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12 Gennaio 2008
Stella Morra

4. Soluzioni per i problemi?

Commento a: Gv 2, 1-12


Premessa

Stiamo riflettendo sugli incontri ed in particolare sull’incontro che è la fede – siamo abituati a dire che la fede è l’incontro con il Signore Gesù; oggi incontriamo un brano molto conosciuto che dà una svolta al nostro percorso. Nei primi due testi abbiamo visto una descrizione di come funzionano gli incontri per gli umani; l’altra volta ci siamo fermati sul testo di Giovanni che ci presenta il paralitico alla piscina, il quale non faceva mai in tempo ad immergersi per primo quando arrivava l’angelo a muovere le acque; abbiamo riflettuto su questa vita paralizzata che cerca un incontro al di là delle possibilità; cerca, nella cultura tipica del tempo, un incontro magico, quello di una guarigione magica che viene dall’acqua agitata dall’angelo, e in realtà troverà un incontro di guarigione che non ha la forma della magia.

Oggi ci fermiamo sui primi versetti del capitolo due del vangelo di Giovanni, le nozze di Cana. E’ uno incontro strano, non tra due persone, Gesù ed un altro, ma è una ‘situazione’, un tipo di incontro plurale, dove ci sono molti ruoli, molti personaggi: Gesù, sua madre, i servi, il maggiordomo, lo sposo, la sposa… Mi sembrava importante inserire questo racconto nel nostro percorso, sia per il testo stesso, ma anche perché, quando noi pensiamo un incontro, rischiamo sempre di pensarlo in termini molto personali a causa della cultura in cui viviamo, in cui tutto è molto individuale; la storia dei nostri incontri è sempre un faccia a faccia, mentre di per sé la gran parte della nostra vita è costituita da incontri plurali, da ‘situazioni’, in cui ci sono diversi ruoli, diversi livelli di rapporti: con alcuni sono alla pari, altri sono più importanti di me, altri più deboli, e c’è un intreccio di incontri. Dall’altra parte, quando noi diciamo: io incontro te, è come se presupponessimo che ‘io’ è un concetto chiaro, univoco, unitario e ‘te’ è un concetto chiaro, univoco, unitario. Invece, anche a livello individuale, noi siamo una pluralità; dentro di noi c’è un po’ di questo Gesù che va mal volentieri alle feste di nozze, c’è un po’ di sua madre, un po’ dei servi, un po’ dello sposo, della sposa… ognuno di noi è già plurale!

Noi tendiamo a rendere tutto individuale, anche ciò che è collettivo; in realtà la scrittura sa bene che tutto è plurale, anche ciò che apparentemente è singolo. Dal punto di vista culturale siamo proprio ai capi opposti: la scrittura parla sempre di popolo. L’interlocutore di Dio, anche quando è una persona sola, è sempre il popolo perché, per la scrittura, la pluralità è un dato, non solo, ma anche interno. Dio non salva uno, salva un popolo; nessuno si salva da solo; nessuno si basta da solo; nessuno può essere contento da solo. E anche qui, non ci vuole molto per saperlo, basta aver compiuto quindici anni: ognuno di noi sa bene che non basta mai a se stesso, nei mille modi che la vita ti pone. Quindi, siamo proprio agli opposti: quando noi interpretiamo anche il collettivo ci scappa sempre qualcosa di individuale; la Bibbia, anche quando parla della coscienza di qualcuno, la pensa plurale, abitata dai molti altri che l’attraversano e dalle molte facce di me che coabitano.

Per questo motivo, oltre che per il contenuto che vedremo adesso, mi piaceva mettere nell’elenco degli incontri una festa, un luogo plurale, una situazione in cui ci sono molti personaggi e ognuno gioca una parte. Vi prego di pensarla su due piani; tutte le cose che dirò sia sul piano della realtà – ci sono io e gli altri, e solo nell’insieme viene fuori un incontro – ma anche sul piano dell’interiorità: dentro di me chi è Maria, qual è la parte di me che è la madre di Gesù, quale il servo…. Ogni cosa che dico vale sempre sui due piani.

Il testo è molto conosciuto, ma vi prego di ascoltarlo come se fosse la prima volta perché è uno di quei testi di cui si sa tutto, si sa già come va a finire, non lo sentiamo più e ci perdiamo i motivi fondamentali per cui Giovanni l’ha messo lì.

Gesù si manifesta

Richiamo un’idea fondamentale più volte ripetuta commentando testi dell’Apocalisse, che vale per tutti i testi di Giovanni. Se Giovanni fosse nato oggi avrebbe fatto video clip, cioè è un regista di immagini e non di parole. I testi di Giovanni vanno quasi sempre immaginati visivamente, perché la sua preoccupazione è di costruire una scena, piuttosto che di mettere contenuti intellettuali in ogni parola. Ho spiegato qualche volta testi dell’Apocalisse e faccio sempre esempi banali ma, spero, chiari. Quando noi in un film, in un certo momento, sentiamo una porta che si apre scricchiolando con il noto rumore, la musica che sale in crescendo con toni sempre più cupi e le luci che diventano sempre più scure, ci aspettiamo l’assassino. Non ci chiediamo cosa vuol dire lo scricchiolio della porta; è una domanda inutile, perché l’effetto dell’insieme dei segni, crea in noi l’attesa che sta per succedere qualcosa di tremendo. Giovanni scrive in questo modo. Chiedersi cosa vuol dire ogni simbolo è, nel caso dell’Apocalisse, da pazzi, perché ogni due righe c’è un simbolo; nel caso del vangelo, chiedersi troppo intellettualisticamente una spiegazione, non aiuta, perché Giovanni lavora d’immagini, crea un’atmosfera. Per questo bisogna leggerlo con gli occhi di chi si chiede qual è l’atmosfera.

Questo testo si capisce molto meglio, per noi oggi, dal suo uso liturgico: viene proposto nella prima domenica del tempo ordinario – nell’anno in cui si legge il vangelo di Luca. La domenica precedente, cioè l’ultima domenica del tempo di Natale, leggiamo il battesimo di Gesù, una ‘epifania’, Gesù che si mostra e il Padre che dice “Questi è il Figlio mio, l’amato”. Abbiamo tre epifanie di fila: l’epifania, quella dei Magi; la domenica dopo, il Battesimo di Gesù e si chiude il ciclo di Natale: Dio ha mostrato tutto quello che doveva mostrare; poi comincia il tempo ordinario con un segno per gli uomini: il segno di Cana di Galilea. E’ di nuovo un’epifania: Gesù si mostra, è il primo segno. Lui, che fino a quel momento ha avuto una vita nascosta, fa intravedere qualcosa. Questo testo quindi non ci dice né dello sposalizio, né delle virtù da Harry Potter di Gesù, che fanno risparmiare un sacco di soldi agli sposi che erano stati un po’ tirchi e avevano comprato poco vino… Cioè, la questione non è un miracolo come segno magico. Qui si tratta veramente di un segno, di qualcosa che Gesù fa per cominciare a mostrarsi, per dire in che direzione sta andando. E’ la prima confidenza che Gesù fa nel suo rapporto con gli uomini. Come la prima volta in cui uno passa due ore a raccontare delle cose profonde ad un amico che ha conosciuto da poco, e si rende conto che quel momento rappresenta un passo avanti nel rapporto di amicizia e condivide con quella persona un senso profondo e sa che questa è anche una compromissione e che non potrà più fare un passo indietro. Quando si dice ‘vita pubblica di Gesù’, si dice questo: Gesù si compromette e non può più fare un passo indietro senza un dramma.

La liturgia in quella prima domenica del tempo ordinario abbina a questo brano, come prima lettura, il testo di Isaia 62 che dice: “…tu sarai chiamata Mio compiacimento e la tua terra, Sposata, perché il Signore si compiacerà di te e la tua terra avrà uno sposo. Sì, come un giovane sposa una vergine, così ti sposerà il tuo architetto; come gioisce lo sposo per la sposa, così il tuo Dio gioirà per te”. Questo vuol dire: non si sta parlando di un matrimonio. Tutti quelli che usano questo testo sulla famiglia, lo storpiano, perché qui si sta parlando delle nozze tra Dio e il suo popolo.

Nel testo di Giovanni lo sposo non c’è, se non per prendersi dei complimenti di cui non capisce il senso; la sposa non esiste; dei loro amici non si sa nulla; di questo sposalizio si dice che c’era la madre di Gesù, e dunque, esattamente come succede ai tempi nostri, hanno dovuto invitare anche il figlio, che si è tirato dietro i suoi discepoli. Ma non si dice nulla del loro rapporto di amicizia … lo sposalizio non c’è; il racconto di Giovanni non ce lo fa proprio vedere. La questione non è la magia dell’acqua tramutata in vino, ma la simbologia, il farci entrare nella logica della prima domenica del tempo ordinario. Giovanni ci dice la prima cosa che Gesù fa all’inizio del ministero pubblico; ci stimola a chiederci: cosa vuole fare?. Che cosa ci sta confidando? Ci sta confidando che siamo chiamati a delle nozze con Dio. E che la faccenda è seria; è una festa, ma è seria.

Il legame tra Dio e il suo popolo è imperfetto

In questo racconto lo sposalizio è stranissimo. “Vi erano là sei giare di pietra per la purificazione dei Giudei, contenenti ciascuna due o tre barili”.

Nelle case private non c’erano le giare per la purificazione, che stavano al tempio, o al massimo nelle sinagoghe. Cosa ci facciano lì?!? Per di più, ‘ciascuna due o tre barili’; secondo i calcoli degli esperti, sulle misure dell’epoca, vuol dire che ogni giara conteneva cento litri d’acqua. Cosa se ne facevano di seicento litri d’acqua, peraltro molto più difficile da reperire del vino, in una situazione desertica? E poi ‘sei’ giare. Giovanni ha la mania dei numeri, è quello famoso dei tre giorni che Gesù passa negli inferi prima della risurrezione – tre sono il simbolo dei tre giorni del profeta Daniele – ma poi i conti non tornano. Gesù muore il venerdì pomeriggio, risorge il sabato notte, passa un giorno e mezzo. Quindi i conti non tornano mai. Non è casuale che Giovanni dica sei. Sei è uno meno di sette – sottolineatura banale! -; il numero della perfezione, della pienezza dei tempi è sette; sette i giorni della creazione; sette vuol dire tutto; settanta volte sette si deve perdonare; sette settimane dura nella liturgia il tempo pasquale; la risurrezione copre sette volte la pienezza della creazione. La creazione dura una settimana, il tempo pasquale sette settimane. Sette è il numero della totalità riferito alla storia. Quando uno deve dire ‘tutto’ dice sette e qui sono sei. Tutto meno qualcosa.

Con queste sei giare di pietra piene d’acqua per la purificazione, Giovanni ci dà l’immagine che questo matrimonio è impietrito e imperfetto; questo legame tra Dio e il suo popolo è di pietra, di acqua, non sa di niente, è fermo e incompleto, ne manca un pezzo, è un matrimonio un po’ stanco, logorato. Gesù trasformerà l’acqua in vino, cambierà questo matrimonio tra Dio e il suo popolo in ciò che inebria, in una passione –come diremmo noi oggi in linguaggio moderno – trasformerà il tran tran routinario di un matrimonio un po’ logorato in una passione travolgente che inebria come il vino, e un vino buono.

Giovanni ci sta cacciando a forza in un clima. Le giare per la purificazione sono l’ossessione della legge per la purezza rituale. L’importante è avere le mani lavate fino al gomito, non aver toccato cadaveri, non aver mangiato cibo impuro e Giovanni è quello che fa fare i miracoli a Gesù di sabato – ricordate la lectio della volta scorsa, in cui il problema non è come ha fatto Gesù a guarire il paralitico, ma come si è permesso di guarirlo di sabato!

Questo sposalizio è strano, lo sposo e la sposa non si vedono, non ci sono; è talmente stantio che non hanno un volto. Sono una funzione. “…chiamò lo sposo…” …che non ha un nome. Dall’altra parte avremo un orizzonte completamente diverso. Nell’Apocalisse Giovanni mette in conclusione “sono giunte le nozze dell’Agnello, la sua sposa è pronta” (Ap. 19) Giovanni ha molto chiara l’idea, che le nozze dell’Agnello sono la nuova storia, una nuova casa, una nuova vita.

“Fu invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli”.

Gesù al tempio, al capitolo cinque che abbiamo letto l’altra volta, ci va di sua volontà, è un diritto per un israelita; alla piscina di Betzaetà ci va perché decide di passare di lì; al capitolo quattro si parla dell’incontro di Gesù con la Samaritana e si dice “doveva passare di lì”, Gesù è condotto da una volontà, da una decisione sua, del Padre. Qui è invitato, e da come risponde a sua madre, si direbbe che ci è andato un po’ di malavoglia.

Questo versetto ha lo stesso suono del viandante silenzioso di Emmaus. I due di Emmaus che stanno scappando, sono confusi, fanno comunque una domanda, invitano Gesù al dialogo dicendogli: “…solo tu sei così straniero…?”. Basta aprire uno spiraglio e Dio entra; ma lo spiraglio bisogna aprirlo, bisogna invitarlo alle nozze, magari controvoglia! E non è importante il motivo, avere capito cosa si sta facendo, però, certo, se uno sta completamente installato nella propria vita, totalmente, solidamente equilibrato, convinto di possedere in se stesso la chiave di tutto e di non dover invitare mai nessuno a una festa, non succede niente.

E’ l’amore che salva

Questo versetto “Fu invitato alle nozze anche Gesù…” è la chiave di tutto quello che succederà. Se non l’avessero invitato non avrebbero bevuto vino. Non hanno neppure saputo che proveniva da Gesù, l’hanno saputo solo i servi. Questi non hanno capito perché lo avevano invitato, non hanno saputo da dove proveniva il vino, ma si sono goduti una bella sbronza! Anche qui, contro il mito della nostra teoria sulla fede che è, per il novantacinque per cento, consapevolezza: uno deve capire, sapere, scegliere, impegnarsi… Certo, ognuno di noi ha bisogno di sapere perché fa le cose, ma perché siamo umani, non per questioni di fede. Ognuno di noi normalmente è abituato a cercare di capire cosa sta facendo, ma in genere i motivi che si dà sono per buona parte tendenzialmente fasulli, cioè sono quelli che ti sembrano veri in quel momento; se ci pensi cinque anni dopo, ti rendi conto che certo, quelle cose erano parzialmente vere, ma c’era molto altro che si stava muovendo e che ti ha spinto rispetto ad alcune questioni; e tutti noi, che siamo adulti, sappiamo bene che la consapevolezza non salva. Essere consapevoli, certe volte, è solo la grande soddisfazione di poter dare un nome a quanto male si sta, e basta! E’ l’amore che salva, è il tocco di un altro, è una voce che mi chiama fuori, è la mia capacità di buttare il cuore oltre l’ostacolo, la mia capacità di fidarmi della vita che mi abita e di continuare a crederci anche quando non avrei nessun motivo per crederci, è la mia capacità di farmi coraggio. Questo salva, non la consapevolezza, non salva neppure nella vita quotidiana, ci tiene in piedi.

Bisogna però in qualche modo invitare Gesù alle nozze. Secondo l’antico criterio che usa la comunità ebraica romana: c’è una leggenda secondo la quale il Messia riapparirà sotto ponte Margherita, in forma di mendicante. Per questo la comunità ebraica romana, che fa sempre molta carità, si occupa molto dei barboni che abitano sotto ponte Margherita, che, quindi, è molto abitato. Nel dubbio, non sapendo se uno di quelli è il Messia, intensificano lì le proprie attenzioni. Poiché forse non saremo consapevoli che stiamo invitando Gesù, ci tocca invitare un sacco di gente! Sperando che fra tutti ad un certo punto ci sia Gesù! Per questo Gesù dice: i poveri sono sempre con voi, perché se uno si prende cura dei più poveri, dei più deboli, ad un certo punto, con loro, Gesù viene e finiamo per invitarlo, anche senza saperlo o capirlo.

“Nel frattempo, venuto a mancare il vino,…” Per una festa è un guaio. C’è una situazione di forza. Qui non ci sono paralitici, ciechi, su cui Gesù compie dei miracoli, c’è una situazione di pienezza di vita: c’è una festa, è un matrimonio che dovrebbe preludere a un futuro, ci sono delle persone che sono in grado di invitare altri, ma questo matrimonio, come le sei giare, manca di qualcosa: una giara, il vino. Giovanni è molto chiaro, usa un modo negativo per dire ciò che spesso abbiamo detto in positivo: il meglio deve ancora venire. Cioè, l’unica illusione non accettabile è quella di pensare che tutto è nelle nostre mani. Che tutto di me, della vita, di ciò che può succedere, di ciò che posso scegliere, sta dalla mia parte. La buona notizia cristiana è: ti manca sempre un pezzo, detto in negativo, o, detto in positivo: c’è un’eccedenza di te, anche nel momento della pienezza della tua forza, nella festa delle decisioni della tua vita. Non solo quando sei paralitico, cieco, storpio, ma anche quando sei in un momento di festa, tu non sei tutto lì, c’è ancora un pezzo, manca qualcosa, c’è un vino buono che non è a tua disposizione, sta nelle mani di un altro. Per questo il messaggio fondamentale del cristianesimo è un messaggio di amore e di misericordia, non per motivi morali, ma perché, se io non sono tutto lì, c’è qualcun altro che ha in mano il pezzo migliore di me. E dunque vado in cerca del pezzo migliore di me presso i poveri, presso gli altri, presso Dio. Ci manca sempre un pezzo, non come insufficienza, ma come la sovrabbondanza di un’eccedenza che sta altrove. Abbiamo spesso detto che l’esperienza della fede è vivere appoggiati sul pezzo che non sta nelle nostre mani, su quest’eccedenza che è la parte migliore di noi. Veramente, il meglio deve ancora venire, e fino all’ultimo giorno della nostra vita.

 

Il discepolato …

Viene a mancare il vino e c’è questa scenetta famosa e molto commentata: “…la madre di Gesù gli disse: ‘Non hanno più vino’. E Gesù rispose: ‘Che ho da fare con te, o donna? Non è ancora giunta la mia ora’. La madre dice ai servi: ‘Fate quello che vi dirà”.

A parte l’ovvia considerazione, molto antropologica, che le madri sono state istituite per non ascoltare, per cui di fronte alla reticenza di Gesù, va avanti sulla sua idea, molto spesso questo testo è commentato nella luce della mediazione mariana. Io trovo che sia troppo poco, se ciò che Giovanni ci sta dicendo è lo sposalizio di Dio col suo popolo! Solo in una lettura molto individualista, Maria è così centrale, e Gesù è un po’ maleducato: prima la chiama madre, poi donna, con un po’ di disprezzo maschilista. Mi pare che qui la dinamica sia più fondamentale, anche perché Giovanni non spreca tempo a dirci una cosa così, tanto per dire.

Tra l’altro vi faccio notare che, dopo tutti i racconti della nascita di Gesù, l’ultima apparizione di Maria è qui, in questo testo, e riapparirà sotto la croce: non casuale. E’ come se questo testo segnasse la fine dell’adolescenza di Gesù: Gesù si emancipa. E Maria accetta l’emancipazione di Gesù, che non è così scontato. In questo matrimonio, in questa famiglia, in questa maternità e figliolanza, che non è solo quella biologica, c’è veramente l’esperienza del discepolo che deve lasciar andare.

Faccio un esempio terra terra: tutti noi, o almeno molti, ci siamo innamorati della fede nell’età giovane, quando abbiamo vissuto esperienze di gruppi, di campi – giovane non vuol dire necessariamente giovane di età, ma nei tempi della vita in cui uno era tutto proiettato e ha fatto gruppi, campi scuola, è stato preso da un giro che gli ha dato un gusto forte della propria esistenza – poi è arrivata la vita, e molti di noi pensano con nostalgia a quei tempi. Rimaniamo legati al cordone ombelicale di un’esperienza che ci è stata madre e ci ha generati tra coccole e nutrimento come fanno le madri, giustamente, le madri buone, quelle che coccolano e nutrono, poi è arrivata la vita e ha dato un taglio al cordone ombelicale e noi non lasciamo andare, e ci pare che l’unico modo di essere veramente cristiani sia di stare sempre in parrocchia, ai campi scuola, e cerchiamo di trovarne una versione compatibile con l’adultità, diventiamo cristiani impegnati, devoti, pii e ‘critichiamo’ tutti quelli che non fanno così, accusandoli di non essere altrettanto pii. Invece non è così, bisogna che la nostra esperienza di discepolato, che si è sentita madre di quell’incontro col Cristo, che l’ha coccolato e nutrito, diventi l’esperienza di una donna, rientri nella folla, non si senta privilegiata, lasci che la forza che ci ha generati, vada, che non abbiamo bisogno sempre di una parrocchia, di un gruppo, di un’identificazione, di un’emozione, che sappiamo stare in piedi sulle nostre gambe.

Questa figura di Maria ci dice esattamente questo: Maria deve lasciar andare; e la reticenza di Gesù è la condizione perché questo desiderio prenda la sua pienezza, la sua sovrabbondanza, prenda la sua forma giusta.

…fidarsi di una parola

L’altra figura fondamentale, insieme a Maria, è quella dei servi. Il dialogo tra Maria e i servi. E i servi fedeli sono questi che non dicono niente, fanno, prendono le giare vecchie, non le buttano via; prendono l’acqua vecchia, la portano al maggiordomo… I servi sono la nostra vita quotidiana, sono rimanere là dove si è, fare ciò che ci compete, come dice sant’Ignazio. La questione della vita adulta cristiana è fare ciò che ci compete, dice sant’Ignazio. E’ esattamente questa figura: i servi fedeli tengono il posto necessario per il miracolo del vino. Maria lascia andare, e la reticenza di Gesù fa crescere il desiderio che Maria ha di dominare, di continuare a generare, lo purifica e lo sposta sull’azione dei servi, che è l’azione di fidarsi di una parola senza motivo, senza spiegazione, senza logica.

I sevi eseguono. E c’è quella piccola parentesi: “… il maestro di tavola, che non sapeva di dove venisse (“ma lo sapevano i servi che avevano attinto l’acqua)…”, fa i complimenti allo sposo. In questa parentesi per Giovanni c’è il segreto del discepolato. I discepoli fanno ciò che fanno tutti: tengono il loro posto, fanno ciò che compete loro, capiscono, non capiscono, ma ‘sanno’. Ciò che li differenzia è che sanno, non credono, ma sanno, è diverso. Hanno visto come Dio agisce. Non si dice che lo sapevano e vanno dal maggiordomo a chiarire la situazione. Non è che sapere autorizzi a rompere le scatole, a spiegare a tutti. I discepoli sanno, dunque possono continuare a tenere il loro posto, perché il loro sapere dà loro la forza necessaria per continuare a tenere il loro posto, a fare ciò che compete loro. Per questo si dirà nel vangelo: siete servi inutili. Non è discredito, non vuol dire la falsa umiltà del dire non siamo capaci di far niente, non serviamo a nulla, vuol dire che noi teniamo il nostro posto e che ci fa discepoli il fatto di sapere che Dio regge questa storia.

La conclusione di tutto il racconto è: “Così Gesù diede inizio ai suoi miracoli in Cana di Galilea, manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui”.

In greco c’è una strana costruzione di moto, che non si usa abitualmente, come se Giovanni volesse dire che i discepoli si slanciano, si sporgono su questo nuovo che viene mostrato, su questa eccedenza, su queste antiche nozze impietrite che possono diventare una nuova passione inebriante. E’ chiaro che la costruzione, anche rispetto alla mediazione di Maria, è molto interessante. Giovanni ha in mente tre questioni: c’è Cana, dove si parla di vino, dove c’è lo sbilanciamento sul nuovo; poi Maria sarà di nuovo ai piedi della croce, dopo l’ultima cena, dove si è parlato di nuovo di vino, un altro banchetto; e poi ci sarà la donna dell’Apocalisse, che abbiamo già commentato insieme, che partorisce tra i dolori. Qui Maria è la figura del discepolato, all’inizio dell’annuncio del regno, di un matrimonio nuovo tra il popolo e Dio qui sta dalla parte dei servi, rientra nella folla, ‘una donna’, non deve cercare particolarità, deve tenere il proprio posto, non ha niente di speciale, sa, conserva le cose nel suo cuore – ci dice Luca- è la stessa logia; sotto la croce le viene restituita la sua maternità, peccato che non riguarda più Gesù! “Donna, ecco tuo figlio. Figlio, ecco tua madre”. Non solo bisogna tagliare il cordone ombelicale e tornare a tenere il proprio posto, ma, -secondo passo, quello tosto – bisogna assumere un’altra maternità. E poi, terzo, che secondo logica dovrebbe essere il primo, bisogna di nuovo partorire. Il capitolo dopo, il capitolo tre di Giovanni, è la discussione tra Gesù e Nicodemo: “Come può un uomo rinascere quando è vecchio”? E Giovanni ce lo ridirà con la figura della donna che partorisce in cielo. Bisogna di nuovo partorire, non solo accettare una maternità altra, ma ripassare le doglie del travaglio, cioè accettare che questa maternità non è a buon mercato, anzi, è minacciata dal drago, bisogna ripartorire se stessi, dicevamo commentando Apocalisse.

Relazione con Dio

Questa figura di Maria è bellissima perché è noi, è la nostra storia di una relazione con Dio. Nessuno si è avvicinato all’esperienza cristiana se non perché ha avuto una gioia, una gratificazione, una piccola festa iniziale, perché è stato accudito, nutrito, generato, perché aveva quindici anni, perché si sentiva solo, non sapeva di sé e della sua vita… per i mille motivi per cui ognuno di noi ha cominciato a bazzicare i mondi delle parrocchie, delle chiese, dei campi scuola… Ma poi, ad un certo punto, veniamo espropriati di questo cordone ombelicale, che pure è fondamentale, siamo spinti in una solitudine, nel ritornare nella folla, nell’essere di nuovo donna e non madre, come se nessuno si occupasse di noi, e dove ci viene chiesta la fedeltà dei servi. E questo ci prepara a reggere il momento del calvario, che prima o poi arriva per tutti, momento in cui bisogna imparare ad avere altri figli e altre madri, a non sapere solo più della propria vita, ma cominciare ad esercitare compassione anche sulla vita degli altri. E, alla fine, se siamo fedeli in tutto questo, riusciremo a partorire noi stessi, di nuovo, come ciò che viene proposto a Nicodemo.

Dunque, che strano incontro è queste nozze? E’ un incontro che nasce da una forza e non da un bisogno. Apparentemente nasce da una festa mancante, cioè l’esperienza della fede nasce nella nostra forza, ma la nostra forza da sola, quando si esercita nella fede, scopre che non basta. Ci viene chiesto di esserci, di scegliere, di dire sono qui, sono in piedi, non cerco per bisogno, la mia vita è bella, ma contemporaneamente il primo atto di fede che facciamo è scoprire che abbiamo solo sei giare e non sette e che non abbiamo vino abbastanza per gli invitati. In questo Gesù è reticente, è ‘antipatico’; come fa sempre negli incontri, pone un’esigenza che non è mai di ordine morale. L’esperienza dell’incontro di una fede nasce da una forza, e questa forza viene misurata da un’esigenza di tenere il proprio posto, si è rimandati alla propria vita, a fare i servi. Solo ripassando di lì possiamo imparare – “i suoi discepoli credettero in lui” è la conclusione del brano – a credere in lui, a sbilanciarci su quella parte di noi che non è nelle nostre mani. Bisogna essere espropriati per poterlo fare. Questo è l’incontro con l’esperienza di fede: la fede è una festa di nozze in cui un matrimonio impietrito, come le giare, diventa vino che inebria.

Fossano, 12 gennaio 2008

(testo non rivisto dal relatore)

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