Stella Morra
4. Il conflitto causato dal Regno come luogo critico e di giudizio
Il testo di oggi e il prossimo sono i due cuori di tutto il percorso: siamo in uno dei due passaggi decisivi. Non so che effetto faccia a voi il cammino che stiamo percorrendo; io sono molto contenta di dover preparare questo lavoro, perché alcuni testi della scrittura stanno diventando per me molto più visibili di quanto lo fossero prima. Sarei lieta di sapere che, almeno in parte, questo percorso conduce anche voi a riprendere in mano alcune questioni.
Abbiamo visto insieme il brano di Caino e Abele, il brano di Giuseppe, ed infine il testo dei primogeniti, con un crescendo di durezza.
Il testo di Caino e Abele è duro, ma ha un po’ il sapore di favola, con il cattivo che uccide il buono. La storia di Giuseppe si conclude con un lieto fine. La morte dei primogeniti è più truce.
Oggi abbiamo un testo evangelico che, credo, tutti evitiamo accuratamente, perché è uno di quei brani che si citano spesso, molto conosciuto ma anche molto pesante.
La lectio di oggi
Il Testo
In queste lectio non facciamo l’esegesi storico-critica del testo, non ci chiediamo da dove vengono le singole frasi, le citazioni dell’Antico Testamento, ecc. Ci sono dei commentari in cui si può trovare tutto l’apparato critico. Come d’abitudine, diamo per scontato questo aspetto: io ne tengo conto offrendovene i risultati.
Qui, mantenendo come sfondo la lettura generale della scrittura e il percorso che stiamo facendo, cerchiamo di capire non tanto il valore di ogni singola parola, ma il senso che ha nella logica della sequela del Signore.
La tentazione di una lettura fondamentalista – ‘c’è scritto così, quindi vuol dire questo!’ – è sempre in agguato, in forme diverse. La commissione biblica internazionale ha pubblicato un documento sulle forme, i modi, i livelli in cui si può leggere la scrittura e dice che per un cattolico solo la lettura fondamentalista è da escludere di per sé.
Il nostro rischio è, a volte, quello di fermarci al significato della singola parola, ma spesso una singola parola non si capisce se non nell’orizzonte dell’insieme della scrittura; in questo cammino cerchiamo di fare proprio questo, di comprendere le singole parole nel contesto generale della scrittura.
L’altro, ciò che non mi appartiene
Riprendiamo il filo del percorso: nei primi due testi la violenza, il conflitto, il male sono un dato di realtà.
Con Caino e Abele sono un dato di realtà fin dall’origine, quasi senza spiegazione possibile: il solo fatto che esista qualcuno o qualcosa di diverso da me mi turba, mi fa star male e nella mia testa nasce spontaneamente l’idea di conflitto. Io vivo l’altro, il differente, il diverso, ciò che io non capisco, non condivido, come un furto a quello che io sono.
Nella storia di Giuseppe questo dato di realtà può essere usato bene o male, come tutte le cose di realtà. Nel caso di Giuseppe il conflitto è trafficato fino in fondo per diventare addirittura un atto di cura, una potenza positiva, creatrice.
Nel terzo brano che abbiamo affrontato, parlando dei primogeniti avevo sottolineato alcune cose rispetto all’Alleanza, individuando un criterio: Dio si mette da una parte contro un’altra parte.
Nella logica dell’alterità se uno vince, l’altro perde. Possiamo trarne l’idea che non si può essere tutto e chiunque, bisogna accettare la logica della parzialità, il primo passaggio per poter vivere il conflitto in modo creativo, come un motore. Devo capire che ci sono delle parti diverse e che io posso mettermi da una sola, ognuno di noi può stare da una parte sola. Io non potrò mai capire a fondo i modi di pensare degli altri; in genere a fatica capisco come la penso io! Devo quindi usare come criterio un beneficio di inventario su ciò che sono certo di non capire.
Se parto dal presupposto che so di essere una parte sola, che non riuscirò mai a immaginare, capire fino in fondo il sentimento, il modo di veder le cose di un altro, – perché io sono dalla parte mia, mentre c’è una parte dell’altro che per me sarà sempre un mistero e non mi apparterrà mai – so che, ogni volta che incontro qualcuno e non capisco il ragionamento che fa, devo calcolare il pezzo che non mi è disponibile.
Questo è il massimo che l’umanità, impegnata ad essere all’altezza di se stessa e dell’immagine di Dio che c’è in noi, può arrivare a riflettere da sola: il buon senso comune, il massimo del nostro sforzo di essere non solo civili, educati, colti – un po’ più degli uomini delle caverne – ma anche di essere aperti ad una trascendenza, alla divinità… fin dove arriviamo a capire!
Gesù, la Parola di Dio
Oggi facciamo un salto, entriamo nel Vangelo.
Gesù è la Parola di Dio per noi, ciò che non possiamo darci da soli riguardo a Dio, e che ci viene rivelato da lui stesso. Non è il frutto del nostro ragionare e cercare di capire, ma è quel ‘di più’, quel salto di fronte al quale si rimane senza parole, qualcosa che non si può dedurre.
Rileggiamo il testo, che troviamo alla fine del discorso apostolico. Il capitolo 10 rappresenta, nel vangelo di Matteo, il discorso specifico che Gesù fa ai suoi.
Per poter entrare in queste parole così dure, dobbiamo tener presente che nei Vangeli c’è una distinzione tra i discepoli e la folla. Secondo l’evangelista ci sono alcuni discorsi – per esempio le Beatitudini – che Gesù fa ai discepoli e tutta una serie di altre cose, come per esempio i miracoli, che Gesù fa alla folla. E’ come se ci fossero due livelli di appartenenza, i discepoli e la folla, che seguono criteri diversi.
Noi abbiamo un po’ appiattito questa situazione per una serie di motivi storici, o meglio, l’abbiamo appiattita nel modo di pensare, non nei fatti. Distinguiamo i cosiddetti cristiani impegnati dai cristiani della domenica, che nella nostra testa sono i peggiori; poi ci sono i lontani, che hanno diritto ad un’attenzione speciale, sono quelli da convertire.
Di fatto noi abbiamo una sola distinzione: i credenti e i non credenti, cioè o si è dentro o si è fuori.
La sequela
Nel Vangelo viene fuori una divisione diversa: ci sono i discepoli, coloro che hanno accettato una famigliarità con il Signore, una sequela, e stanno dentro il rapporto amoroso; poi c’è la folla, coloro che non stanno in questo rapporto, nella sequela. L’atteggiamento verso entrambi è amoroso. Rispetto alle folle il criterio è l’ospitalità: hanno fame, sono malati, il Signore li accoglie, li guarisce, non fa pagare la sua ospitalità.
Rispetto, invece, ai discepoli, il criterio è la sequela: “Vieni e seguimi”, senza aggiunte, senza contraccambi, senza guarigioni, né priorità… Quando i discepoli provano a chiedere a Gesù segni di distinzione, ottengono sempre risposte molto dure.
La logica della sequela non dà loro diritti speciali, non li mette primi in una graduatoria. Questo aspetto non è neppure contemplato, né un vantaggio, né una promozione di salvezza… Quando comincia l’annuncio della Passione nei racconti evangelici, agli apostoli si dice che seguiranno il Signore anche nella via della Passione. ‘Chi è con me fa la strada che faccio io’.
Il criterio della sequela è un modo di essere, una relazione con lui, non un criterio di premi e risultati, non un calcolo economico.
Rispetto alla folla, invece, c’è semplicemente un criterio di ospitalità; caso mai c’è una tristezza quando la folla non risponde – i dieci che vengono guariti e uno solo torna a ringraziare! Sono stati guariti ma sono rimasti chiusi rispetto all’ospitalità che hanno ricevuto… pazienza… è andata così!
Noi abbiamo l’idea che tutti dovrebbero diventare discepoli, come se ci fosse una graduatoria gerarchica per cui i cristiani impegnati sono il massimo, quindi bisogna far sì che tutti diventino cristiani impegnati. Non siamo mai in una logica di ospitalità gratuita.
Molto raramente siamo in grado di essere ospitali nelle nostre chiese, e non riusciamo a capire che la logica della sequela non è una logica mercantile. Dentro la logica della sequela si fa questo ragionamento: stare con Gesù è già la ricompensa. Come dice Pietro in Giov. 6: “Signore, da chi andremo?”
Succede nella nostra vita di tutti i giorni: quando uno si trova in disaccordo con la persona con cui condivide la vita, pensa di andarsene, sogna realtà diverse…, poi si ferma, riflette e riconosce che lì, nel bene e nel male, nella fatica e nella gioia, nei costi e nei pezzi di storia bella che ha in comune con l’altro, lì c’è la sua vita e non riuscirebbe a pensarla in un altro modo. Forse potrà migliorare la convivenza, smussare qualche angolo, non rinunciare a considerare che alcune cose possano cambiare, ma non riuscirebbe a pensare a se stesso in un altro luogo.
Quando uno ha superato i trentacinque anni e ripensa all’adolescenza, quando sognava di poter fare qualsiasi cosa, di avere diecimila futuri possibili, si rende conto che ne ha percorso uno solo, ma questo è “lui”.
E’ difficilissimo, nella vita di adulti, inventarsi una identità nuova; si può cambiare qualcosa – non siamo schiavi di noi stessi – ma non possiamo più pensarci senza gli anni che ci hanno condotto fin dove siamo. Nessuno cancellerà ciò che siamo, nel bene e nel male.
La sequela, il rapporto del discepolo con il Signore, funziona così, è una di quelle faccende su cui uno si dà da fare, si affatica, si stanca, a volte manda tutto al diavolo, dice “faccio un’altra cosa, basta!…” ma in realtà, rispetto al Signore, non potrebbe più pensare se stesso in un altro luogo possibile.
Le parole che abbiamo letto sono il cuore del cuore di chi sta in una relazione di questo tipo, indipendentemente da quello che fa: se va solo a messa la domenica, se è impegnato, se non va a messa, non è questo il problema. E’ la situazione di chi di fronte al Signore Gesù sta in una condizione non tanto di scelta razionale, – nella nostra vita noi non siamo ciò che siamo perché condividiamo tutti i pensieri di un altro… questi sono miti adolescenziali! – ma abbiamo quella pelle lì, siamo ciò che siamo perché opere, giorni, tempo, pensieri, quotidianità, famigliarità, intimità, grossi sogni, piccoli passi…. hanno costruito una carne e non riusciremmo più ad immaginarci con un’altra che non sia quella.
Questo è il discepolato! E questo discorso sta dentro questa logica, non fuori.
Dopo questa premessa si può dire ciò che altrimenti sarebbe stato mal compreso: questo discorso non è per tutti! Non nel senso che sia per pochi privilegiati, ma perché si capisce solo dentro un rapporto, non è una cosa che tu puoi comunicare a chiunque, a chi di per sé ha solo diritto all’ospitalità.
Faccio un esempio banale: tutti noi da grandi abbiamo tanti tipi e tanti livelli diversi di amici e di confidenze; non necessariamente questo corrisponde alla quantità di tempo che passiamo insieme o alla quantità di volte che ci vediamo. Ci sono persone con cui lavoriamo, che vediamo tutti i giorni, per anni della nostra vita, con cui non abbiamo la stessa intimità che abbiamo invece con persone che vediamo tre volte l’anno. Siamo più esigenti, più veri, più semplici con chi è più intimo con noi, agli altri diamo un’educata ospitalità! Per capirci, dunque, il discorso del discepolato non è per tutti così come la nostra confidenza non è per tutti, Non per tutti vuol dire: l’intimità “dell’anima in ciabatte” che noi non mostreremmo a chiunque.
Il testo: Matteo 10,34-42
34 Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; non sono venuto a portare pace, ma una spada. 35 Sono venuto infatti a separare
il figlio dal padre, la figlia dalla madre,
la nuora dalla suocera:
36 e i nemici dell’uomo saranno quelli della sua casa.
37 Chi ama il padre o la madre più di me non è degno di me; chi ama il figlio o la figlia più di me non è degno di me; 38 chi non prende la sua croce e non mi segue, non è degno di me. 39 Chi avrà trovato la sua vita, la perderà: e chi avrà perduto la sua vita per causa mia, la troverà. 40 Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato. 41 Chi accoglie un profeta come profeta, avrà la ricompensa del profeta, e chi accoglie un giusto come giusto, avrà la ricompensa del giusto. 42 E chi avrà dato anche solo un bicchiere di acqua fresca a uno di questi piccoli, perché è mio discepolo, in verità io vi dico: non perderà la sua ricompensa».
Commento:
L’intimità
Questo è un discorso per discepoli, un discorso dentro ad un’intimità e dunque un discorso che Gesù fa in modo duro, chiaro, senza fronzoli, senza esercitare l’ospitalità, perché l’intimità è molto più dell’ospitalità.
Sono nove versetti che costituiscono una struttura tre, tre, tre. I primi tre sono quelli in cui si dice:
34 Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; non sono venuto a portare pace, ma una spada. 35 Sono venuto infatti a separare
il figlio dal padre, la figlia dalla madre,
la nuora dalla suocera:
36 e i nemici dell’uomo saranno quelli della sua casa.
Nel secondo gruppo si dice:
37 Chi ama il padre o la madre più di me non è degno di me; chi ama il figlio o la figlia più di me non è degno di me; 38 chi non prende la sua croce e non mi segue, non è degno di me. 39 Chi avrà trovato la sua vita, la perderà: e chi avrà perduto la sua vita per causa mia, la troverà.
Ed infine i tre versetti sulla ricompensa:
41 Chi accoglie un profeta come profeta, avrà la ricompensa del profeta, e chi accoglie un giusto come giusto, avrà la ricompensa del giusto. 42 E chi avrà dato anche solo un bicchiere di acqua fresca a uno di questi piccoli, perché è mio discepolo, in verità io vi dico: non perderà la sua ricompensa».
Questa struttura è tipica del modo di scrivere dei vangeli: la struttura in parallelo. Bisogna andare a vedere qual è il versetto centrale, che è la chiave di tutto. Struttura in parallelismo in cui, per facilitare la memorizzazione, c’era una corrispondenza tra il primo e l’ultimo, il secondo e il penultimo, in modo da mettere al centro la cosa importante, così uno ripeteva la filastrocca e se lo ricordava.
Qui il versetto centrale è:
38 chi non prende la sua croce e non mi segue, non è degno di me.
Il versetto sulla croce è il punto d’appoggio di questa struttura. Otto versetti sono tenuti su da questo perno, che è un po’ come il perno di una ruota attorno a cui tutto il resto gira: se non c’è il perno la ruota non gira più!
L’esigenza del discepolato è esattamente dall’altra parte rispetto al racconto di Caino e Abele, dove Caino vede che Abele è diverso, ciò lo fa sentire derubato in qualcosa dalla diversità dell’altro, per cui lui uccide.
All’altro capo c’è colui che vede che Dio è diverso, prende la propria croce (non si dice cerca la propria croce, ma la prende! Le croci vengono da sole!) e segue Gesù.
La logica, dalla parte di Caino, è: la diversità mi fa sentire derubato e dunque io uccido; dall’altra parte è: la diversità di Dio mi fa assumere la croce fino a morire. Assumo su di me il peso del conflitto inevitabile perché diventi creatore.
Quando eravamo piccoli ci hanno insegnato che la croce di Gesù ci ha salvati, che il dolore è redentivo, salvifico, dà vita. Si voleva sottolineare che, di fronte a un dolore, solo assumerlo lo rende redentivo, produttore di vita. Più io lo butto addosso agli altri e più uccide, più lo prendo su di me, più fa crescere.
E’ una regoletta banale, ma è di una concretezza e semplicità enorme. Tutto ciò che noi assumiamo, nel senso più complesso del termine, dà vita, mentre tutto ciò che buttiamo sulle spalle degli altri uccide.
Questa é la regola della croce, detta in termini non pii, non religiosi, questo è il criterio del discepolato. Per essere degni di Gesù bisogna assumere, invece di buttare addosso agli altri. Sembra facile, ma non lo è.
Il novecento ha inventato la psicanalisi per aiutare a non rimuovere (buttar via oppure proiettare), cioè a non buttare addosso agli altri, tutto ciò che si fatica ad assumere. Perché assumere se stessi, la propria vita, il mondo, la fatica, la realtà, le gioie, è la regola della vita!
Farsene carico non significa sentirsi onnipotenti! – ricordate il tema della parzialità – ma assumere nella nostra parzialità, sapendo che c’è sempre un pezzo che non ci appartiene perché noi non siamo tutto. Assumere invece di buttare via, di proiettare, di buttare addosso agli altri.
E’ ciò che porta Gesù ad assumere tutto il male del mondo sulla croce: dunque risuscita, produce vita!
La croce
Questo è il versetto centrale, Gesù dice:
38 chi non prende la sua croce e non mi segue, non è degno di me.
Il criterio del discepolato, il criterio di giudizio su qualsiasi conflitto, violenza o dolore non si basa su chi ha torto o chi ha ragione, ma su qual è la dinamica che stiamo attuando, o che vediamo attuata. E’ una dinamica di assunzione o una dinamica che butta fuori, che mette addosso ad altri? E’ questo il nocciolo della situazione: produce vita ciò che è assunto!
Intorno a questo ci sono tutti gli altri versetti:
34 Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; non sono venuto a portare pace, ma una spada.
Questa frase è molto dura, specialmente in questo momento storico, ma forse ci dà qualche criterio per capire, ragionare un po’ sulle cose che stanno succedendo intorno a noi.
Bisogna capire che cosa vuol dire pace e che cosa vuol dire spada. Ciò che Gesù è venuto a portare è un criterio di giudizio tagliente, è qualcosa che, come dice dopo, separa.
In termini moderni potremmo dire: Gesù è assolutamente contro la confusione. C’è un criterio di giudizio rispetto al Regno di Dio e al discepolato che è duro, tagliente come una spada, è qualcosa che costringe a separarsi, ad assumere la propria parzialità, a sapere che non siamo tutto. E’ un criterio che non porta pace nel senso del facile andare d’accordo. San Paolo dirà: ‘Colui che è venuto a mettere pace fra i due popoli, a fare dei due popoli uno solo’…
Qui non ci riferiamo alla pace in senso storico, politico. Gesù dice che non è venuto a portare una soluzione a buon mercato, una specie di abbraccio generale in cui tutto va bene, ma una spada tagliente che esercita un giudizio, che è un criterio che divide, che separa, che rende parziali.
Se ci fate caso, nei versetti seguenti si parla di separazioni in senso verticale e mai in orizzontale – separa il figlio dal padre, la figlia dalla madre…. chi ama il padre e la madre, chi ama il figlio e la figlia…
Vengono interrotte tutte relazioni verticali, non si parla di fratelli e sorelle, per esempio. Non c’è più nessuna gerarchia, nessun ordine di questo mondo che stia al posto suo, non c’è più un grande e un piccolo, uno che ha più potere o meno. Qui si dice: è cambiato l’ordine dei fattori. Questa spada porta una separazione, cioè uno spezzarsi, un parzializzarsi di tutti i nostri criteri, perché il criterio della croce rimane l’unico.
Gli affetti
37 Chi ama il padre o la madre più di me non è degno di me; chi ama il figlio o la figlia più di me non è degno di me;
Se lo prendiamo sul serio va a toccare un punto nervoso di quelli molto irritanti. Forse l’abbiamo sempre considerato in modo non proprio letterale, perché va a toccare quei rapporti da cui veniamo o verso cui proiettiamo tutto il nostro futuro, rapporti che sono il culmine di tutte le proiezioni e rimozioni possibili.
Cosa fa uno quando ha paura di morire? Fa un figlio. Come fa uno quando non si sente nessuno? In genere se la prende con i genitori.
La psicanalisi un po’ ci ha aiutati: i rapporti da cui veniamo e quelli verso cui ci proiettiamo, oltre ad essere valori importanti, sono anche i luoghi più intricati, più faticosi sia del nostro crescere che del nostro fruttificare.
Per tutti i genitori trovare la misura dell’autonomia dei propri figli è una fatica senza limiti. Per tutti i figli elaborare la propria autonomia dai genitori è una fatica lunga, dura una quindicina di anni, e sono fatiche mentali ma molto concrete, quotidiane.
I rapporti famigliari sono il nodo dove ciascuno di noi proietta o rimuove tutto ciò che non riesce ad assumere di sé, della propria identità, della propria vita, perché sono i nostri rapporti più carnali, più intimi, più vicini, quelli che, per quanto con la testa possiamo decidere di non percorrere, non ce li togliamo di dosso, perché non dipendono da una scelta, ci hanno accompagnati dal nostro venire al mondo e ci accompagneranno fino all’ultimo respiro.
Questo versetto non dice niente sulla qualità dei nostri rapporti affettivi genitori-figli. Sottolinea che, se non riusciamo ad assumere la nostra croce, anche in questi rapporti così forti, non siamo degni del discepolato.
Da questo punto di vista mi pare che il novecento confermi che il Vangelo è una buona legge di sana esistenza e di equilibrio mentale, perché ci dice che non c’è nessun luogo, nemmeno quelli più stretti, più profondi, più nascosti di noi, nessun luogo che ci giustifichi rispetto all’assumere sé, la propria realtà e il mondo con la coscienza della propria parzialità. Credo che ci siano pochi criteri di salute mentale, di capacità di andare d’accordo con gli altri, migliori di questo.
39 Chi avrà trovato la sua vita, la perderà: e chi avrà perduto la sua vita per causa mia, la troverà.
Chi pensa, a forza di sistemare le proprie proiezioni ovunque, di avere in mano la propria vita, di governarla, di averla sistemata; chi non pensa più di essere perennemente di fronte al mistero della propria esistenza ma crede di poterla governare di suo… la perderà.
Chi invece avrà il coraggio, in questa sequela, di rimanere, nella vita, di fronte al mistero della propria esistenza che non gli appartiene totalmente, di sapere che c’è qualcosa che passa per una croce che per noi non è gestibile, non è direttamente governabile, troverà la propria vita.
Gli ultimi tre versetti.
40 Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato.
C’è una catena: la diversità di Dio passa attraverso la diversità di Gesù, che diventa visibile nella diversità dei discepoli; dunque, l’alterità che Dio è, è manifestata in Gesù e i suoi discepoli diventano altri, assumono la croce come Gesù, diventano visibilmente, per il mondo, un’altra logica nel conflitto.
La ricompensa
In ultimo c’è il discorso sull’equità della ricompensa.
41 Chi accoglie un profeta come profeta, avrà la ricompensa del profeta, e chi accoglie un giusto come giusto, avrà la ricompensa del giusto. 42 E chi avrà dato anche solo un bicchiere di acqua fresca a uno di questi piccoli, perché è mio discepolo, in verità io vi dico: non perderà la sua ricompensa».
C’è un criterio di equità: se tu fai ciò che ha buon senso fare, e dunque tratti un giusto come giusto, un profeta come profeta, va benissimo, è normale! Il problema è fare ciò che non si vede come logico, cioé scoprire il peso infinito di un bicchier d’acqua dato a un piccolo. Di per sé è una cosa che non vale niente data a uno che non vale niente. E’ diverso dal trattare un giusto come giusto, un profeta come profeta!
Un mio professore, riguardo al versetto delle Beatitudini: “Beati voi quando vi perseguiteranno e mentendo diranno di voi ogni male”, ci faceva notare che c’è scritto ‘mentendo’.
Se dicono di noi ogni male a ragione, perché ce lo meritiamo, non c’è nessuna beatitudine. Perché ci sia una beatitudine è fondamentale che il male detto di noi sia falso.
Questo passaggio non ci viene del tutto automatico: se io faccio qualcosa di bene ad un altro e quello non mi ringrazia, mi pare ci sia qualcosa di strano. In realtà lì sarebbe trattare il giusto da giusto ed avere la ricompensa del giusto. Qui il criterio che viene posto è esattamente quello di un bicchiere d’acqua – che è niente – dato a un piccolo – uno che è niente.
Il discepolo entra nella logica dell’asimmetria dei rapporti: non si dà il giusto a chi è giusto e la condanna a chi è ladro
La simmetria dei rapporti è la cultura del conflitto, della violenza, è la cultura della proiezione: tu hai quello che ti meriti.
Per i discepoli il criterio è l’asimmetria; non tra me – che sono buonissimo, molto caritatevole – e l’altro che non se lo merita, bensì tra noi e Dio. Io faccio un gesto da niente: dò un bicchiere d’acqua, una cosa da niente ad uno da niente, e questo ha in eredità il regno di Dio.
L’asimmetria è tra noi e Dio, tra me che faccio un gesto da niente perché sono un parziale, posso fare solo piccolissime cose, e quello che lo riceve che, di suo, sarebbe niente pure lui, non è che se lo meriti, che sia un giusto o un profeta; e queste due somme di niente sono asimmetriche rispetto a Dio, perché diventano una grande cosa.
Questo è il criterio della croce, l’assunzione su di sé e l’asimmetria del rapporto rispetto a Dio.
Questa è la sequela di Gesù, perché così ha fatto Gesù: ha preso su di sé il male del mondo ed è stato assolutamente asimmetrico rispetto alla giustizia, all’ingiustizia, a chi se lo meritava, a chi non lo meritava… Ha creato una radicale asimmetria che è quella della croce.
Mi pare che questi versetti siano molto duri nel loro linguaggio e ci precludano ogni possibilità di pensare a un modo facile e un po’ dolciastro di risolvere i conflitti, tipo: basta sforzarsi di capirsi, di volersi bene, di trattarsi bene, come mostrano i rapporti seri nella vita: gli amori, i figli, i genitori. La radicalità delle questioni non è mai a buon mercato – che non vuol dire senza educazione. La nostra vita ha un caro prezzo, la nostra vita è carne e sangue.
L’annuncio radicale che da soli non ci potremmo dare, cioè la novità che Gesù viene a dirci da parte di Dio come buona notizia è: c’è una logica salvifica, la logica della croce! Prendere su di sé, invece che buttare sull’altro!
Assumere, con tutta la complessità che ciò comporta; assumere a partire da una parzialità; non assumere come criterio di onnipotenza, ma come capacità di fare proprio, di ragionare su sé e sulla parte di sé che è possibile giocare!
C’è un criterio di asimmetria in questa operazione: non produce mai semplicemente uno a uno, ma segue la regola del centuplo, quella dei discepoli: il centuplo quaggiù e l’eternità! C’è un’asimmetria rispetto a Dio: i frutti sono in genere altrove rispetto a dove ci aspettiamo che vengano fuori, fiorisce qualcos’altro, cresce un pezzo di vita laddove noi non sappiamo che potrebbe crescere. Questa è la legge base del discepolo, la legge della croce è una legge di asimmetria. Questa è una parola scandalosa, dura da digerire, una buona notizia che viene dal cielo, qualcosa che dal nostro buon senso non verrebbe fuori e su cui decidere di essere un discepolo può richiedere molti anni.
Tutti noi abbiamo il dovere, non solo il diritto di godere dell’ospitalità della Chiesa e del Vangelo mentre tentiamo di decidere di intraprendere la dura vita del discepolo. C’è tempo, si può fare, l’unica cosa che non possiamo fare è far finta di niente.
Noi non potremmo spremere dalla nostra riflessione la durezza innovativa di questa parola e c’è una decisione da prendere circa la nostra vita, il criterio di fondo della nostra esistenza, non sulle cose da fare, ma su come questo criterio ristruttura la nostra vita come vita di un discepolo.
Nel frattempo però abbiamo il tempo e la gioia dell’ospitalità nell’evangelo, cioé possiamo implorare per le nostre fatiche, sperare di essere guariti, ascoltare l’insegnamento, essere nutriti quando abbiamo fame, perché Gesù non butta fuori nessuno. La legge dell’ospitalità che riguarda la folla riguarda anche noi e dunque la scelta per un verso è dura, ma per un altro verso è una grande scelta affettuosa che possiamo compiere dentro un clima di ospitalità.
La croce è la grande figura che rovescia la semplice descrizione della realtà in cui il conflitto, la violenza fanno parte di ciò che accade; la croce dice che ci sono dei criteri che noi possiamo usare se ordiniamo la nostra vita a Dio, se la mettiamo nella logica di Dio.
Questo è l’annuncio potente della croce e non è a buon mercato, ha un costo molto alto.
Fossano, 8 febbraio 2003
(testo non rivisto dal relatore)
Lectio 2002/2003
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