza, il saper fare, il saper dire, capire, testimoniare e invece non dovremmo renderci conto di come tutto questo conta, perché la nostra vita è fatta anche di scelte, di fare, di dire… ma che il primato assoluto, paradossalmente non è alla fede. Per dirla evangelicamente, non saremo giudicati sulla fede, ma sull’amore: il regno di Dio per un bicchiere d’acqua. Nel giudizio finale, raccontato da Matteo 25, la reazione alle parole di Gesù dei benedetti – “…Venite, benedetti del Padre mio…perché mi avete dato da mangiare…da bere…” – e dei maledetti – “Via, lontano da me, maledetti …perché non mi avete dato da mangiare …da bere…” – è esattamente la stessa. Gli uni e gli altri chiedono: “Quando Signore?”. Come se l’aver riconosciuto il Signore, l’aver dato da mangiare e da bere nel nome del Signore, oppure no, fosse totalmente rilevante, come se la questione fosse che davvero il regno di Dio è per un bicchiere d’acqua. E che vivere in modo non avaro di sé e della propria vita, vivere le proprie paure e le proprie feste non da soli, mai da soli, fosse l’unico vero primato. Sempre almeno con Gesù sulla barca; poi anche con un po’ di altre persone che stanno lì, di altre barche intorno…ma, al minimo, sempre con Gesù che dorme sul cuscino.

Questo sembra il vero criterio, che diventa anche un grande criterio di libertà, per cui si può avere paura, e anche non averne – se si è imparato  farlo, si può anche stare nella tempesta e dormire; o forse non si è ancora imparato a farlo sempre e ogni tanto ci si spaventa, e va bene così – certo meglio imparare a dormire anche nella tempesta per godersi il viaggio, così hai meno ansia, sei meno isterico; per la qualità della vita è meglio imparare ad avere meno paura.

Forse la vita del discepolo è proprio passare di paura in paura, dalla propria paura al timore di Dio, che è un altro tipo di paura e ci fa nascere un’altra domanda “Chi è dunque costui?. Di timore in timore, abitando semplicemente i passaggi che la nostra vita ci offre.

Fossano, 3 marzo 2007

(testo non rivisto dal relatore)

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