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12 Aprile 2008
Stella Morra

7. Cosa fare?

Commento a: At 1, 1-11


Premessa

Ultimo testo su questo percorso – richiamo il titolo iniziale “Solo un Dio ci può salvare: la vita, la fede, l’incontro” – che abbiamo cercato di fare nello scoprire una specie di logica degli incontri in generale, e degli incontri di Gesù, il Cristo, in modo particolare, quasi a tentare di disegnare un contorno, seppure molto delicato, dell’esperienza della fede, cioè di questa esperienza profonda che rende solida la possibilità di tentare più o meno di essere credenti, che è l’esperienza dell’incontro con il Signore. Una delle cose che vorrei dire alla fine del percorso – e io sarei molto felice se così fosse andata – è smontare l’idea che l’esperienza dell’incontro con il Signore sia una specie di vaga esperienza sentimentale interiore – io incontro il Signore – come se fosse un dato impalpabile che ognuno fa nel  chiuso del suo cuore. Mi piacerebbe che questi testi, invece, ci avessero aiutati a ricostruire degli elementi che non sono mai oggettivi, nel senso di materiali, scientifici, e non sono mai nemmeno solo interiori, vaghi, poetici o sentimentali, ma sono degli eventi della vita che in qualche modo costruiscono quella che noi normalmente chiamiamo ‘l’esperienza del Signore’. Se vi capiterà, o avrete voglia di rileggere o risentire il commento a questi testi e di ripercorrerli, potrebbe essere una buona chiave di lettura ‘a posteriori’, cioè veramente l’incontro con il Signore. Quando diciamo, l’esperienza credente si basa sull’aver incontrato il Signore Gesù, non facciamo un’affermazione né generica, né teorica, né sentimentale, psicologica, emotiva, ma, con una frase sintetica come fanno gli apostoli negli scritti evangelici, con un Kerigma, diciamo un pezzo dell’esperienza della vita. E non è vero, la menzogna che oggi  spesso si dice che …’la vita non si può racchiudere dentro le parole’. Sì, è vero che non la si può racchiudere totalmente, ma è altrettanto vero che si possono dire alcune cose. Lo sforzo del percorso di questi testi, facendoci guidare dal vangelo di Giovanni, che ha al suo centro questo tema dell’incontro, ci dovrebbe aver aiutato un po’ a definire un profilo che certo rimane tenue, non assoluto, non scientifico, ma va in questa direzione.

Qual è l’ultimo passo di questa faccenda? Per dirla con la chiave moralistica che capiamo tutti, ma che vorrei poi abbandonare immediatamente, come dice l’evangelo, vi riconosceranno dai frutti. Cioè l’ultimo passaggio è che, se un incontro accade, qualcosa si deve vedere! Qualcosa deve succedere in noi. Negli ultimi tre o quattro secoli si è pensato che se l’incontro con il Signore davvero accadeva, uno diventava più buono. Si faceva una lettura tendenzialmente di tipo moralistico. Noi, fortunatamente, non usiamo più questo criterio, o almeno, non ci soddisfa più; sarebbe come dire che se uno è innamorato, allora è felice. Sì, è vero, ma uno può avere dei guai ed essere molto triste anche se è innamorato, anche se l’amore che vive è vero. A quindici anni uno si ubriaca del proprio essere innamorato ma, da adulto, la vita c’è, sia che uno sia o meno innamorato. E ci sono le attese, le fatiche, i dolori… e uno può essere anche molto infelice e non per questo non essere veramente dentro un amore. Se uno incontra davvero il Signore, dovrebbe progressivamente assumere uno sguardo di misericordia su sé e sul mondo, soprattutto sui poveri; e dunque, alla lunga, si dovrebbe vedere che uno diventa un po’ più buono. Alla lunga, è un tirare le somme che si può fare solo alla fine della vita, non sui singoli comportamenti, e dunque che cosa dobbiamo cercare nello svolgersi della storia? Questa è la domanda. Il titolo che avevamo messo era banale, un po’ citazione di Lenin: Che fare? Cioè, se un incontro avviene, che cosa c’è da fare?

Negli ultimi quarant’anni abbiamo spesso detto no al moralismo, no all’efficientismo – solo al fare – è una questione di essere, di cambiamento interiore; no a questo, no a quello e alla fine abbiamo ridotto questo incontro ad una specie di sensazione soggettiva di intenzione interiore. Se io incontro il Signore, beh, io guardo le cose con altri occhi. Che cosa vuol dire? Io credo che questo è troppo poco; è giusto cautelarsi contro i rischi, cautelarsi contro il moralismo, contro l’efficientismo, pensare che, appunto, due più due faccia sempre quattro immediatamente: dopo aver incontrato il Signore divento più buono e tutti riconoscono che io sono più buono! No, non funziona così. Ma detti questi rischi, dobbiamo pur dire qualcosa, provare a dire che cosa si vede di ciò che, anche, facciamo; non solo che cosa sentiamo.

Da questo punto di vista ho scelto il testo iniziale del libro degli Atti, i primi undici versetti del capitolo uno, che è un testo apparentemente quasi tecnico, una specie di riassunto – dal punto di vista del genere letterario si chiama sommario – è un testo composito, varie volte rimaneggiato, in cui vari pezzi sono stati aggiunti, perché, secondo me, rispondendo esattamente alla domanda che fare, non è lineare. Cioè, quando gli evangelisti raccontano dell’esperienza stravolgente della risurrezione del Signore sono sotto l’impressione di questa esperienza che è stata data loro da altrove e dunque sgorga un’immagine letteraria che ha  una sua unitarietà, che è un quadro, perché, in qualche modo è come se io fossi stato messo di fronte a qualcosa che ho visto. Quando devono provarsi a dire che fare, bisogna pensarla, non tutte le idee ti vengono insieme, la scrivi, poi vedi che in un punto manca un pezzo, aggiungi… il testo è molto più faticoso, è meno costruito come un affresco.

Struttura del testo, domanda e risposta

Come al solito lo leggo. “Nel mio primo libro ho già trattato, o Teòfilo, di tutto quello che Gesù fece e insegnò dal principio fino al giorno in cui, dopo aver dato istruzione agli apostoli che si era scelto nello Spirito Santo, egli fu assunto in cielo”.  Probabilmente, se fosse dipeso da noi, qui sarebbe finito, perché noi abbiamo l’idea che, se devo raccontare, ti racconto ciò che è successo, e basta. Qui l’hanno detto: Gesù ha insegnato, ha dato istruzione, poi è asceso al cielo, fine. Il problema è che nessuno vive di descrizioni; la descrizione non ci nutre la vita, e giustamente, qui il testo prosegue.

“Egli si mostrò ad essi vivo, dopo la sua passione, con molte prove, apparendo loro per quaranta giorni e parlando del regno di Dio. Mentre si trovava a tavola con essi, ordinò loro di non allontanarsi da Gerusalemme, ma di attendere che si adempisse la promessa del Padre ‘quella, disse, che voi avete udito da me: Giovanni ha battezzato con acqua, voi invece sarete battezzati in Spirito Santo, fra non molti giorni”. Qui c’è una piccola seconda unità del testo descrizione degli eventi, di quegli eventi se ne piglia uno, che è la risurrezione e si fa una specie di zoom, si allarga e si racconta una scena molto particolare: Gesù seduto a tavola che dice una cosa in risposta ad una domanda precisa: attendere che la promessa del Padre si compia. Non è una domanda qualsiasi, ma è: quand’è che torneranno i conti? Sì, va bene, detto, insegnato, fatto, e adesso cosa succede? Che è la nostra domanda. E c’è una risposta specifica, data a tavola dal risorto. Questa è la scena.

Terza unità del testo: “Così  venutisi a trovare insieme gli domandarono. ‘Signore, è questo il tempo in cui ricostruirai il Regno di Israele?’ Ma Egli rispose: ‘Non spetta a voi conoscere i tempi e i momenti che il Padre ha riservato alla sua scelta, ma avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della terra”. Questa è la terza piccola unità del testo. Cioè: la domanda implicita viene esplicitata: è questo il tempo? E c’è ancora una risposta. Due unità su quattro sono dedicate alla nostra domanda: e adesso cosa succede? Che dobbiamo fare? Non solo ma, poiché i vangeli normalmente sono costruiti a prova di stupidi, caso mai non avessero capito, l’evangelista aggiunge la quarta unità che, senza discorsi ma di nuovo con un’azione, un racconto, ridice esattamente la stessa cosa. “Detto questo, fu elevato in alto sotto i loro occhi e una nube lo sottrasse al loro sguardo. E poiché essi stavano fissando il cielo mentre egli se ne andava, ecco due uomini in bianche vesti si presentarono a loro e dissero: ‘Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che è stato di tra voi assunto fino al cielo, tornerà un giorno allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo”.

Il riassunto, la domanda implicita, la domanda esplicita, il fatto: questa è un po’ la struttura del testo che, come costruzione, è abbastanza lineare. Commento un po’, poi provo a tirare le fila in fondo.

L’incontro non nasce mai dal nulla

“Nel mio primo libro ho già trattato, o Teofilo, …” Questo versetto è sempre citato tutte le volte che si parla di tradizione, di trasmissione della fede, perché è chiaro che questo libro presuppone, al di là della sua materialità, un dialogo che è iniziato e che continua; questo è il secondo libro; ce n’è uno prima, tradizionalmente è il vangelo di Luca, di cui questo è il seguito, la seconda parte; c’è questo Teofilo, di cui non sappiamo nulla, oltre al fatto che compare qui – non sappiamo perché Luca gli indirizza questa messaggio, non sappiamo se è un personaggio reale, o un nome scelto come simbolo  – questo nome vuol dire amante di Dio – come indicativo di tutti coloro che hanno un desiderio circa Dio, ma non è così importante, perchè ciò che questo versetto ci dice è: il dialogo circa l’esperienza della fede comincia sempre a metà. C’è sempre un prima, non comincia mai dall’inizio. Quando dialoghiamo tra di noi rispetto a questa esperienza, non possiamo mai dire, questa è pagina uno; è sempre il secondo libro, perché c’è sempre qualcosa, che è una premessa, qualcosa che abbiamo ricevuto, che non ci siamo dati da soli, che non abbiamo pensato noi, che non abbiamo inventato oggi. Tutte le volte che, pensando all’esperienza del vostro incontro con il Signore, vi viene in mente che siete i primi ad aver pensato quella cosa lì, o che avete capito qual è la soluzione, e nessuno l’aveva mai capita prima, che la storia comincia quel giorno, la Chiesa comincia quel giorno, la soluzione dei problemi comincia quel giorno…diffidate! C’è sempre qualcosa che non funziona, siamo sempre dei secondogeniti, non solo perché teologicamente il primogenito è uno solo, ma perché, storicamente, nella nostra esperienza di incontro, l’incontro non nasce mai dal nulla. Nessuno si dà la propria fede da sé. Questo incontro immediato, senza mediazione tra noi e il Signore, ha sempre alle spalle un incontro mediato. Che sia una nonna che ci ha insegnato a fare il segno della croce quando avevamo tre anni, un catechista che ci ha spiegato qualcosa per la prima comunione, un animatore, un vice parroco… qualsiasi di queste situazioni, compreso un amico a cui non importava niente delle cose di fede, che però si è posto con noi in un modo tale che ci ha fatto venire in mente che Dio esisteva e gli angeli pure, siamo sempre al secondo capitolo. Nessuno di noi scrive il primo capitolo. Questo è un primo, ma fondamentale criterio circa il che fare: la prima cosa da fare è non credere mai di essere al primo capitolo; non credere mai di essere l’origine, il punto di partenza, la pagina uno.

Spero di essere stata sufficientemente chiara, perché questo è proprio quello che ci viene dato come elemento di partenza. Quando Gesù ha fatto la sua parte, la prima cosa che spetta a noi è dire: c’era un primo libro e noi siamo il secondo – ribadisco, per motivi teologici, perché il primogenito è Gesù, perché questo innanzitutto è il modo per riconoscere che solo Dio è universale, solo Dio inizia, è creatore. Lo sto dicendo con le parole del catechismo, ma è una cosa molto concreta; e noi siamo sempre figli adottati, secondogeniti, creature parziali, un pezzo di….

Gesù ha fatto e insegnato

Che cosa Luca ci ha detto nel primo libro: “…ciò che Gesù fece e insegnò dal principio”. Anche qui la scelta di questa coppia di verbi non è da poco. Noi pensiamo sempre che il problema della fede sia ciò che Gesù ha insegnato. Al massimo, se siamo molto concreti, ciò che Gesù ci ha insegnato a fare – siamo noi che facciamo! Invece, ciò che Gesù fece e insegnò; è Gesù che fa! Questo è un tema fondamentale: ciò che noi crediamo non è una dottrina, un insegnamento morale, un fatto di valori o di principi, ma ciò che Gesù ha fatto e insegnato. Quando Luca deve fare dei riassunti nel corso del vangelo su ciò che Gesù ha fatto, dice: Gesù passò beneficando, guarendo, nutrendo.

“…fino al giorno in cui, dopo aver dato istruzioni agli apostoli che si era scelto nello Spirito Santo, egli fu assunto in cielo”. Le istruzioni si danno agli apostoli – Luca è uno degli evangelisti che fa distinzione tra gli apostoli e la folla. Gli apostoli sono i funzionari della ditta, devono fare delle cose, a loro vengono date le spiegazioni, devono far funzionare il tutto; la folla, nel novanta per cento dei casi, viene nutrita, alla folla si insegna, viene guarita, accolta, si raccolgono le sue esigenze. Negli ultimi due secoli noi abbiamo radicalmente identificato l’esperienza della fede non l’esperienza degli apostoli; per una serie di questioni culturali, abbiamo sovrapposto l’esperienza degli apostoli con l’esperienza dell’incontro con il Signore. Invece, in realtà, in ognuna delle nostre vite, ci sono tanti livelli di incontro con il Signore, ma il livello primario è quello della folla; innanzitutto noi siamo accolti, nutriti, perdonati, ci vengono insegnate delle cose e siamo rimandati alla nostra vita.

Questa prima unità disegna quasi il contenitore dell’esperienza della fede, mette i paletti fondamentali e anche il suo profilo di umiltà: siamo secondi, siamo una folla affamata, che ha bisogno di essere accolta, e siamo a bocca aperta come dei bambini di fronte a ciò che Gesù ha fatto e insegnato. Essenziale.

Vivo dopo la passione

Secondo momento del testo, zoom su questa faccenda. “Egli si mostrò ad essi vivo, dopo la sua passione, con molte prove, apparendo loro per quaranta giorni e parlando del regno di Dio”. Vivo dopo la sua passione: questo è l’elemento, noi lo chiameremmo, di frattura. Nella prima unità Gesù può essere un qualsiasi rabbi che insegna; già sul fare sposta un po’, è più che un rabbi, fa, o meglio, come dicono gli altri evangelisti, parla con autorità – che vuol dire: parla con la stessa parola creatrice di Dio che dice ‘sia la luce e la luce fu’;  una parola che fa, che rende reale ciò che dice, e non è già cosa da ogni maestro. Ma qui si introduce una frattura radicale detta con questo tono umile, ma bellissimo: “Egli si mostrò ad essi vivo dopo la sua passione”. La parola chiave è vivo! La questione è la vita. Qui è il superamento della morte, della morte in croce di Gesù, ma il correlativo di vivo in questa frase, non è morto, dopo la sua morte, ma dopo la sua passione. Si mostrò vivo dopo la sua passione. Luca ci sta dicendo che nessuno di noi può autonomamente risorgere dai morti, ma possiamo essere vivi dopo le nostre passioni. Quello che si vede nella storia è: sei capace di essere vivo dopo la tua passione, qualsiasi essa sia?

“…con molte prove… e parlando loro del regno di Dio”. Questo è, ancora una volta, un’aggiunta: non parla di sé, della sua morte o della sua risurrezione, ma del regno di Dio. Il tema è la questione, diremmo noi oggi in termini teologici, di una nuova creazione. Cioè Luca qui ci sta, in tutti i modi, orientando – lo dico con uno slogan – a non fare pensieri religiosi su Gesù; ci sta storcendo perché il ‘che fare’ corrisponda alla vita com’è, al mondo come dovrebbe essere secondo il regno di Dio. La questione non è un pensiero pio, devoto; non è che se uno ha incontrato il Signore, allora diventa molto religioso, ma se ha incontrato il Signore è vivo dopo le proprie passioni, o dentro le proprie passioni e si occupa del regno di Dio, non solo di sé.

In questa seconda unità c’è una piccola costruzione su tre elementi: un luogo, una promessa e un battesimo. “Mentre si trovava a tavola con essi, ordinò di non allontanarsi  da Gerusalemme, ma di attendere  che si adempisse la promessa del Padre ‘quella, disse, che avete udito da me: … sarete battezzati nello Spirito Santo…”. Questo piccolo disegno è la trasposizione nettissima dell’ultimo capitolo del vangelo di Luca, quello dei discepoli di Emmaus. C’è la tavola, la promessa del Padre – che è l’ascolto delle scritture nel testo di Emmaus – e c’è il battesimo nello Spirito Santo. Questo è il disegno della Chiesa, non nella sua forma istituzionale, ma la tavola dell’eucaristia;  siamo uniti dall’eucaristia; siamo uniti da una promessa – per questo non ce ne andiamo da Gerusalemme – e i discepoli torneranno di corsa a Gerusalemme  nella notte – e quella promessa è la promessa del battesimo nello Spirito Santo. Cioè – lo dico con termini tecnici – della trasformazione del nostro statuto ontologico, del diventare figli adottivi, o, se volete, di ritrovare nello spirito una libertà  rispetto alla nostra stessa vita che non sarebbe data dalle premesse della nostra vita – detto in termini esistenziali. E’ sempre lo stesso contenuto detto con registri diversi. Cosa vuol dire battesimo nello Spirito Santo? Non è mica semplicemente il dato giuridico dell’essere battezzati! Certo, quello è il luogo liturgico dove noi celebriamo quella cosa lì. Ma qual è il mistero che celebriamo? Che nella morte e risurrezione del Signore noi sperimentiamo una libertà rispetto alla nostra stessa vita, che ci consegna una eccedenza – ne abbiamo parlato più volte. Cioè, poiché siamo battezzati, noi mettiamo il desiderio della nostra stessa vita, o della vita del piccolo che affidiamo a Dio, il desiderio di una vita piena, di una vita amata, sana, felice, di una vita che compie le aspettative, lo mettiamo nelle mani di Colui che è il solo che può compiere quella aspettativa. Nel battesimo noi ci appoggiamo su quel pezzo della nostra vita che non è in nostro potere gestire, perché siamo convinti che quel pezzo sta in mano a Dio e, dunque, sarà un pezzo benedetto. Più volte, scherzando, abbiamo detto: il sacramento è: il meglio deve ancora venire. E riguardo al battesimo è: il meglio deve ancora venire, sulla totalità della nostra vita. Per questo il segno del nome, il segno dell’acqua – nell’eucaristia, il cibo; nel battesimo è proprio la totalità, ci danno un nome, ci dicono chi siamo. Questa seconda unità ci dice: attenzione, la prima faccenda è un’eccedenza. La prima cosa da fare è costruire la propria vita su un’eccedenza, che è l’eccedenza della Chiesa, sul pezzo che non governo, che ricevo.

Forza … per essere testimoni

Terza unità: “Venutisi a trovare insieme gli domandarono: ‘Signore, è questo il tempo in cui ricostruirai il regno di Israele?’ Ma egli rispose: ‘Non spetta a voi conoscere i tempi e i momenti, … ma avrete forza … mi sarete testimoni fino agli estremi confini della terra…”. Anche qui gli elementi che tornano sono enormi; la domanda è: allora, ci siamo? Risolviamo? Il nostro problema, rispetto a qualsiasi realtà, è sempre una soluzione, una risposta! E’ questo il tempo? Siamo arrivati? E la risposta di Gesù è: “Non spetta a voi conoscere i tempi … ma avrete forza per essere testimoni fino agli estremi confini della terra …”. Quattro elementi: non è la vostra competenza: il tempo non è nelle vostre mani. Ma questo non vuol dire che non avete niente – buoni e zitti perché non spetta a voi – avrete forza. Questo versetto è incredibile: avrete forza! Che altro aggiungere? Mi sembra talmente visibile: non sappiamo, non si dice avrete risposte, né avrete spiegazioni, né capirete, ma avrete la forza necessaria a sopportare di stare senza una spiegazione, di non saper se il tempo è compiuto, per avere fiato per arrivare fino a che i tempi si compiranno. Ancora una volta, questo è un altro modo per dire che siamo secondi, che non è il primo capitolo. Non sappiamo quanto bisogna tener duro, però sappiamo che avremo tutta la forza che serve per tener duro fino a quando sarà necessario.

“Avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni…”. Forza per che cosa? Per essere testimoni. Di che? L’idea della testimonianza è molto strana, per noi, perché ci pone sempre il problema tra integralismo, rispetto, tolleranza… Cosa faccio? Affronto chi non la pensa come me? O sto sempre zitto, lascio che facciano? E’ un po’ un groviglio perché, appunto, tutta questa difficoltà nasce dall’esserci centrati tutto sul dire, sui concetti. Cioè, se il problema è idee, c’è un’idea vera e le altre sono false, una giusta e le altre sono sbagliate. Se il problema è la soluzione, è come in matematica: ad un problema c’è una sola soluzione giusta. La questione non è così: la vita è più complessa, ma soprattutto l’incontro con il Signore è molto più complesso. “Nella casa del Padre mio ci sono molte dimore; se non fosse così ve l’avrei detto” fanno dire a Gesù gli evangelisti. E cioè: una soluzione è giusta, ma un’altra pure, e poi ce n’è una terza che è anche giusta. Sono diverse tra loro, e sono tutte giuste, perché la vita è complicata, perché, che cos’è un matrimonio giusto? In genere possiamo solo dire che cos’è un matrimonio ‘scassato’, poi ci sono tanti modi di essere una famiglia, di volersi bene. Qual è il modo giusto di voler bene? Ah, saperlo! Ci sono mille modi di volersi bene e uno, comunque, ha sempre il dubbio che non sia abbastanza. E’ chiaro, nel campo delle teorie, se una teoria è giusta, il suo contrario è sbagliato; nel campo del volersi bene, se un modo di volersi bene è giusto, forse anche il suo contrario è giusto. Bisogna dirsi sempre la verità. Oppure, no, non bisogna dirssi proprio tutto tutto, ci sono alcune bugie che sono necessarie, e così via. Consigli da rivista femminile. Sono tutti veri e tutti falsi, nel senso che tendenzialmente sì, bisogna dire sempre la verità, soprattutto con chi considera la verità così decisiva  che si sentirebbe ferito e tradito da una menzogna; poi ci sono tante volte in cui preferiamo non sapere. Se uno non mi dice la verità, è meglio. Mi fai una carità, se non mi dici la verità. Questo lo puoi sapere solo dentro.

Essere testimoni sta dalla parte della vita, non dei concetti e, dunque, che cosa testimoniamo? Noi non testimoniamo una soluzione, un’ideologia, un prodotto a scapito di un altro, noi testimoniamo che ciò che è accaduto a noi, poiché Dio è grande, non può non accadere anche a te. E ciò che è accaduto a noi è che Dio ha benedetto la nostra vita e l’ha fatta fiorire e, che tu ci creda o no, che tu ci speri o no, che tu abbia perso ogni fiducia nel fatto che la tua vita possa ancora fiorire, poiché Dio è buono ed è grande, ciò che è accaduto a me non si vede perché non dovrebbe accadere anche a te. E testimoniare questo significa rimanere lì a far fiducia sulla possibilità di fioritura della vita di un altro quando lui stesso non ci crede più. E non è una faccenda da poco!

In questo senso, “ … fino a Gerusalemme, in tutta la Giudea, la Samaria e fino agli estremi confini della terra” non è solo un’indicazione geografica, come per molti secoli abbiamo pensato.                                      E’ come dire, la crisi del milleduecento, quando i cristiani avevano esaurito il mondo allora conosciuto, si sono chiesti: e adesso, a chi dobbiamo testimoniare? Rivolgiamoci agli eretici, a cui abbiamo già testimoniato, ma loro testoni… non hanno ancora aderito, allora, crociate, ecc. E poi Dio, ovviamente, ha scombinato tutte le carte in tavola e con l’inizio dei grandi viaggi del millequattrocento, dice, no, non avete finito, c’è ancora un sacco di roba, le Americhe, l’Asia… Allora uno ricomincia a cercare gli estremi confini della terra… Il problema non è solo geografico; forse oggi abbiamo raggiunto gli estremi confini della terra, ma la questione è: in lungo, in largo e in profondità, nella totalità di ogni vita, che può avere ogni fioritura possibile. Testimoniare la fiducia che Dio farà fiorire qualsiasi pezzo di qualsiasi vita, secondo la propria fioritura possibile.

Il primo di questi tre elementi metteva in luce questo tema di eccedenza, di appoggiarsi su ciò che sporge; questo secondo ci dice di una pratica, non nel senso di pratica religiosa – di andare molto a messa, dire molti rosari – e nemmeno nel senso moralistico di concretizzare, essere coerenti, applicare; ma ci dice di una pratica perché accettare e vivere che non spetta a noi conoscere i tempi, esercitare la forza che ci è data per tenere duro, per tenere la posizione che si occupa, il massimo livello di felicità possibile nella propria esistenza, non arretrare nemmeno di un passo rispetto al massimo livello della possibilità di felicità della propria esistenza, ci va forza! E testimoniare che questo è per ognuno, fino agli estremi confini della terra, queste non sono chiacchiere, questo è un agire l’esistente e l’esistenza! Sant’Ignazio dice, negli esercizi, che nel tempo della desolazione, quando uno è confuso, triste, addolorato, non deve prendere nessuna decisione, perché la desolazione è pessima consigliera ma una decisione la deve prendere: non arretrare, non mollare il posto che ha! Fino a che non capisce verso dove deve andar, uno deve piantarsi sui piedi e tenere quel posto lì, che vuol dire le mille cose che uno fa nella sua esistenza, ma che pigliano tutto un altro suono: lavorare, cucinare, mangiare, parlare, avere cura di coloro che amiamo, ascoltare, tutto quello che facciamo normalmente. Forse fino all’ultimo giorno non sapremo in che direzione dobbiamo andare, perché non spetta a noi conoscere i tempi, forse non avremo questo attimo di visione, come ad alcuni santi è dato, di intuire il carisma della loro vita e di sapere esattamente cosa fare per servire il Signore, forse questo ci sarà dato solo nell’ultimo giorno, perché i tempi non spettano a noi, ma avremo la forza di tenere i piedi piantati nella vita in cui siamo e di non arretrare sul livello massimo di felicità possibile, di fioritura possibile, di benedizione e misericordia possibile di quella vita lì e di testimoniare a tutti coloro che incontriamo, che se per me questo è possibile, se ho la forza di non arretrare e di benedire, questo accadrà a chiunque, perché Dio non fa differenza di persone. Un’eccedenza e una pratica.

Un’assenza

Ultimo nucleo. “Detto questo, fu elevato in alto…” C’è questa bella immagine che, credo, in tanti amiamo, degli apostoli che restano con il naso per aria a  guardare – qui la citazione dell’Antico Testamento “…una nube che copre lo splendore” E’ la nube che guidava gli ebrei nel cammino nel deserto e faceva loro ombra, la storia della grande traversata del deserto, quarant’anni dalla schiavitù alla terra promessa, e una nube ci guida, ci copre; una nuvola come tappeto, dice il testo ebraico, come tappeto sopra le loro teste perché nel deserto, col sole a picco, quel filo d’ombra è provvidenziale.  Allora c’è questa nube che copre lo splendore di Gesù elevato sotto i loro occhi. Ma, come tutte le nubi, fa ombra, è un segno, ma oscura anche, non vediamo più cosa c’è dietro, perché la vita funziona così, ogni grazia è anche un po’ una disgrazia, ogni dono è anche un costo, ciò che mostra, nasconde anche. E gli apostoli stanno lì, come degli scemi, a guardare le nuvole; e appaiono due uomini in bianche vesti, “…uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo?”…ma non avete proprio niente da fare? Perché rimanete proiettati su ciò che è stato? Il Signore è venuto, ha beneficato, ha insegnato, è risorto, ha detto, se n’è andato. Tornerà un giorno… Per questo, per secoli, i cristiani hanno interpretato il tempo della storia fino a sminuirlo radicalmente, come un tempo di passaggio, una valle di lacrime, una realtà non del tutto vera; la vera vita, il riposo, la pace – tutti i termini che si attribuiscono al dopo la morte, alla fine della nostra vita – sono tutti termini di benedizione, perché in fondo era chiaro ai cristiani che qua era tosta! Noi, giustamente, abbiamo detto: non sminuiamo così tanto la storia – la storia è il tempo che ci è dato per imparare tutto questo, per frequentare Dio, il nostro fidanzamento, che è sempre un tempo glorioso, un tempo magico e un po’ romantico, poi il matrimonio diventa più ordinario, ma la storia ha degli aspetti belli. Tutto vero, ma anche qui non dobbiamo dimenticarci che per contrastare un rischio caschiamo nell’altro e in fondo immaginare cosa succede dopo la morte mi interessa poco, perché…va a sapere, se c’è qualcosa, o nulla … poi l’idea delle nuvole, delle arpe per tutta l’eternità… una noia mortale. Invece no. Ha ragione Bonhoeffer, quando dice: il vero cristiano ama la meta e ama la terra, la strada che lo porta alla meta. La storia è questa strada che ci porta alla meta, ci riporta a casa e dunque la amiamo, ogni passo ci è grato, ogni passo è un’occasione perché il viaggio non è solo tempo di spostamento; il viaggio è già parte della vacanza, è già l’aria di casa. Ma, contemporaneamente, di riposarsi non se ne parla, adesso bisogna camminare, poi quando si arriva ci si riposa, ma adesso è la strada, non è ancora la casa. Le due cose bisogna amarle entrambe, ma anche ricordarsi della loro differenza. E qui gli dicono, tornerà un giorno, ma adesso non è tempo di stare a guardare il cielo, non bisogna, ancora una volta, occuparsi delle cose religiose; adesso bisogna camminare, bisogna avere la forza dello Spirito Santo.

Qui c’è la terza grande questione che costruisce il nostro incontro con il Signore, un’eccedenza, una pratica, ma la terza è la più dura, ed è un’assenza! Noi abbiamo costruito la grande riflessione negli ultimi quindici secoli – teologicamente – sulla teologia della presenza – diciamo, Gesù è qui, Gesù è con noi nell’Eucaristia… Tutte cose verissime, ma ancora una volta, come sempre succede agli umani, oscilliamo, esageriamo troppo da una parte o dall’altra; abbiamo molto insistito sulla presenza dimenticandoci che è uno strano tipo di presenza, Gesù è con noi… sì, in che  senso? Non è che lo incontri, apri la porta e lo vedi, né che la presenza eucaristica sia così evidente. Gesù è con noi, se io, in una relazione con lui lo sento presente. Ma è una forma di presenza che dobbiamo imparare, come quando muore qualcuno che amiamo; sappiamo che non è perduto per sempre, ma non ci è mai capitato, con quella persona lì, di dover imparare a sentirlo presente nel modo misterioso in cui si è presenti senza un corpo. Ed  è per questo che, di fronte a qualsiasi lutto, anche se uno crede alla vita che continua, lo sa, ha un tempo di stordimento, perché bisogna imparare delle presenze che non passano più per le cose per cui per tanti anni della nostra vita sono passate, per i gesti, le parole, gli atteggiamenti, comprese le ripicche, le difficoltà a capirsi, che ci hanno detto che l’altro c’era, che l’altro era lì e che ci hanno detto, per uguaglianza o per distanza, che ci voleva bene, che gli stavamo a cuore, che eravamo presenti alla sua vita. E imparare tutto un altro linguaggio, un’altra grammatica;  non è cosa da un giorno; il dolore ha il suo tempo, non è sinonimo della disperazione; uno ha speranza e ha lo stesso dolore, perché il dolore è la fatica che si fa ad imparare un altro linguaggio, altri gesti, altri modi. E non si imparano in un giorno, e per molto tempo i gesti, la grammatica, le cose che ti hanno ‘detto’ per anni la presenza di coloro che ami, poiché oggi non te lo dicono più, ti fanno impressione, perché quelli sapevi come funzionavano e quegli altri non lo sai ancora.

Da questo punto di vista, abbiamo poco riflettuto su ‘l’assenza’; e questa cultura in cui siamo, che è una cultura della presenza e della visibilità – esiste solo ciò che si vede – non ci aiuta a trovare la grammatica di come si vive con un’assenza. Forse noi credenti dovremmo cercare di impararlo, perché siamo in un tempo in cui …’Dio non c’è’ … Non c’è nel senso che non lo incontriamo come un rabbi o un maestro sulle strade, che non fa più miracoli, che non insegna, che non è sulle nostre strade, che non ci accompagna… Ma dovremmo ricostruire la grammatica del suo modo di essere presente; e certamente ne abbiamo un filone molto chiaro, quello della liturgia, che è l’unico luogo certificato di una presenza, ma che, guarda caso, ha una grammatica propria, che non è la grammatica della vita quotidiana, e ad un certo punto ci fa un po’ problema. Usciamo da una messa e diciamo, va beh, e che differenza c’è rispetto a quando sono entrato, cos’è successo? Niente. Perché con la grammatica di che cosa è successo, forse non è davvero successo niente, perché c’è un’altra grammatica. Quello che i due uomini vestiti di bianco dicono ai discepoli, “perché rimanete a guardare in alto?” è esattamente questo: c’è da imparare un’altra grammatica, quella dell’assenza. La fede segue un’altra grammatica.

Mi sembra che, a conclusione di tutto questo percorso, l’immediatezza dell’incontro e dell’esperienza del Signore di cui andavamo in cerca, superando l’idea ‘io sento, nel mio cuore c’è questo movimento emotivo…’, ma andando più in profondità nella dinamica di un incontro che ha lo spessore dell’esistenza, ci viene detto da Luca, deve vedersi attraverso tre cose – che ho chiamato con queste tre parole molto moderne per farle ‘vedere’, ma se volete poi ve le traduco anche in antico, sono cose che i cristiani hanno sempre saputo – l’eccedenza, la pratica e l’assenza. Noi viviamo come coloro che sono appoggiati fuori di sé; viviamo come coloro che sanno che le cose contano, ma non sono l’assoluto e che le cose sono il tessuto dell’eternità; viviamo come coloro che sanno abitare un’assenza. Dette in antico, il linguaggio classico della teologia diceva che i cristiani vivono per grazia; che i cristiani si vedono dalle opere buone; e che i cristiani sperano in una vita dopo la morte, nella risurrezione. Questa è la traduzione antica, ma spero che con parole nuove si veda meglio che non è solo una dottrina, un contenuto – tu credi alla risurrezione? Sì, certo. Io invece credo nella reincarnazione… come un mazzo di carte che si sfoglia e si sceglie la situazione più simpatica o convincente. Non è questo il problema. Il problema è una vita conformata e convincente.

Domanda: “Lei ha detto che Dio ci dà la forza. Citando sant’Ignazio diceva che nei momenti di depressione occorre puntare i piedi e non retrocedere. Ma allora perché tante storie di oggi finiscono in tossicodipendenza, suicidio, violenza…?”.

Risposta – Onestamente non capisco molto la connessione del tuo ragionamento, nel senso che infatti, non a caso hai sostituito desolazione con depressione – Sant’Ignazio parla di desolazione, non di depressione – ma – no, non hai sbagliato, hai fatto un lapsus che dice cosa pensi tu e come hai ascoltato le cose che ho detto, cioè hai sovrapposto  un quadro di lettura che è quello che hai tu nella testa rispetto ad una cosa che io ho detto. Io non ho detto che Dio dà la forza come se fosse il valium che distribuisce a pioggia e niente di male può accadere. Io ho detto che, in un percorso credente, noi sappiamo che Dio dà la forza. Che poi riusciamo ad averla tutti i giorni e tutta quella che serve è un’altra questione. E poi, se tu mi stai dicendo che io penso che le persone si drogano, sono depresse o si suicidano perché non hanno la forza, la risposta è no. Io non penso questa cosa. Penso che la vita è complicata, e che avere tutta la forza che serve è una questione molto seria  e che io posso al massimo, forse, intuire per me quale forza mi serve o mi servirebbe; non oserei mai dire qualcosa sul mistero di un altro. Il mistero di ciò che accade a chi nella sua vita ha o non ha la forza, e sceglie o non sceglie di comportarsi in alcuni modi e mettere in relazione questo e dire che uno si è suicidato perché non aveva la forza, non compete veramente a me. Noi siamo secondi. A mala pena so qualcosa di me, figurarsi sugli altri. Io sono a me stessa un grande mistero. Il mistero di ciascuno di noi è davvero il capitolo n° 1 che sta solo nelle mani di Dio, non di noi.

Fossano, 12 aprile 2008

(testo non rivisto dal relatore)

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