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11 Gennaio 2003
Stella Morra

3. Il conflitto tra Israele ed Egitto o dell’alleanza come criterio

Commento a: Es 12, 29-42


Il testo di oggi è un po’ difficile, non tanto come testo in sé – è un pezzo di racconto che conosciamo bene – quanto perché è un passaggio delicato rispetto alla nostra riflessione sui temi del conflitto e del male, temi su cui ritorneremo per tutto il corso della Lectio. Per questo vale la pena di pensarci un po’ su.

Innanzitutto un breve riassunto delle puntate precedenti, per capire dove siamo arrivati.

Nella prima lectio, il testo di Caino e Abele, abbiamo visto in che modo il conflitto, la durezza, una certa violenza sono qualcosa di “naturale”, un dato di realtà che non sembra evitabile neppure all’inizio della storia. Nasce dal fatto che siamo diversi e dalla fatica, dal rifiuto di accettare la diversità. Apparentemente non ha un motivo in sé.

Da questo punto di vista la storia di Caino e Abele è durissima: non si capisce perché vengono accettati i doni di uno e rifiutati quelli dell’altro!

E’ come se ci fosse un nucleo profondo di noi che nella nostra vita chiama, trova e incontra una violenza e un conflitto. Come se potessimo ragionare solo dal conflitto in poi. Non possiamo avere nostalgia di un mondo innocente, dove il conflitto non c’è. Sembra che la parola di Dio dica: ‘Noi possiamo solo decidere cosa fare con il conflitto’, cioè se percorrerlo, se usarlo contro gli altri, se governarlo, se addomesticarlo… possiamo decidere che cosa facciamo dal conflitto in poi.

Seconda tappa, la bellissima storia di Giuseppe, dove l’idea del conflitto è più “positiva”.

Qui abbiamo visto che possiamo decidere come usare il conflitto. E Giuseppe lo usa, lo traffica! Prende sul serio il conflitto, la violenza posta dai suoi fratelli e ne fa uno strumento di redenzione, di crescita per sé e per gli altri, ne fa un luogo dove è possibile mettere in moto un’altra storia.

Questi due primi passi sono per noi Parola di Dio, ma potremmo dire che riguardano chiunque, non solo chi crede. Potrebbero essere testi di sapienza filosofica. Dicono un dato di realtà dell’esperienza umana, qualcosa che, prima o poi, ogni adulto ha sperimentato nella sua vita. Per quanto ci si sforzi, c’è comunque una violenza, un dato di realtà con cui prima o poi ognuno, per quanto cerchi di evitarlo, deve fare i conti.

C’è modo e modo di fare i conti con questa realtà; ci sono modi che moltiplicano la violenza e fanno ancora più male e modi creatori, che cioè generano una possibilità nuova di ricominciare a partire da lì, di usare quelle energie per costruire un’altra storia.

La lectio di oggi

Introduzione

Il testo che vediamo oggi ci aiuta a fare un passo più avanti.

Lasciamo la storia dei Patriarchi, Abramo, Isacco, Giacobbe, Giuseppe, che è una specie di grande premessa (gli esegeti non sarebbero d’accordo, ma lo dico per spiegarci). Quei testi riguardano la storia universale secondo la scrittura, una storia che in qualche modo interessa la comune umanità di tutti, i problemi di fondo, le domande che più o meno tutti si fanno – da dove vengo, perché c’è il male, cosa siamo destinati a fare…

Oggi vediamo un testo che viene dall’Esodo, il grande libro in cui inizia la storia privilegiata tra Dio e il suo popolo. Ricordate tutti, almeno per averlo sentito leggere nella Liturgia, il racconto del roveto ardente, Dio che rivela il suo nome, il racconto della Pasqua, il passaggio del Mar Rosso, gli Ebrei liberati dalla schiavitù e poi il Sinai, dove il popolo riceve la Legge.

L’Esodo è la storia di fondazione del popolo eletto, una specie di carta costituzionale dove si comincia a distinguere il Popolo da tutti gli altri popoli. Si comincia a parlare di chi accetta il rischio e il percorso di una storia con Dio.

Tutto quello che si è detto prima, con le grandi domande di senso, vale ancora, però dentro questa storia con Dio anche le cose antiche assumono un’altra faccia.

Solito esempio: dentro un amore non è che uno cambia carattere rispetto a come era prima: resta se stesso, con la sua storia. Ma quando un amore entra nella nostra vita, è come se tutto si spostasse di uno scatto, tutto si risistemasse in un altro modo, in un’altra logica, con altri sapori.

Ognuno sa, per esempio, di credere nelle stesse cose in cui credeva prima, non cambia opinioni, ma in genere è un po’ più allegro, ha una piccola percentuale di ottimismo in più; vede gli stessi problemi, ma gli sembrano un po’ meno tragici. Ci sono le stesse cose, ma si risistemano in un’altra logica.

Qui è lo stesso, continuiamo ad incontrare tutti i grandi temi, anche quello del male e del conflitto, ma cominciano ad assumere un altro colore. Il mese prossimo faremo un passo avanti, ancora più decisivo. Leggendo un testo del Vangelo, ci butteremo a capofitto nel modo speciale di vedere il problema del conflitto e del male dentro un rapporto maturo con Dio, quello di Gesù.

Stiamo affrontando i due aspetti del conflitto: il primo, cioè il fatto che il conflitto esiste fin dall’inizio e noi possiamo ragionare dal conflitto in poi; in secondo luogo, il conflitto non è solo una cosa malvagia, è un motore di energia che può mettere in moto un’altra storia.

Descriviamo questi due aspetti dentro la particolare storia, che nella Scrittura si chiama Alleanza, dentro questo nuovo rapporto con Dio che ha spostato un po’ tutte le cose e in cui anche noi ci sentiamo immersi.

Il Testo

Ho scelto questo testo perché mi sembra il pezzo forte di questi capitoli. Se avete un po’ di tempo, vi consiglio di leggervi anche le altre parti (le lectio sono occasioni per riflettere su un testo, ma anche lo stimolo per cominciare a leggere testi un po’ più lunghi): la storia dell’uscita dall’Egitto, dal capitolo 7 fino al cap. 15.

E’ un racconto che abbiamo nelle orecchie, ma è molto bello da leggere, è un dialogo a due voci, un preannuncio. Le cose si dicono e poi accadono.

Per noi il rapporto tra le cose dette e le cose accadute è molto strano; nella nostra logica le cose accadono e poi, se mai, ci pensiamo su. Noi ragioniamo sempre dopo, possediamo solo il passato, non abbiamo il futuro.

Nella logica del rapporto con Dio funziona al contrario, prima le cose si dicono, si pensano, si amano e poi accadono.

Nel racconto delle piaghe, l’ultima – che abbiamo letto ora – è l’uccisione dei primogeniti. Anche quelle precedenti non scherzano, fanno meno impressione perché ci sono meno cadaveri, ma le cavallette, i mosconi, l’acqua tramutata in sangue… a questi poveracci ne succedono di tutti i colori!

Gli esegeti vi direbbero che in questi capitoli dell’Esodo ci sono almeno due racconti, la memoria di due uscite dall’Egitto. Gli Ebrei non sono usciti tutti in una volta sola, sono usciti a più riprese. Si parla di ‘Esodo fuga’ e di ‘Esodo uscita’.

C’è un Esodo in cui gli ebrei sono scappati, come l’immagine che noi abbiamo, ed uno in cui gli egiziani, in buona pace, li hanno congedati dando loro oro e argento. La fusione di questi due testi – non ci abbiamo mai fatto caso, ma se leggiamo la storia tutta in fila lo notiamo -, fa sì che ci sia un racconto molto discontinuo. Ad un certo punto si dice ‘Quando il faraone lasciò partire Mosè e gli ebrei…’ e tre righe dopo si dice ‘quando fu riferito al faraone che Mosè e il suo popolo erano fuggiti’ e ti chiedi se li ha lasciati partire o se sono fuggiti! I due racconti sono fusi un po’ male.

Emerge però un dato importante: non c’è un modo solo per uscire!

Ancora una volta la scrittura ci è maestra di vita: non c’è un solo modo per cambiare, non c’è un solo modo per affrontare la schiavitù, la violenza subita, il dolore, il conflitto. Ce ne sono almeno due in contemporanea, di cui uno buono, tranquillo, calmo e sereno e uno un po’ meno, un po’ più intricato, un po’ più avventuroso. Almeno questi due modi insieme ci sono sempre!

Noi abbiamo l’idea che si può trovare una soluzione ai problemi, alle situazioni di dolore, ai conflitti. La scrittura ci dice che, come minimo, le soluzioni possibili sono due, una delle quali non è simpatica. In genere occorrono tanti elementi perché si riesca ad uscire dalle situazioni problematiche, ci vogliono tanti pensieri diversi, che spesso non vanno d’accordo tra di loro, tante decisioni diverse, tante azioni, alcune dolci, serene, altre un po’ guerrigliere, un po’ avventurose!

Smettiamola di pensare che la vita funzioni come una successione ordinata di eventi!

Anche la sapienza popolare dice che quando ti arriva un guaio devi prepararti perché te ne arrivano almeno altri tre, non capita mai un guaio da solo!

La vita non procede come una struttura lineare, ordinata, che ci dà il tempo di prendere una decisione alla volta. Solo gli esperimenti di laboratorio si fanno in questo modo. Nella realtà ci sono sempre almeno due vie possibili – in genere opposte – ma spesso ce ne sono molte di più!

Questa storia inizia con la tragedia delle piaghe e si concluderà con i cadaveri degli egiziani nel Mar Rosso. E’ un crescendo di violenza e di lotta!

Questa ci scandalizza più di quella di Giuseppe o di Caino, perché sembra voluta da Dio. Pare che Dio, per difendere il suo popolo, faccia violenza a tutti gli altri e questo ci impressiona.

Il testo: Esodo 12,29-42

29 A mezzanotte il Signore percosse ogni primogenito nel paese d’Egitto, dal primogenito del faraone che siede sul trono fino al primogenito del prigioniero nel carcere sotterraneo, e tutti i primogeniti del bestiame. 30 Si alzò il faraone nella notte e con lui i suoi ministri e tutti gli Egiziani; un grande grido scoppiò in Egitto, perché non c’era casa dove non ci fosse un morto! 31 Il faraone convocò Mosè e Aronne nella notte e disse: «Alzatevi e abbandonate il mio popolo, voi e gli Israeliti! Andate a servire il Signore come avete detto. 32 Prendete anche il vostro bestiame e le vostre greggi, come avete detto, e partite! Benedite anche me!». 33 Gli Egiziani fecero pressione sul popolo, affrettandosi a mandarli via dal paese, perché dicevano: «Stiamo per morire tutti!». 34 Il popolo portò con sé la pasta prima che fosse lievitata, recando sulle spalle le madie avvolte nei mantelli. 35 Gli Israeliti eseguirono l’ordine di Mosè e si fecero dare dagli Egiziani oggetti d’argento e d’oro e vesti. 36 Il Signore fece sì che il popolo trovasse favore agli occhi degli Egiziani, i quali annuirono alle loro richieste. Così essi spogliarono gli Egiziani. 37 Gli Israeliti partirono da Ramses alla volta di Succot, in numero di seicentomila uomini capaci di camminare, senza contare i bambini. 38 Inoltre una grande massa di gente promiscua partì con loro e insieme greggi e armenti in gran numero. 39 Fecero cuocere la pasta che avevano portata dall’Egitto in forma di focacce azzime, perché non era lievitata: erano infatti stati scacciati dall’Egitto e non avevano potuto indugiare; neppure si erano procurati provviste per il viaggio. 40 Il tempo durante il quale gli Israeliti abitarono in Egitto fu di quattrocentotrent’anni. 41 Al termine dei quattrocentotrent’anni, proprio in quel giorno, tutte le schiere del Signore uscirono dal paese d’Egitto. 42 Notte di veglia fu questa per il Signore per farli uscire dal paese d’Egitto. Questa sarà una notte di veglia in onore del Signore per tutti gli Israeliti, di generazione in generazione.

Commento:

I primogeniti

La prima cosa che vorrei farvi notare è che si parla di nuovo di primogeniti. Nella scrittura i primogeniti fanno sempre una pessima fine. Tutti vengono colpiti, dal primogenito del faraone fino al primogenito del prigioniero nel carcere sotterraneo, e tutti i primogeniti del bestiame. Non c’è scampo!

Piccola annotazione. Si dice di Cristo che è l’Unigenito, non il primogenito. E’ l’Unigenito del Padre, ma il primo tra molti fratelli. Questa è una bella contraddizione. A Cristo succede la stessa sorte di tutti i primogeniti della scrittura, finisce in croce, ma contemporaneamente, essendo l’Unigenito del Padre, cioè non essendoci un Caino a portata di mano, sarà risuscitato.

Cristo è insieme tutte e due le cose: è un primogenito, dalla nostra parte, primogenito di tanti fratelli, e dunque subisce la dose di violenza che ‘spetta’ ai primogeniti, ma contemporaneamente, dalla parte del Padre, è l’Unigenito, non ha un fratello cattivo.

Qui vediamo come si sposta questo ragionamento sul male: dalla nostra parte, continua a funzionare la legge originaria di Caino e Abele: il primogenito ‘paga’ per la nostra difficoltà di accettare la diversità del secondogenito, perché non siamo in grado di sopportare la pluralità, gli altri che sono diversi da noi.

Ma dalla parte di Dio c’è la Trinità, che è comunione dove la diversità è perfettamente accettata, ci sono solo figli unigeniti, non c’è pluralità non accettata.

In questa vicenda terribile della morte dei primogeniti c’è una figura profondamente umana. La piaga peggiore è essere colpiti non tanto in se stessi, ma nella propria discendenza. E non solo, nella propria discendenza primogenita che, nella logica dei popoli antichi, è la discendenza prediletta, quella che merita l’eredità, il governo della casa.

Ecco una bella riflessione: la violenza colpisce più duramente non noi, ma la nostra relazione più importante. Il faraone avrebbe preferito morire, piuttosto che vedere morto il suo primogenito!

La violenza più tremenda ci colpisce in una relazione.

Come vi dicevo prima, ci stiamo spostando nell’ambito di una relazione. Dopo i primi due testi, in cui il soggetto pensa solo a sé, stiamo entrando in una logica di relazione tra l’uomo e Dio e ci viene subito mostrato che la violenza più potente è quella che ci colpisce laddove noi abbiamo una relazione privilegiata. Il dolore più grande che si possa immaginare, il conflitto più orribile che può esserci è quello che ci priva di una possibilità di relazione.

Il grido

E’ molto bello il versetto che dice

30 Si alzò il faraone nella notte e con lui i suoi ministri e tutti gli Egiziani; un grande grido scoppiò in Egitto, perché non c’era casa dove non ci fosse un morto!

Questa espressione “un grande grido” sarà ripresa da un altro versetto “Un grido si udì in Rama, E’ Rachele che piange i suoi figli e non vuole essere consolata”, versetto che sarà poi citato dagli evangelisti in relazione a quella che noi chiamiamo la strage degli innocenti (vangelo di Matteo). C’è un grido sulla morte dei piccoli che attraversa la scrittura, ed è un grido che arriva all’orecchio di Dio, come il grido del popolo schiavo in Egitto. Nel cap. 3 si dice: “Dio udì il grido del suo popolo”.

L’unica cosa chiara è che bisogna gridare, e questo è un altro bel tema.

La nostra situazione culturale ha teorizzato ideologicamente il privilegio assoluto del nascondimento e del privato. Quando uno piange per un grande dolore gira con gli occhiali scuri. Non si devono vedere nemmeno i segni di un grande dolore!

La scrittura è attraversata da grida, perché il grido, ancora più che le parole, è la fiducia in una relazione che non c’è ancora, la scommessa sul futuro. Le parole chiedono un interlocutore: io ho uno davanti e devo fidarmi di lui per parlargli. Gridare vuol dire che io non ho nessuno davanti, ma scommetto sulla possibilità che qualcuno ascolterà il grido che io lancio e sulla possibilità che questo grido aprirà una relazione.

Il grido del popolo schiavo è il grido verso un cielo che sentono, in quel momento, vuoto; sperano che qualcuno lo ascolti e che da questo grido raccolto possa emergere una relazione.

Quello della parola scambiata è per me un tema molto caro, molto importante.

Viviamo in una società, in una cultura, che ha teorizzato che essere adulti vuol dire tacere.

Avere una grande misura nel mostrare noi stessi, ci sembra una disciplina molto buona, molto educata, molto borghese. Io ogni tanto la chiamo, scherzando, la grande congiura del silenzio: mostriamo maschere e poi ci lamentiamo perché nessuno ci riconosce.

La scrittura va molto più avanti: non solo ci dice che bisogna avere fiducia in chi si ha di fronte, che c’è una parola scambiata che può essere buona, ma addirittura dice che bisognerebbe avere il coraggio di gridare all’aria, al vuoto, di gridare a chi ancora non c’è.

E si grida per risolvere un conflitto come il popolo schiavo, o per denunciare un conflitto, come gli Egiziani. Si grida comunque.

Io credo che uno dei motivi per cui facciamo così fatica di fronte al tema della violenza e del conflitto è che non sappiamo gridare, non abbiamo fiducia in qualcuno e in qualcosa che non ci sono ancora. “Un grande grido scoppiò in Egitto!”

La partenza

Ci sono poi i versetti che, esegeticamente, provengono probabilmente dall’altro racconto:

31 Il faraone convocò Mosè e Aronne nella notte e disse: «Alzatevi e abbandonate il mio popolo, voi e gli Israeliti! Andate a servire il Signore come avete detto. 

Gli ebrei vengono mandati via, gli egiziani fanno pressione perché se ne vadano.

Mi viene in mente la storia di Giona, mandato da Dio a predicare a Ninive. Giona ha una grande paura perché i niniviti sono famosi per essere piuttosto duri con i profeti e i predicatori e comincia a cercare scuse con Dio. Alla fine cede, per l’insistenza di Dio e si imbarca su una nave che va in direzione opposta. Parte, ma non per andare a Ninive, per scappare più lontano!

Non ha fatto, però, i conti con Dio che non ha gli stessi nostri termini di distanza. Una grande tempesta comincia a sconquassare la nave: Dio è molto contrariato dal comportamento di Giona.

I marinai tirano le sorti per vedere chi abbia causato l’ira di Dio. Ovviamente le sorti cadono su Giona, che viene buttato a mare, inghiottito dalla balena e posato poi sulla spiaggia… di Ninive, ovviamente!

A quel punto Giona va a predicare e viene immediatamente ascoltato, Ninive si converte e tutti fanno ciò che lui dice. Predica la penitenza sottovoce e i niniviti ripetono gridando le parole che Giona aveva detto sottovoce.

Giona si indispettisce con Dio perché non gli aveva detto prima che le cose sarebbero state così semplici: gli avrebbe evitato tanta fatica nel protestare e tentare di fuggire in un’altra direzione. Giona esce dalla città e si addormenta al sole. Dio fa crescere un albero di ricino per fargli ombra. Giona si sveglia riposato e rinfrescato dall’ombra, guarda soddisfatto l’alberello, ma un verme sotterraneo mangia le radici e l’albero secca.

Ancora una volta Giona si arrabbia con Dio, che gli dice: “Tu ti dai pena per quella pianta di ricino per cui non hai fatto nessuna fatica e che non hai fatto spuntare, che in una notte è cresciuta e in una notte è perita: e io non dovrei aver pietà di Ninive, quella grande città, nella quale sono più di centoventimila persone, che non sanno distinguere fra la mano destra e la sinistra, e una grande quantità di animali?”.

Mi viene in mente Giona perché la scena sulla nave sembra la scena delle piaghe.

Noi abbiamo un’idea magica, la scrittura invece ha un’idea religiosa. E’ molto chiaro agli egiziani, come ai marinai della nave su cui è imbarcato Giona, che i rapporti personali, quello con Dio in particolare, sono cose serie, e chi ha ingarbugliato questa questione deve cercare di risolverla personalmente.

Chi si trova lì intorno rischia di venirne coinvolto senza centrare niente. Gli egiziani quindi dicono agli ebrei: ‘andate e sbrigatevela con il vostro Dio, o qui finiremo per morire tutti. Vedete voi, com’è questa relazione tra voi e il vostro Dio’.

Ci sarebbero due o tre questioni su cui ragionare.

Noi leggiamo sempre questo racconto con Dio che sta dalla parte degli ebrei e ‘castiga’ gli egiziani, ma c’è di più. Gli egiziani percepiscono che c’è una relazione forte e potente tra questi ebrei e il loro Dio e la rispettano, certamente la temono, ma la rispettano.

Una buona cosa, davanti alle situazioni di conflitto, sarebbe chiedersi quali relazioni siamo andati a toccare, quali sono le nostre e quali sono le altrui, quali sono le relazioni che dobbiamo prendere e portarci a casa e quali sono quelle che dobbiamo allontanare da noi.

La fretta

C’è poi un’altra immagine molto bella:

34 Il popolo portò con sé la pasta prima che fosse lievitata, recando sulle spalle le madie avvolte nei mantelli.

Qui è divertente leggere le esegesi rabbiniche. In tutta questa storia c’è il segno della fretta!

Tutto accade in fretta, come inatteso, mentre tre capitoli prima tutto era perfettamente annunciato. Dunque ci chiediamo perché non c’era stato il tempo di far lievitare la pasta, dato che tre capitoli prima era predetta la partenza. Insomma, gli Ebrei avevano il tempo per prepararsi!

I rabbini offrono una spiegazione non scientifica, ma deliziosa, molto bella.

Dio dice, e le sue parole sono potenti: quando lui dice, le cose accadono. Dunque, perché le cose accadano, Dio deve dire! Ma la salvezza ci prende sempre alla sprovvista, non saremo mai preparati alla salvezza, anche se ‘Dio ha detto!’.

Dunque non c’è stato il tempo di far lievitare il pane perché, nonostante Dio abbia detto – e questo era necessario perché la salvezza accadesse – la salvezza arriva sempre inaspettata, arriva da dove non sospettiamo!

Ovviamente l’episodio si può leggere in chiave cristiana, in mille modo molto belli.

Quando siete stufi dell’Eucarestia, o quando le messe sono troppo pesanti o magari un po’ mal celebrate, immaginatevi questa uscita dalla schiavitù con il pane non lievitato sulle spalle.

Nella tradizione popolare antica l’Eucarestia data ai moribondi si chiamava viatico, pane per la strada, dato per quel percorso che chi stava per morire doveva compiere.

A me viene in mente esattamente un viatico. Gli ebrei partono per uscire, hanno davanti il deserto e si portano il pane non lievitato sulle spalle, che è poco; non avevano preso provviste, solo il pane non lievitato, solo ciò che basta! Anzi, che non basta! Ma ci sarà poi la manna, che basterà!

Questo duplice pane – il pane portato sulle spalle, pane del viaggio, e il pane del cielo – rappresenta veramente le due facce dell’Eucarestia. Tutte le volte che andiamo a messa siamo un popolo di schiavi che si mette in spalla un pezzo di pane non lievitato e che si incammina verso il deserto.

Le donne

E poi c’è questo versetto:

35 Gli Israeliti eseguirono l’ordine di Mosè e si fecero dare dagli Egiziani oggetti d’argento e d’oro e vesti. 36 Il Signore fece sì che il popolo trovasse favore agli occhi degli Egiziani, i quali annuirono alle loro richieste. Così essi spogliarono gli Egiziani.

Questo fatto della spogliazione degli egiziani è preannunciata al cap. 3, quasi con le stesse parole, ma con una piccola differenza. Al cap. 3 si dice: “Farò sì che questo popolo trovi grazia agli occhi degli Egiziani; quando partirete non ve ne andrete a mani vuote. Ogni donna domanderà alla sua vicina e all’inquilina della sua casa oggetti di argento e oggetti d’oro e vesti; ne caricherete i vostri figli e le vostre figlie e spoglierete l’Egitto”.

E’ chiaro qui il senso culturale ed esegetico: gli egiziani, grande potenza militare, vengono sconfitti dalle donne, cioè da “nessuno” secondo la mentalità del tempo!

E’ altrettanto bello notare che, a cominciare dalle levatrici, la figlia del faraone, la madre di Mosè che viene chiamata a far da balia, la moglie di Mosè nel deserto… per i primi cinque capitoli, l’Esodo è tutta una storia di donne!

Sono le donne che fanno da transito tra Giuseppe e questa storia, sono le donne quelle che conservano la vita. Le levatrici si rifiutano di obbedire al faraone e salvano, finché possono, i figli degli ebrei. Quando non possono, Mosè viene salvato affidandolo alle acque del Nilo in un cestino. La figlia del faraone lo trova, capisce che è il figlio di un ebreo, lo prende con sé e lo salva… e, alla fine, le donne spoglieranno gli egiziani! L’interpretazione non è tanto esegetica ma credo legittima: è molto chiaro che sarà Miriam, la sorella di Mosè, ad intonare il canto della vittoria del passaggio del Mar Rosso.

In questi conflitti bisogna anche essere un po’ donne, bisogna capire qual è il pezzo di vita da salvare, mettere in un cestino e lasciarlo andare sul fiume. Non basta aver ragione o aver torto -, secondo l’archetipo classico, questo è il ragionamento maschile. I maschi sono quelli che decidono, sanno cos’è giusto e cos’è sbagliato, combattono, vincono, perdono, sono sempre “aut – aut”.

Le donne sono, in genere, quelle che distinguono, che, almeno qui nel racconto dell’Esodo, conservano la vita! C’è un ordine del faraone, e loro disobbediscono, fanno un’altra cosa.

Non cercano di far cambiare idea al faraone, non lo combattono, non fanno come Mosè che ucciderà l’egiziano, ma intanto salvano i bambini e si inventano una storia. Le levatrici, interrogate, dicono che le donne ebree sono molto forti, quando le chiamano i figli sono già nati e non possono occuparsene. Si inventano una menzogna, una parola falsa per custodire la vita!

Io credo che, per abitare il conflitto dentro una relazione, per abitare questa violenza, bisogna avere tutti, maschi e femmine, un pezzettino di animo femminile.

Non si può essere unicamente concentrati su ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, su chi ha ragione e chi ha torto, su chi è potente e chi non è potente, è necessario avere un pezzo di anima in grado di salvaguardare la vita, ed anche capace di dire qualche menzogna per salvaguardare la vita! Capace di decidere che un piccolo bambino dentro di noi va messo in un cesto e fatto viaggiare per la sua strada, anche se aveva torto, anche se non era bello, non importa, è un piccolo bambino; e forse questo piccolo bambino meticcio diventerà il condottiero che salverà il suo popolo.

37 Gli Israeliti partirono da Ramses alla volta di Succot, in numero di seicentomila uomini (cifra assolutamente immaginaria, ndr) capaci di camminare, senza contare i bambini. 38 Inoltre una grande massa di gente promiscua partì con loro e insieme greggi e armenti in gran numero. 

A me ha fatto venire in mente il versetto degli invitati che non vogliono andare al banchetto e viene detto ‘andate agli angoli delle strade e chiamate storpi, zoppi…’. Anche qui emerge un po’ l’animo femminile. La gente promiscua è quella che forse non aveva tutte le carte in regola per stare lì, forse non aveva ragione, ma si infila in questo grande numero di esseri umani, di bestie, di armenti, di bambini.

Spesso troviamo la via di uscita a una violenza, a un dolore, la possibilità di farne una potenza creatrice, non perché riusciamo ad avere ragione, cosa che in genere inasprisce solo la situazione, ma perché ci infiliamo insieme a tutti gli altri, a ciò che sta accadendo e, come piccola gente promiscua, facciamo nascere qualcos’altro.

Bisogna un po’ distrarsi. Troppa concentrazione su torti e ragioni, su giusto e sbagliato, in genere irrigidisce e secca. Ogni tanto bisogna distrarsi e lasciare che le cose accadano.

39 Fecero cuocere la pasta che avevano portata dall’Egitto in forma di focacce azzime, perché non era lievitata: erano infatti stati scacciati dall’Egitto e non avevano potuto indugiare; neppure si erano procurati provviste per il viaggio.

Questa situazione fa sorridere: sono molto umani, hanno oro e argento, hanno spogliato gli egiziani, ma non si può mangiare l’oro, rischiano di morire di fame e mangiano focacce non lievitate. Mangiano il cibo dei poveri e, secondo il racconto, hanno le cose dei ricchi.

La nostra esistenza spesso funziona così: non abbiamo mai tutto quello che ci serve, raramente abbiamo una misura media, siamo molto poveri e insieme molto ricchi. Questo ci irrita e scatena la nostra non sopportazione della differenza. Noi vorremmo essere solo ricchi o solo poveri, per poterci lamentare quanto basta. Invece siamo molto poveri e molto ricchi! In genere, poi, abbiamo di fronte gente che è molto ricca delle cose di cui siamo poveri, e povera delle cose di cui siamo ricchi. Questo ci indigna, perché non possiamo né sentirci buoni e basta dicendo ‘adesso ti dò…’, né sentirci vittime e basta dicendo ‘dammi…’. Ci tocca un po’ dare e un po’ ricevere e non riusciamo a sentirci né tanto buoni né tanto vittime.

La veglia

40 Il tempo durante il quale gli Israeliti abitarono in Egitto fu di quattrocentotrent’anni. 41 Al termine dei quattrocentotrent’anni, proprio in quel giorno, tutte le schiere del Signore uscirono dal paese d’Egitto. 

C’è quest’immagine molto antropomorfica di Dio che sta sveglio tutta una notte per avere cura che questo popolo non sbagli strada! E dunque “Questa sarà una notte di veglia in onore del Signore per tutti gli Israeliti, di generazione in generazione”.

Questo versetto dà conto della grande relazione. Nessuno di noi sta sveglio tutta una notte senza motivo. Dio sta sveglio per noi, c’è una notte di veglia!

E questa notte di veglia ovviamente diventerà la Pasqua per il popolo ebraico e, si dirà dopo, “nessuno straniero ne deve mangiare”. Una notte di veglia del Signore e del popolo.

Il prezzo della libertà

Riprendiamo le fila della domanda che ponevamo all’inizio. In questa relazione tra gli uomini e Dio la questione di una violenza che sembra inevitabile – quella legata alla differenza, quella a partire dalla quale ragioniamo – assume un altro colore, smette di essere semplicemente una cosa che accade, come nel caso di Caino e Abele, di essere violenza e basta, e diventa il prezzo di qualcosa, in questo caso, il prezzo della libertà! C’è una bella differenza: le cose accadono perché accadono, si può essere buoni o cattivi, semplicemente perché così è l’animo umano. Oppure: le cose accadono perché accadono, ma sono il prezzo di qualcosa e dunque la domanda diventa ‘Ma cosa ho comprato?’

Non tanto, come noi siamo abituati a chiederci: ‘Che cosa ho imparato, che cosa mi ha insegnato’. No, proprio il prezzo!

Rispetto alla croce di Gesù, si dice: ‘Gesù ha pagato il prezzo della nostra salvezza, il riscatto’ e questo a noi fa un po’ impressione, ci sembra una cosa brutta. Eppure siamo così commerciali! Dovremmo sapere bene che è una cosa notevole e soprattutto che implica un acquisto. Pago sempre un prezzo per comprare qualcosa, non mi chiedo mai perché non me la regalano. Posso chiedermi se il prezzo è equo, se è troppo caro, se ho fatto un affare, ma nessuno di noi rimane stupito perché, quando sceglie una cosa in un negozio gliela fanno pagare! Non ci domandiamo mai che cosa stiamo comprando, il prezzo di che cosa è!

La morte degli egiziani è il prezzo della libertà del popolo di Dio, del popolo ebraico. Tutte le cose vere e che contano hanno un prezzo. Questo è un terribile pensiero da adulti, ci fa uscire dal desiderio un po’ infantile che il mondo sia tutto a nostra disposizione, che sia tutto lì e basti allungare una mano.

In genere uno si preoccupa molto quando, di fronte all’ennesima richiesta, dice per la prima volta ai propri figli: ‘Ma ti rendi conto di quanto costa?’. In genere non se ne rendono conto, ed è normale, perché un sano adolescente pensa che il mondo è ‘a disposizione’. Vuol dire che sta bene, che è amato, che è sicuro del luogo dov’è. Sarebbe preoccupante che un bimbo fosse già cosciente che tutto ha un prezzo! Ma se uno diventa adulto e non capisce mai che il mondo non è a disposizione e che le cose vere hanno un prezzo… è altrettanto preoccupante!

Nella relazione con Dio c’è un prezzo, che non è un prezzo da pagare a Dio come se lui fosse un commerciante, è il prezzo quanto a noi, delle cose vere della nostra vita, di tutto ciò che non è a nostra disposizione.

In genere diciamo ai piccoli che la fatica di studiare va affrontata per imparare, che per raggiungere una meta bisogna faticare un po’. Questa fatica non deve ucciderci, cioè non ci deve essere chiesto di imparare cose al di sopra delle reali possibilità, ma non deve essere nemmeno l’esperienza che qualcuno ti dica solo quello che sai già.

Quando i miei allievi dicono che un professore è bravo perché si capisce tutto o che leggendo un libro una volta lo capisci al volo, dico loro che bisogna molto diffidare, perché significa che non si sta imparando niente. Un professore è bravo quando trova la misura, quando riesce a far imparare delle cose nuove senza mettere gli studenti di fronte a degli ostacoli che non sono in grado di affrontare.

Per quale acquisto paghiamo di volta in volta il prezzo della violenza? E per quale dignità di noi stessi, per quale autonomia e indipendenza? Chiunque si ricorda la prima cosa che ha pagato con i soldi suoi. E il senso di soddisfazione provato perché ‘questa me la sono guadagnata io’. Quale senso di dignità di noi ci dà questo prezzo?

E qui c’è un altro passaggio molto importante: sappiamo bene che pagare un prezzo per delle cose ci fa mettere da una parte. Se io compro una cosa, che è mia perché ho sudato per comprarmela, quella cosa ha un luogo, anche interiore, e per esempio se si rompe mi dispiace.

Questo significa, per esempio, che a sedici anni uno quando parte si mette in tasca il bancomat, prende lo spazzolino da denti ed è pronto; a quaranta, per fare il primo trasloco, uno ci mette già tre settimane, e a sessanta hai più ricordi che futuro davanti a sé. Mettersi da una parte fa mettere radici, mette un pezzo di noi nelle cose, nei luoghi, nelle situazioni, nei ritmi, nelle abitudini.

In termini più seri: man mano che qualcosa diventa reale, alcune cose diventano impossibili. Quando tutto è possibile, tutto è anche irreale.

Ci si può innamorare di chiunque quando non si è innamorati di nessuno. Quando poi nel nostro cuore c’è qualcuno, c’è un volto preciso, non ce ne stanno altri, quel posto lì è occupato!

Pagare un prezzo per le cose significa mettere una radice, mettersi da una parte, non essere più il tutto, e dunque cominciare la strada di educazione alla differenza… ‘Sono solo una parte’.

Questo è il grande acquisto!

Per farci comprendere che siamo creature Dio non ci dice: ‘Siete vermi, fate schifo. Adesso faccio un po’ di miracoli, un po’ di fuochi d’artificio, e voi vi sentite ignobili perché siete creature’… Dio fa una cosa ben diversa: ci chiama ad un rapporto con Lui, a comprare una cosa che ha un grande prezzo, perché impariamo che siamo da una parte e non in tutte le parti. In termini catechistici si dice che, se uno è in un rapporto con Dio, scopre di essere una creatura e non il creatore.

Perché abbiamo tutti paura di voler bene? Perché se io voglio bene e voglio bene davvero e gioco la mia vita, mi metto da una parte e divento meno onnipotente. Se io mi penso da solo, io mi basto, ma se voglio bene a qualcuno gli metto nelle mani la possibilità di farmi felice o infelice, dipendo da lui, so che non sono più il tutto, non mi basto più. Scopro di essere una parte e da una parte, quella e non un’altra, e dunque potrei essere lasciato, tradito, posso immaginarmi i peggiori scenari.

Dio fa esattamente così. Ci chiama ad un rapporto con Lui, un rapporto che ha un prezzo perché noi ci mettiamo da una parte e scopriamo di essere una parte e non il tutto.

Fossano, 11 gennaio 2003

(testo non rivisto dal relatore)

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