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10 Novembre 2007
Stella Morra

2. Incontri traditi

Commento a: Es 32, 1-14


Premessa

Il mese scorso abbiamo iniziato il percorso sul tema dell’incontro. Già il titolo “Solo un Dio ci può salvare” mette in evidenza l’idea che l’incontro qualificante, quello che dà la misura e la logica di tutti gli incontri, è l’incontro con Dio. Si dice spesso ‘incontrare Dio’, come se fosse una cosa automatica, come se nella nostra esperienza quotidiana fosse possibile in modo immediato, senza ragionamenti previ, senza comprensioni ulteriori, uscire e incontrare Dio! Ma non è così facile. Noi tentiamo un percorso, e con le prime due lectio vediamo come la scrittura ci presenta la struttura dell’incontro, come ci aiuta a ripensare i presupposti, il metodo fondamentale di questa dinamica che ha sempre delle caratteristiche complesse, mentre noi tendiamo a darla per scontata nella vita.

Ci siamo fermati sul brano di Genesi dell’incontro di Abramo e Sara a Mamre con i tre pellegrini misteriosi e il preannuncio della nascita di Isacco. Quel testo descrive la struttura fondamentale dell’incontro positivo con una vita che fiorisce – la propria e l’altrui vita – e, insieme, mette in luce la necessità di sbilanciamento, di appoggiarsi su una parte che non è la nostra. La conclusione di quel racconto è la conclusione fiorita della parte luminosa dell’incontro: la risata e la vita che arriva. E dice di tutte quelle volte in cui l’incontro con noi stessi, innanzitutto, e con la vita che ci visita – con la vita che non è sinonimo di me, ma è quel pezzo di vita che non mi appartiene, che non governo – avviene felicemente e termina con una risata e un pezzo di vita nuova che nasce.

Oggi ci fermeremo sull’inizio del cap. 32 di Esodo che ci presenta l’altra metà della struttura. Vedremo la seconda parte di ciò che accade normalmente, non per responsabilità o per cattiveria, accade perché così vanno le cose, perché a volte dipende da qualcuno, a volte no; a volte dipende dalla libertà degli altri, a volte dalla mia incapacità; a volte dipende semplicemente dai fatti che sono così, dal reale che li suppone. Ed è il lato ombroso dell’incontro, la parte oscura, faticosa della dinamica dell’incontrare gli altri, se stessi, la propria vita.

Spenderei due parole per chiarire bene questo aspetto perché credo che, in generale in questa cultura, ma in particolare nel mondo credente, ci sia un fortissimo ribrezzo rispetto a tutto ciò che è l’aspetto ombra della vita. Lo rimuoviamo continuamente, lo cancelliamo. O, più spesso, lo addebitiamo immediatamente ad un colpevole, reale o  inventato. Il nostro problema è sempre, di chi è la colpa? Se siamo un po’ ripiegati su noi stessi diventano sensi di colpa –non ho fatto, non ho detto –; se non siamo tanto ripiegati su noi stessi diventano accuse agli altri – chi è il colpevole? tu non hai fatto, non hai detto, potevi fare, dire…-; ma è come se noi riuscissimo ad accettare il lato ombroso dell’esistenza solo nella misura in cui riusciamo ad individuare un colpevole, una circostanza, un fatto, una persona. E questa è una delle grandi illusioni di questo tempo, perché presuppone che tutto sia governato da scelte libere e responsabili. Il che non è vero! La realtà ha una sua autonomia, le cose accadono indipendentemente dalle nostre scelte. Non solo, ma il sommarsi di libertà diverse, la mia, la vostra ecc. dà un risultato che è superiore, e, in qualche modo, non necessariamente voluto dalla mia e dalla vostra scelta. Faccio un esempio terra terra ma, credo, abbastanza chiaro, l’esperienza che tutti facciamo della difficoltà di comunicare. Anche quando io, con le migliori intenzioni, cerco di spiegare qualcosa di profondo, di serio ad un altro e mi impegno al massimo ad essere sincero, e l’altro è totalmente disponibile ad ascoltarmi, non è detto che la somma di queste due scelte libere dia una comunicazione chiara. E questo succede perché io sono sincero, ma non sono vero, perché solo Dio è totalmente vero. Noi possiamo sperare di aumentare la quota della nostra verità, ma non sappiamo tutto di noi e, dunque, possiamo essere totalmente sinceri per la parte di noi che abbiamo capito, visitato, che sappiamo raccontare, ma probabilmente ci sono dei pezzi di noi che agiscono, che sono visibili per gli altri e ancora nascosti a noi. E, contemporaneamente, perché le cose che io dico sforzandomi faticosamente, le dico a partire da un luogo che l’altro non ha dentro di sé, per cui vanno a finire in un luogo diverso. Io le dico a partire dallo spessore di aver ragionato, pensato, vissuto, sofferto, cresciuto tutta una serie di cose e l’altro magari le ascolta con l’ingenuità di uno che, su quell’aspetto della vita, non ci ha mai pensato prima, e percepisce il dieci o il venti per cento di quello che io sto cercando di dirgli. Quell’esperienza di incomprensione non è legata né alla mia cattiva volontà né a quella dell’altro. La somma di due buone libertà giocate bene dà comunque un aspetto ombroso.

Faccio una parentesi: questo è il motivo per cui ai cristiani è richiesta misericordia. La misericordia non si esercita dall’alto di un luogo sicuro, pacificato, o dall’opzione libera di essere buoni rispetto agli altri, ma si esercita a partire dall’esperienza di non sapere e non potere tutto di sé, e di supporre sempre che l’altro di fronte a me certamente non sa un gran numero di cose – sì, mi ha offeso, ha detto cose malvagie; devo aiutarlo a prendere consapevolezza di sé, a rendersi conto che non può malmenare le persone così, gratuitamente, – ma tra questo e un giudizio sull’altro… La chiesa ha sempre insegnato questo, sottolineando che per il peccato mortale servono piena avvertenza, deliberato consenso e materia grave. Piena avvertenza: bisognerà sapere pienamente tutto ciò di cui si tratta; deliberato consenso: sapendo esattamente di che si tratta, decidere con piena lucidità, che quello che faccio è proprio ciò che voglio; e materia grave: una faccenda seria; se no non si dà peccato mortale. Questa non è un’innovazione recente; ce l’hanno insegnato al catechismo molti anni fa.

Da questo punto di vista per noi è faticoso ammettere che le cose hanno un lato ombroso, non sono sempre immediatamente frutto di scelte deliberate mie o altrui, non sono sempre in piena luce; per es. spesso io decido avendo pensato bene, ragionato, e, nel momento in cui metto in atto una cosa, mi rendo conto che non avevo visto metà della questione. Spesso ciò accade parlando: dici una cosa e mentre la pronunci – la parola è già uscita – ti rendi conto che è equivoca, può essere mal interpretata e vorresti ritirarla indietro, dicendo:  no, non è questo che intendevo… Questo succede perchè molte sono le cose che sfuggono al nostro dominio; il che non vuol dire che non abbiamo una libertà da giocare; possiamo giocare la nostra libertà e la giochiamo abitando anche il lato di ombra, sapendo che l’ombra esiste.

Parlando di lato di ombra degli incontri intendo questo: solo in cielo ogni incontro sarà frutto dell’apertura del cuore dell’uno all’altro, non avrà disturbi di comunicazione, e lo sforzo di sincerità corrisponderà anche alla verità. Nella storia siamo in cammino; ognuno di noi cerca di essere ogni giorno un po’ più vero e, se gli riesce, cerca di morire se stesso, con una buona verità di sé. Certo ognuno di noi si sforza di essere sincero, ma è consapevole di essere nella storia; anzi, sa che la storia ci è data proprio per questo: ci è dato il tempo per avere il tempo di diventare noi. Ciò che doveva succedere a livello universale è già successo: Gesù è morto, ci ha salvato, è risuscitato; basta, finito. Nel primo secolo i cristiani avevano il problema del ritardo della parusia. Dicevano: è successo tutto, la storia deve finire! E siccome la storia non finisce, ci si domanda: perché dura ancora il tempo, se la cosa essenziale è già successa? Con linguaggio moderno possiamo dire: il tempo dura ancora perché noi dobbiamo ancora avere il tempo di diventare noi! Dio ha così tanta fantasia da desiderare che ognuno di noi riceva la salvezza di Cristo a misura della propria verità. E se la nostra misura è troppo stretta, avremo una salvezza troppo piccola. Per questo abbiamo il tempo per poter allargare la misura della nostra verità e, un po’ alla volta, poter accedere a una salvezza  grande!

Fare l’esercizio di scoprire il lato ombroso delle cose, il lato oscuro, il più doloroso, il meno governato, è fondamentale, ma è uno dei più difficili, per la nostra situazione attuale. In fondo  ci piace di più la logica del peccato, perché uno dice, va beh, ho sbagliato, io – sono sempre io il soggetto – decido io se ho sbagliato.  Abitare una sospensione in cui non si sa ancora se le cose mostreranno che quella situazione è benedizione o no, richiede un esercizio che per noi è molto faticoso. Io credo che, da questo punto di vista, dovremmo riflettere sulla nostra volontà di dare immediatamente un giudizio sulle scelte che facciamo. Le cose giuste si fanno, quelle non giuste non si fanno. Nella vita a volte bisogna passare attraverso delle cose ingiuste, che ci consentono di acquistare una libertà sufficiente per arrivare con verità a una cosa giusta. La storia ci è data e questa ha un senso: dobbiamo passare attraverso alle cose, e certe volte pazientare in una situazione che non riconosciamo come la migliore possibile, ma che deve mostrare da che parte va, perché se la vita non mostra da che parte va, non sappiamo dove andare.

Il testo di oggi ci offre una rivisitazione molto rigida, perché non ha i problemi che abbiamo  noi oggi, non è un testo moderno; è uno dei più antichi racconti della scrittura, è arcaico, ma ci mostra una rappresentazione molto chiara di che cosa può essere il lato d’ombra e di come bisogna muoversi, quali sono i criteri. E’ un testo molto schematico e ci aiuta a capire la struttura fondamentale.

 

La separazione

 

La struttura del lato d’ombra degli incontri sta tutta nei primi due versetti. Dal versetto tre in avanti sono spiegati i vari modi in cui si può stare nella zona d’ombra. Qui, se la lettura fosse alla  ricerca del colpevole, suonerebbe così: Dio ha fatto uscire il popolo dall’Egitto, li ha liberati dalla schiavitù; il popolo ingrato, peccatore, si è fatto un idolo e Mosè, che in fondo è buono, si commuove ed estorce a Dio il perdono. Ma questa lettura ci lascia completamente fuori. Il fatto è successo a loro; al massimo posso chiedermi da quale  schiavitù mi ha liberato Dio, quali idoli posso incontrare, ma mi lascia comunque spettatore. E’ successo altrove, in un altro luogo; una cosa così rozza noi, oggi, non la faremmo! Mi pare si possa trovare in questo testo la sua struttura più profonda che, dicevo, è la struttura del lato d’ombra di ogni incontro. C’è stato un grande incontro tra Dio e il suo popolo attraverso la mediazione di Mosè e questo incontro ha fiorito vita. E’ stata la parte gioiosa, come nel racconto di Abramo. Qui gli israeliti sono usciti dall’Egitto carichi d’oro. E’ l’aspetto promettente di ogni incontro.

Poi succede che: “Il popolo, vedendo che Mosè tardava a scendere dalla montagna, si affollò intorno ad Aronne e gli disse: ‘Facci un dio che cammini alla nostra testa, perché a quel Mosè, l’uomo che ci ha fatti uscire dal paese d’Egitto, non sappiamo che cosa sia accaduto”.

Il dramma, il lato d’ombra di ogni incontro, è la separazione. Avvicinarsi comporta sempre il rischio, ma anche il dovere, di distanziarsi, perché se no è una simbiosi patologica – uno si avvicina sempre di più e alla fine collassa. Un incontro sano ha una dimensione di vicinanza e una di distanza, perché un incontro presuppone due, non può essere che uno si incolli addosso all’altro, o che uno diventi l’altro, o che governi al posto suo. Il lato d’ombra di ogni incontro è la separazione, la distanza; cioè, un incontro sano presuppone perennemente una misura. Ecco l’esempio che ogni psicologo farebbe: un buon genitore è quello che sa stare vicino ai propri figli, essere presente, e contemporaneamente curare e nutrire la loro autonomia, fare in modo che a un certo punto siano in grado di camminare con le proprie gambe. Se uno nutre solo la dipendenza dei propri figli, non è un buon genitore, perché fa crescere delle persone che avranno sempre bisogno di lui. Questa è la tentazione segreta di ogni incontro, non quella che dicevamo l’altra volta: mettere la propria contentezza di vita nelle mani della libertà di un altro, ma la tentazione, la perversione di un incontro, è dominare la felicità dell’altro che mette la sua possibilità di vita nelle mie mani. E questa è la tentazione possibile, costante di ogni incontro. Per questo il lato ombroso di ogni incontro è la separazione, la distanza, o meglio la misura tra vicinanza e distanza.

Qui, Dio ha fatto uscire il suo popolo, la vita è fiorita, è finita la schiavitù. Il popolo si avvia verso un paese dove scorre latte e miele e, ad un certo punto, eccoli nel deserto, grande metafora di separazione, di distanze. Prima hanno fame, e arrivano le quaglie, la manna; poi hanno sete, e l’acqua sgorga dalla roccia; e a un certo punto, Mosè sale sulla montagna, e non si vede più!

Letto con questa ottica è plateale: ci sono due elementi su cui il popolo si agita: “Mosè tarda” e “non si vede uno che cammini davanti a noi”. Che è l’angoscia di ogni separazione: il tempo e vedere l’altro. Si possono accettare separazioni, se telefoni, se mi fai sapere come stai… C’è tutta una serie di esercizi che facciamo per sopportare la distanza. Ma allora non c’erano i telefonini … e Mosè non poteva farsi sentire, avvisare del ritorno! Il popolo non regge che Mosè tardi e che Dio non si veda. Il racconto dice che Mosè sale sul monte e il monte è coperto da una nube, che è presenza di Dio. Il popolo sapeva, che la nube era Dio, perché, secondo il racconto, la nube li aveva preceduti, ed era la nube luminosa che li aveva guidati nel deserto; ma Mosè tarda; la nube rende impossibile vedere, e  questa situazione non si può sopportare.

Lo spostamento

E lì fanno la tipica operazione che si fa quando non si sopporta la propria ansia rispetto a un rapporto: ci si rivolge ad un terzo; e qui ad Aronne. Cioè spostano l’ansia su un altro interlocutore. Mosè è lassù, non c’è; Aronne è lì, perfetto! Così si tradisce un incontro. Il problema non è l’altro in sé: Mosè che diventa geloso di Aronne; non è questa la questione. Il tradimento di un incontro è quando, non sopportando la dimensione ombrosa di separazione, volendo solo ripetere la vicinanza, io mi rivolgo continuamente ad altri, o ad altre cose, per continuare a sperimentare vicinanze, e continuamente spostarle quando presentano la loro misura di separazione. E dunque cerco un’altra cosa, metto in mezzo un terzo.

Il versetto 2 è ancora più chiaro. “Aronne rispose loro: ‘Togliete i pendenti d’oro che hanno agli orecchi le vostre mogli e le vostre figlie e portateli a me”.

Se rileggete i primi capitoli dell’Esodo, fino al passaggio del Mar Rosso, vedrete che l’incontro liberatorio fra Dio e il suo popolo è tutta una faccenda di donne –l’abbiamo commentato già forse l’anno scorso: ci sono le levatrici, la figlia del Faraone, il Faraone che dice: ‘Date oro per i gioielli e monili delle loro mogli e delle loro figlie’ – cioè, la misura sulle vicinanze e distanze è faccenda di donne. Non che i maschi non abbiano questo problema, ma riguarda la parte femminile, la parte di cura, quella che genera la vita. Distanza e vicinanza non è un problema di giustizia, di misura scientifica, è un problema di vita generata; non a caso prima ho fatto l’esempio dei figli. E’ il luogo dove lo sperimentiamo di più perché la vita, che è la nostra stessa vita, ma che non è la nostra, è la vita dei nostri figli. La misura sulla distanza e la vicinanza è una cosa che si partorisce. Le distanze si partoriscono e dunque richiedono una gestazione, non si inventano, se no sono un film, una scena. Le distanze vere hanno bisogno di un tempo, devono essere partorite e  sopportate con tutte le dinamiche proprie di ciò che riguarda la vita. In questo senso sono faccende di donne, tanto l’incontro nella sua dimensione positiva, nel suo fiorire di vita: le levatrici, la figlia del faraone che salva la vita di Mosè…, tanto nella sua possibilità di tradimento, nel suo lato più ombroso.

Il lato ombroso dell’incontro è: non c’è solo la vicinanza, la comunione, capirsi, incontrasi e riconoscersi, ma c’è anche il misurare una distanza. E’ altrettanto importante in un incontro la presenza dell’altro come la sua assenza, anzi spesso è la sua assenza la vera misura della sua presenza. L’incontro opera nella mia vita tanto quando l’altro c’è, è lì, quanto, e forse di più, quando l’altro non c’è fisicamente. Attenzione, questo vale anche per noi stessi. L’incontro con la mia stessa vita è fondamentale tanto quando io sono presente alla mia vita: scelgo, decido, so, sono consapevole, desidero, progetto, costruisco, tanto, e forse di più, per quella parte della mia vita che io ricevo in dono dagli altri, dalla storia, da Dio e che non è quella che partorisco io. Tanto, e forse di più, nella misura in cui so fare un passo indietro rispetto alla mia vita.

Questa è la struttura fondamentale. Mi pare che non ci venga spontaneo, bisogna fare un esercizio di memoria; siamo in una cultura, in un tempo che ha fatto di tutto per rimuovere questo. Siamo così abituati a comunicazioni sempre più immediate, all’istantaneità di presenza e al fatto che solo la mia volontà governa la presenza dell’altro presso di me, che non c’è mai distanza. L’unica distanza è quella che mi prendo io, decido che stacco. Da cristiani noi abbiamo la potenza dell’immagine di Dio, perfetta comunione, che ci fa desiderare di andare in quella direzione, senza renderci conto che la perfetta comunione implica una misura incredibile di distanza e vicinanza.

Tutto il popolo casca nella logica del ‘terzo’, di questo spostamento e fa quello che Aronne dice. “Egli li ricevette dalle loro mani e li fece fondere in una forma e ne ottenne un vitello di metallo fuso”.

E poi c’è la recita del rapporto come era prima: “Ecco il tuo Dio, o Israele, colui  che ti ha fatto uscire dal paese d’Egitto!”.

Si costruisce un altare, si fa festa in onore del Signore, si offrono olocausti, comunione, c’è allegria, risata, divertimento… Ma è tutto recitato. E’ la recita spostata. E’ che, non avendo sopportato la distanza, costruisco la recita di una nuova vicinanza. Come se il popolo potesse replicare l’uscita dall’Egitto, e la festa, e il canto che ne è venuto fuori.

La forma è il vitello – qualsiasi esegeta vi spiegherà i culti cananei… – cioè c’è tutto un richiamo al tempo in cui questo teso è stato scritto, alle religioni vicine, ai culti della terra, della fecondità… Gli ebrei erano nomadi raccoglitori, non allevatori, e dunque l’immagine del vitello che è quella dell’allevatore, dello stanziale, era pagare un  prezzo alla cultura che li circondava – ma anche qui, nella logica della lettura nostra, c’è il simulacro della vita. La vita che non passa per le donne passa per la vita della natura. E’ la costruzione di un simulacro, di un cartone animato perché non c’è la realtà. Si rifà una scena, avendo capito benissimo quali sono gli elementi in gioco; sono gli stessi elementi di cui abbiamo parlato l’altra volta: c’è la vita, un altare, un luogo – l’altare nella struttura letteraria antica di questi testi è sempre la precisione di un luogo concreto, quando succede una cosa si fa un altare; è una cosa che ci è rimasta, i santuari sul luogo delle apparizioni, sulla morte dei martiri. E’ per dire: proprio qui! In un posto specifico, non in una fantasia, in un’immagine. Si fa un altare in onore del Signore, dunque l’intenzione è buona, è religiosa, non c’è niente di profano, di malvagio, non si rinnega Mosè…No, si rifà una scena.

Io credo che dovremmo chiederci con grande serietà le proprietà di un incontro con Dio, perché qui sta o cade tutto quello che vorremmo vedere insieme dal prossimo brano: la novità cristiana. Quante volte, nelle grandi come nelle piccole cose, la non sopportazione di una separazione ci fa costruire la scena di un’altra pretesa vicinanza!. Quante volte il meccanismo che attuiamo è questa logica per cui, poiché non sopporto che tarda a mostrarsi, quella sovrabbondanza di vita che non governo io che abbiamo visto nel racconto di Abramo, perché ancora non si vede quello che la vita sta cucinando per me, perché non posso decidere io, allora mi sposto e costruisco un simulacro che a quel punto funziona tutto perché decido io le parti, il copione. E poi diciamo che la vita è ingrata; perché i copioni costruiti falliscono sempre, alla fine crollano.

La perversione

E qui, dal versetto 7, comincia un’altra scena, quella che si svolge in alto, sul monte, tra Mosè e il Signore, mentre in basso si è svolta questa struttura fondamentale di non sopportazione del lato ombroso dell’incontro. In alto c’è un altro incontro, quello tra Mosè e Dio, che regge il lato ombroso. Mosè discute con Dio. Dio, nella sua ira, stabilisce una distanza. Il racconto, nel genere letterario antico, di una ira di Dio, è il racconto di una distanza. E Mosè la regge, non la sfugge e vedremo come la abita. E dunque Mosè funge da terzo virtuoso tra Dio e il suo popolo, non da terzo perverso, di spostamento, come Aronne.

“Il Signore disse a Mosè: ‘Va’, scendi, perché il tuo popolo, che tu hai fatto uscire dal paese d’Egitto, si è pervertito”.

Questo ‘tu’ ha lo stesso suono del racconto di Genesi: “la donna che tu mi hai messo al fianco mi ha dato da mangiare”.  Un incontro tradito, il non reggere la distanza, non è senza conseguenze, provoca la catena della colpa. L’unica cosa che possiamo fare ogni volta che non reggiamo una distanza, che non la sappiamo costruire, che non la sappiamo riconoscere ed accettare, è spostare e poi prendercela con qualcuno. E’ spostare, palleggiare la responsabilità dell’incontro. Sei tu! Ma tu hai detto! Ma tu hai fatto!… E’ tipico di quando si discute e non ci si capisce. L’incontro felice ha sempre come soggetto io; l’incontro infelice, faticoso, ha sempre come soggetto tu!

“Il Signore dice a Mosè: ‘Va’, scendi, perchè il tuo popolo, che tu hai fatto uscire dal paese d’Egitto si è pervertito”.  Il Signore lo invita a distanziarsi da lui, lo manda lontano.

Il termine pervertito è molto forte, è un termine potente, che nella scrittura si usa raramente, e, come in italiano, è il contrario di convertito–con-versione, per-versione hanno una radice simile. Così come convertirsi vuol dire tornare sui propri passi, riprendere le fila; pervertirsi vuol dire confondersi, confondere le fila. E’ un termine molto forte, di confusione radicale, di avere perso le fila della questione. Io credo che ogni adulto sappia che nell’esistenza c’è poco di più pericoloso che confondersi. Si può sbagliare anche molto, ma se uno è adulto, un po’ alla volta, riesce a rattoppare le questioni – posso trattare male qualcuno cui voglio bene e poi faticosamente trovare il coraggio di chiedere scusa – ma se mi confondo, se non so più dove sto andando, qual è il mio desiderio, cosa voglio quando voglio bene, e cosa non voglio, è difficilissimo. E di questo si tratta. Qui Dio non dice, come in altri casi: “Il popolo ha sbagliato”. Qui dice proprio: “si è confuso, non sa più dove sta andando, cosa desidera”. Se volete, per richiamare un tema caro alla nostra riflessione comune, “ha perso l’orientamento al proprio desiderio”. Non hanno tardato ad allontanarsi dalla via. Mosè tarda a scendere, e il popolo non ha tardato a confondersi.

“Il Signore disse a Mosè: ‘Ho osservato questo popolo e ho visto che è un popolo dalla dura cervice. Ora lascia che la mia ira si accenda contro di loro e li distrugga. Di te invece farò una grande nazione”.

Dio crea una separazione, separa Mosè dal suo popolo, separa sé dalla relazione stabilita col popolo e si riserva Mosè. I rabbini hanno molto riflettuto sul fatto che il racconto della grande traversata del deserto finisce sulla soglia della terra promessa, e tutta la generazione che ha tradito Dio, Mosè compreso, muore avendo visto all’orizzonte la terra promessa, senza poterci entrare. Mosè, con l’operazione che fa qui, si gioca la solidarietà radicale con questo popolo e questo costerà anche a lui di stare dalla parte di tutti. Non accetta di fare l’oggetto di uno spostamento, che Dio prenda la promessa fatta al suo popolo e la sposti su di lui. Dice, no io sono con loro. Ed è un terzo tra Dio e il popolo, molto diverso da Aronne, che invece accetta di diventare l’oggetto dello spostamento.

La riconciliazione

Mosè supplica e dice: “Perché dovranno dire gli Egiziani: Con malizia li ha fatti uscire, per farli perire tra le montagne e farli sparire dalla terra?”. Ricatta Dio sull’incontro originale, sulla spesa che ha fatto di fiducia nei confronti del suo popolo e usa due verbi: desisti dall’ardore della tua ira; ricordati di Abramo. Questi due verbi sono la chiave dell’abitare correttamente, secondo la scrittura, il lato ombroso, la separazione. Desistere dalla propria ira…. Cioè, fare un passo indietro da sé; e ricordare. Come si abita una separazione, per esempio, per le mamme? Desistendo dalla propria ansia,   e ricordandosi il patto del cuore fatto con la vita generata e messa al mondo. Per tutti noi fare un passo indietro, desistendo da ciò che ci viene a galla di fronte allo spavento che la separazione e la distanza provocano, facendo un passo indietro e ricordando la logica profonda dell’incontro, la risata che ha generato l’incontro, la fioritura di vita, di fiducia che ha generato l’incontro. E Mosè dice a Dio stesso “Desisti, Ricordati” Gli offre una traccia di riconciliazione, di ritessitura della separazione che si è posta tra lui e il popolo; fa il terzo corretto, che è sempre un intercessore. 

Di fronte alla fatica dell’incontro con noi stessi, in questo secolo, molti si rivolgono a un terapeuta, che dovrebbe essere un terzo corretto, cioè uno che non ti consente di andartene per altre strade, ma ti consente una distanza e ti aiuta a desistere, a fare un passo indietro, e ricordare, e rimetterti in una relazione corretta nell’incontro tra te e te. Tra l’altro, in tutti gli incontri della nostra vita, noi siamo quelli che incontrano e sono incontrati, ma ci capita sovente anche di essere dei terzi, corretti o scorretti, Aronne o Mosè. Accogliamo con gioia il privilegio di essere oggetto di uno spostamento di qualcun altro, oppure diciamo: desisti e ricordati, giocandoci magari la possibilità di entrare nella terra promessa, cioè rimanendo solidali con l’incontro originario, che poi fa sì che Mosè paghi questa scelta. Nei testi evangelici vedremo Gesù che è il terzo corretto, tra noi e Dio; è colui che paga con  la croce il rimanere solidale con noi per non accettare uno spostamento, ma per consentire che l’incontro tra noi e Dio si ricostituisca.

Il Signore abbandonò il proposito di nuocere al suo popolo”.

Dio sta a questa proposta di Mosè; mette Mosè in relazione con il suo popolo, desiste dalla propria ira, ricorda l’incontro originario e rimette in moto un incontro che dovrebbe aver acquistato una capacità di separazione maggiore.

Concludo riprendendo la parola che dicevo all’inizio; misericordia. Io credo che prendere sul serio il lato ombroso delle cose ci renda misericordiosi. Non perché ci rende buoni, ma perché ci rende consapevoli, cioè ci fa sentire non più in diritto di… perché uno, se comincia a conoscere il lato ombroso, sa quante volte non desiste, sa quante volte dimentica, sa quanto è faticoso desistere da se stesso, e sa che non sempre ci riesce. Acquista così il cuore di chi sa di essere misero, dunque misericordioso, con molto spazio, perché sa che ci sono tanti motivi per cui abitare i lati d’ombra può essere complicato. E spera di incontrare dei Mosè. Spera di incontrare, laddove è troppo faticoso vivere la separazione, qualcuno capace di ricordargli che si può abitare nel cono d’ombra, e aspettare che la vita riporti la sua allegria senza doverla mettere in scena falsamente, e che la vita, prima o poi, riporterà la sua allegria.

Domanda – Si direbbe che Dio cade nello stesso tranello in cui cadiamo noi. Dall’idea che ci hanno trasmesso, che Dio è perfetto e ci chiede di fare o vorrebbe fare tutto bene, tutto buono…

Risposta – Il problema della scrittura non è la correttezza per questo all’inizio ho fatto quella lunga premessa, che tutto si fa bene e che tutto è preciso e senza sbavature, perché la vita è una faccenda sporca, e come dice sempre un mio amico divertente, la vita è una faccenda da cui non si esce vivi. Non c’è speranza; è una faccenda che ha un suo peso intrinseco. Quello che la scrittura ci dice è il paradigma sia di salute mentale, antropologico, sano e sia ben di più di ciò che Dio promette a noi, raccontato con parole umane, cioè ricordiamoci sempre che, con l’ispirazione dello Spirito Santo, ma sono gli agiografi che hanno scritto la scrittura e il paradigma di come funzionano le cose e di come funzionano se uno sta dentro una storia con Dio. Da questo punto di vista Dio è narrato come l’interlocutore principe nella scrittura, ma non un interlocutore astratto, – il concetto di perfezione platonica. Dio, nel racconto scritturistico, si arrabbia, le sue viscere si attorcigliano, cambia idea … E’ raccontato come uno che si interfaccia, almeno per la parte che ci riguarda, con noi con l’evoluzione storica di ciò che noi siamo. E’ come se qui si volesse dire che Dio consente a Mosè una chance, gli dice: anch’io pongo una separazione; il popolo l’ha posta, anch’io la pongo. Tu come la abiti? Come ha fatto il popolo o in un altro modo? Questo è ciò che intendevano i nostri nonni quando dicevano: Dio mette alla prova. Non nel senso che Dio sta lì a vedere se riesce a farci cadere, ma il racconto biblico costruisce la scena in cui l’uomo stesso può trovare la propria chance di una posizione corretta e l’ha costruita per il popolo facendolo attendere ai piedi del monte e il popolo ha toppato. L’ha costruita per Mosè e lui ce la fa e per questo il Signore desiste subito dalla sua ira. Se noi ci aspettiamo che il problema della scrittura sia la descrizione filosofico-platonica di come è Dio nelle sue perfezioni, dovremmo buttar via tutto l’Antico Testamento, quando Dio s’arrabbia… Certo, quello raccontato nell’Antico Testamento è un Dio tanto umano, ma perché è la storia della vicinanza e della distanza tra Dio e un popolo; non è un astratto trattato su Dio. La scrittura è sempre uno scenario interiore, non dice tanto di Dio, ma del nostro rapporto con lui. Su Dio in sé noi sappiamo ciò che Cristo ci ha mostrato, non di più, però la scrittura ci dice che ciò che Cristo ci ha mostrato è sufficiente per sapere come funziona la storia tra noi e Dio.

Domanda – Questa figura di Mosè che paga, da una parte è bella, perché si mette dalla parte del suo popolo, ma così, come l’ho vista ora rappresentata da te, mi sembra che paghi col non entrare nella terra promessa. Tu l’hai descritto come il terzo virtuoso, quello che non si è messo dalla parte di Dio.

Risposta – Certo, perché Mosè abita una distanza e non è un duro e puro, un corretto ad ogni costo, che grida allo scandalo: quelli si sono fatti un vitello d’oro…idolatri…Il problema non è la correttezza, non è aver le mani pulite… Ma Mosè cosa voleva? Entrare nella terra promessa o far parte del popolo di Dio? E questo, spesso, è anche il nostro problema. Ma cosa volevamo davvero, qual era il risultato che ci aspettavamo? Poi teoricamente tutti diciamo: mi basta una vita serena, un po’ di salute… Il realtà, poi, la questione è: ma cosa vogliamo davvero dalla nostra vita?. Mosè gioca sempre questo ruolo di intercessore, i padri infatti leggono Mosè come figura anticipazione, prototipo cristologico e quindi Mosè qui,  ma Cristo sulla croce, è uguale, ma Cristo sulla croce cosa voleva? La gioia della comunione trinitaria? Ce l’aveva già. Ma chi gliel’ha fatto fare di sbilanciarsi su un pezzo di vita che non gli apparteneva, che era la nostra, fino al punto di diventare, come dice Paolo, peccato per noi? Il problema è esattamente qui. Essere cristiani o non è proprio una scelta radicale di questo genere e molto concreta. Cosa volgiamo davvero? Il mio risultato o il nostro? Questa è una questione radicale per un cristiano, su cui al di là di tutte le chiacchiere fa la differenza, cioè uno si dice credente se il primato è al nostro risultato e non al mio. E uno si dice non credente, indipendentemente da quanto è pio e quanto va a messa, se organizza la sua vita in un modo in cui il primato è il mio risultato,  compreso il mio risultato di santità, di correttezza, di bontà, prima che non il nostro. Certo Mosè poteva essere più santo dicendo: hai ragione, fetenti idolatri, li disconosco, mi allontano un attimo, guarda cosa fanno, peccatori ignobili… Certo, questa poteva essere una strada, un modo, ancora una volta, di spostare, nella separazione, nel dolore che il tradimento degli altri ti procura, spostare mettendosi dalla parte di Dio e della correttezza. Invece di dire: ok, questi ho, sono così… e io sto con questi! Questo è l’incontro passato per l’uccisione dell’egiziano, per quelli che mi hanno detto, chi ti ha costituito capo?  per i quarant’anni nel deserto, aver fatto un figlio chiamato straniero, quell’ incontro lì, di separazioni e vicinanze, quello ho e quello mi tengo.  E dunque, sì, sono fetenti, ma tu desisti e ricordati! Io credo che noi spesso pensiamo che essere cristiani o non cristiani sia un problema di essere religiosi o non religiosi. Il mondo è pieno di religioni antiche e moderne, e il cristianesimo sarebbe una delle tante se il problema fosse essere religiosi, ma il cristianesimo è una questione molto seria in quanto a identità rispetto a come uno organizza la sua vita e non in termini morali, ma rispetto a quei quattro o cinque capisaldi che fanno di te una persona diversa da un’altra. Rispetto a quelle 4 o 5 questioni grosse non teoriche per cui tu dici: con questa persona non ci capiamo proprio perché parte da un presupposto di quelli impliciti, che non si dicono mai, per cui per esempio per lei è importantissimo ciò che gli altri pensano di lei o la sua carriera. Io non sono così, per cui a un certo punto non ti capisci più. Capisaldi di questo genere sono pochi, vincolanti, rispetto all’essere cristiani. Uno di questi è: la questione non è la correttezza. Il problema del cristiano non è avere le mani pulite, mettersi dalla parte della ragione. Perchè se no saremmo discepoli fallimentari di un maestro che, essendo l’unico giusto, si è preso le colpe di tutti, dunque l’operazione più scorretta e meno giusta che si poteva fare.

Domanda – Aronne fa una figuraccia, è diverso da Mosè che invece si è prestato, è rimasto invischiato in questa operazione di spostamento.

Risposta – Proprio perché il problema non è la correttezza, Aronne è il capostipite di tutto il sacerdozio ebraico. Confondersi è grave, rimanere confusi, ostinarsi nella confusione è gravissimo. Quando Mosè scenderà e farà la scena madre che è descritta subito dopo, spacca le tavole della legge; Mosè intercede con Dio, ma questo non significa che va tutto bene, fa una sceneggiata clamorosa, perché di fronte alla confusione, a un popolo che si è pervertito, Aronne compreso, deve fargli capire che si è confuso. Fa la sceneggiata e poi dice, vi siete chiariti le idee? E ripiglia le fila della questione. Anche in questo è un terzo virtuoso; lo è rispetto a Dio e lo è rispetto al popolo; e regge entrambi i conflitti. Regge Dio arrabbiato, così come regge il popolo arrabbiato, perché fare il terzo virtuoso significa anche questo, che alla fine si arrabbiano tutti con te. Poi il popolo e Aronne riprenderanno faticosamente. E ricomincia la storia.

Fossano, 10 novembre 2007

(testo non rivisto dall’autore)

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