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9 Febbraio 2008
Stella Morra

5. Tre modi: Anna, Caifa e Pietro

Commento a: Gv 18, 12-27


Premessa

Nei primi incontri, con i testi di Genesi ed Esodo, abbiamo sottolineato la descrizione della dinamica dell’incontrare. Con i testi di Giovanni stiamo entrando un po’ di più nel modo di incontrare proprio di Gesù e del suo stile di comportamento.

Il testo di oggi, dal capitolo diciotto del vangelo di Giovanni, fa parte del racconto della passione e lo sentiremo più volte integralmente alla fine della quaresima. E’ un testo complesso, un po’ strano; è esattamente il contrario di un telefilm americano alla televisione: niente è come sembra; non è facile stabilire chi sono i buoni e chi i cattivi, chi ha  ragione e chi ha torto. Nel suo incontrare Gesù è molto enigmatico, per lo più tace. Per noi gli incontri senza parole sono sempre un po’ strani; già ci fidiamo poco degli incontri in generale in cui, se parliamo, ci spieghiamo e ci difendiamo! Gli incontri fatti soprattutto dalla realtà e poco dalle nostre scelte, fatti per lo più dal risultato di una storia precedente, in cui finiamo per trovarci lì dove siamo senza aver scelto l’ultimo passo – ma poiché abbiamo scelto i novantanove passi precedenti, siamo lì – quelli ci fanno  un po’ più paura. Mi piace questo testo perché lo trovo realistico, un testo che riguarda le cose come vanno per il novanta per cento dei casi.

I testi più eclatanti di incontro di Gesù – per esempio l’incontro di Gesù con la samaritana – sono molto belli, ci consolano, ci fanno bene al cuore, ma ci sembra sempre che questa situazione chiara, visibile, che avviene a qualcuno più fortunato che incontra Gesù, a noi non succederà mai! Noi siamo molto presi dalle piccole cose quotidiane, ci distraiamo, succedono mille questioni, a volte scegliamo, a volte non ci sembra neppure di aver scelto, le cose ci accadono e basta, e alla fine, come risultato, abbiamo la sensazione che non accada niente. Questo testo mi piace perché dice che non è vero che non accade niente. In nessuna vita non accade niente; accade sempre un incontro possibile con il Signore.

Inoltre questo testo dice che la cosa fondamentale in ogni incontro non è fare le cose giuste. Qui è molto difficile capire chi sono i buoni, chi i cattivi; se lo leggiamo con un po’ più di attenzione nessuno di quelli che vi compaiono ci convince che è buono, tutti hanno aspetti buoni ed altri complicati. Quelli che ufficialmente sarebbero buoni, come Pietro, sono anche abbastanza tonti. La questione è proprio questa: il criterio di un incontro non è fare le cose giuste. Un incontro, soprattutto un incontro con il Signore, sopporta anche le cose sbagliate. Gli incontri veri ci cambiano, ci fanno crescere, ci trasformano, ci spostano, indipendentemente dal fatto che facciamo le cose giuste o quelle sbagliate, perché non sono le scelte che salvano. Le scelte fanno vivere meglio o peggio, più aperti agli altri, al dialogo,  più allegri o meno, ma non sono le nostre scelte che ci salvano, grazie a Dio. E’ il Signore che ci salva! Le scelte servono a vivere, certo, ognuno deve fare qualcosa e arrivare alla sera delle sue giornate, potendosi guardare allo specchio, avendo fatto delle scelte che non disprezza, delle cose di cui è moderatamente soddisfatto. Detto questo, la forza dell’incontro con il Signore non passa di lì. E questo può seccarci un po’, se pensiamo da fratello maggiore della parabola, cioè: ma come, faccio tutte le scelte giuste, e non basta? Se pensiamo da fratello prodigo della stessa parabola, invece, ci consola abbastanza: possiamo sbagliare in molte scelte, non ci sarà negato un incontro di salvezza! E’ chiaro che, se tendiamo a pensarla come il fratello maggiore, ci secca; il problema è che nessuno di noi è il fratello maggiore, siamo tutti il fratello prodigo; dunque, meno male che le nostre scelte non ci salvano.

Questi sono i due temi; c’è un tessuto di incontri che, per esempio in questo caso, conducono sull’orlo di un dramma, che sarà quello della passione vera e propria. L’inizio del capitolo che leggiamo riguarda l’immediato: dall’arresto di Gesù, al momento in cui sarà condotto a Pilato, il ‘frattempo’ che, guarda caso, è il frattempo della passione che noi memorizziamo meno. Normalmente, pensando alla passione abbiamo in mente Pilato, la fustigazione alla colonna, la via crucis, le cadute di Gesù, la crocifissione… e non questo frammezzo che si riferisce soprattutto al mondo del religioso ebraico – l’incontro di Gesù con Anna e Caifa, il sommo sacerdote e suo suocero.

Afferrare e spostare o fare chiarezza? 

Nel tempo della quaresima vi consiglio di leggere tutto di fila il racconto della passione dal vangelo di Giovanni, perché sentendolo nella domenica delle Palme, è difficile seguirlo bene. Se lo leggi come racconto ti rendi conto che è molto costruito, ha un suo ritmo, delle scansioni, dei quadri molto specifici con legami stretti tra uno e l’altro. E’ come se Giovanni stesse disegnando una scala con dei gradini; ogni gradino ha un pezzo in più del precedente e alla fine arriva alla crocifissione, in cima al Golgota. Questo episodio è uno dei primi quadri del racconto; il primo è l’orto degli ulivi, con il tradimento di Giuda e l’arresto di Gesù. Come sempre Giovanni costruisce i suoi testi in modo che, se li ascolti un po’ distrattamente, suonano perfettamente logici, ma se cominci ad entrarci dentro ti rendi conto che ci sono tanti pezzetti che non tornano. E’ nel vangelo di Giovanni che troviamo il calcolo dei tre giorni della morte di Gesù, che poi non torna, perché tra il venerdì alle tre e la domenica mattina non passano tre giorni! Giovanni è così, costruisce così bene su un modello, che ti sembra assolutamente plausibile; se poi entri nel merito, nei particolari, ti rendi conto che ha forzato il racconto.

Qui, per esempio, l’incontro con Anna e Caifa è una forzatura. Prima portano Gesù da Anna e non direttamente da Caifa, che pure era il sommo sacerdote; poi Gesù risponde e la guardia gli dice: “Così rispondi al sommo sacerdote?” …e pensi che sia già arrivato da Caifa, ma subito dopo si legge: “dunque Anna lo mandò da Caifa” … era Caifa o era Anna? Questi due personaggi sono stranamente sovrapposti, in questa vicenda.

Vi ricordo lo stile con cui leggiamo la scrittura, perché qui è molto importante: l’idea che la parola di Dio è uno scenario interiore, noi siamo un po’ tutti questi personaggi, non funziona che io mi devo mettere dalla parte di uno o dell’altro. Giovanni ha questa logica: descrive delle scene in cui io sono Pietro, sono la portinaia, Anna, Caifa e per alcuni versi sono anche Gesù, poiché sono battezzato. Oltre che una storia accaduta, viene descritta una dinamica interiore. Giovanni fa la forzatura di raccontare la storia che è accaduta come una descrizione della  conversione del cuore, di ciò che accade dentro e non di ciò che accade fuori.

Da questo punto di vista è interessante questo inframmezzo tra una scelta sbagliata, quella di arrestare Gesù, e l’inizio del processo; questa sospensione comincia con una duplice operazione molto grave. La prima: “Afferrarono Gesù e lo legarono”; la seconda: “Lo portarono prima da Anna”. Sono le due operazioni che facciamo sempre, o che rischiamo di fare, di fronte ad un errore: afferrare, renderci padroni della situazione e fare uno spostamento, fare un’altra cosa. E’ come la favola della volpe e l’uva: non era matura!  Di fronte ad una situazione grave, che si impone come una scelta radicale, la tentazione è sempre quella di rendersi padroni della situazione afferrandola; non lasciare che la storia, le persone messe in movimento, ci giudichino e dire: prendo e lego. Questa cosa è così, deve succedere questo e non altro. Io ho ragione, tu hai torto, io ho capito, tu no. Prendo e blocco. E dall’altra parte operare uno spostamento: di fronte al prendere e bloccare uno si rende conto che non sta andando come voleva lui, non era questo che voleva e fa un’altra cosa. Gesù doveva andare da Caifa? Va bene, portiamolo da Anna.

Anna e Caifa sono l’immagine del perenne spostamento, fare una cosa al posto di un’altra. ‘Questo era il mio desiderio; ma no, in realtà volevo un’altra cosa’. Questo era il mio desiderio, ma siccome non so se si realizza, ho paura; va bene quello che ho già, ho afferrato e questo mi basta. Questa è la chiave della sospensione tra una situazione dura, di giudizio, di dramma, come quella dell’orto degli ulivi, e il fatto che questa situazione di dramma si trasformi in una salvezza o in una croce. Sta esattamente in questo passaggio. Comincia così la sospensione. Non so se riesco a spiegarmi. Voglio dire: i drammi esistono, le questioni epocali esistono; nella nostra vita accade di trovarsi in un orto del Getsemani, e di trovarsi di fronte agli altri forse un po’ nella parte di Giuda, di colui che ci aveva creduto, ma poi non sa più se ci crede o no. Il problema è cosa uno fa quando accade questo. Giovanni ci dice che, se l’operazione che uno fa è quella di afferrare, invece che di lasciarsi afferrare, e di spostare, invece che di fare chiarezza sui propri desideri, dopo succede un dramma.

Calcolatori o malvagi?

Portano  Gesù prima da Anna, perché Caifa è colui che aveva consigliato ai giudei: “E’ meglio che un uomo solo muoia per il popolo” Caifa, nel nostro immaginario, è uno cattivissimo; anche nei musicals e nei films è sempre rappresentato come un perfido. Se però pensate a quello che dice, in fondo è ragionevole, è un calcolatore, non un malvagio. E’ diverso. Se facciamo di lui un malvagio, nessuno di noi si sente così malvagio; se pensiamo che è solo un calcolatore, uno che fa i conti, ci viene il sospetto che forse anche noi spesso ragioniamo così, e che il calcolo è peggio della malvagità, perché è nemico di ogni incontro. Il calcolo è figlio della paura, dell’aver afferrato e legato, è la pretesa di dire: ok, se faccio questo e quello succede così, pagherò un prezzo, ma è piccolino.

La nostra sensibilità, cultura, mentalità, è un mondo pieno di calcolo. Stiamo inventando assicurazioni per qualsiasi cosa; ogni volta che c’è un problema, ci chiediamo chi è il colpevole, perché ci pare che, se sappiamo che cosa non ha funzionato e chi è il colpevole, siamo più tranquilli, ci pare di soffrire meno. In realtà non è esattamente così: se io soffro per qualcosa che è accaduto, sapere chi è il colpevole non sposta la mia sofferenza. Fare molte assicurazioni non mi mette al riparo dalla fatica del vivere; essere garantiti non significa essere protetti da ogni sofferenza possibile. E’ vero, siamo in un mondo che tende a calcolare tutto, che anticipa il futuro, che vuole afferrare e legare anche ciò che non è afferrabile e legabile: il caso, l’opportunità, il bene e il male. La nostra necessità è di essere padroni, anche del futuro, padroni di come mi sentirò; padroni di immaginare come reagirò a quella situazione, di che cosa avrò bisogno. In realtà, poi, gli eventi ordinari, la nostra vita così com’è, l’attenzione a chi abbiamo intorno, le cose che ci capita di fare dal mattino alla sera, non sono assicurabili; e, normalmente, reagiamo sempre in modo diverso da come avevamo pensato. Questo  è esattamente il tessuto degli incontri: il fatto che la realtà, gli altri, la loro libertà mi si impongono, non sono afferrabili e legabili e che imponendomisi sono a volte un costo, e a volte un grande nutrimento; ne viene del buono, che non ho meritato, che non ho pagato, o ne viene della fatica, che non ho meritato. Non si  vive solo di ciò che si merita. Non solo, ma l’esistenza non è la scuola, dove se uno fa bene i compiti, gli devono dare dieci. Può darsi che uno faccia bene i compiti e non prenda dieci, e un altro non fa per niente i compiti e, magari, prende dieci ugualmente. Da questo punto di vista noi siamo molto Caifa, sommi sacerdoti e ragionevoli: è meglio che muoia un solo uomo!

Questi primi tre versetti ci danno un’interessante modalità di ingresso: afferrare, legare, andare prima da Anna ed essere calcolatori come Caifa. E’ già un bel campionario di possibilità di un tempo intermedio, quotidiano. Queste sono cose non straordinarie: anch’io, se Gesù mi si presentasse e mi parlasse, mi farei volentieri convertire, però nel quotidiano raramente incontro Gesù; incontro la gente normale, i miei colleghi di lavoro, incontro delle persone e delle cose. Qui viene detto che, per incontrare il Signore nelle persone e nelle cose, bisogna sfuggire questo atteggiamento, almeno queste tre questioni, perché, se ci mettiamo così, ci succederà come ad Anna e Caifa: non riconosceremo Gesù.

Incontrare o non incontrare

Arrivano poi Simon Pietro e l’altro discepolo, e c’è un altro piccolo cammeo che Giovanni dipinge. Poteva darci il racconto del rinnegamento di Pietro tutto insieme, invece ne fa una prima parte, poi c’è il dialogo tra Gesù e Anna – o Caifa – con lo schiaffo, e infine la conclusione di Pietro. E’ chiaro, Giovanni ci sta mostrando come queste due storie vanno avanti in modo parallelo e sono in qualche modo l’una il contrario dell’altra. Sono per non incontrare e per incontrare. E’ ovvio!

“Simon Pietro seguiva Gesù insieme con un altro discepolo”. Questo ‘seguire’ è la stessa radice di quel termine tecnico che noi usiamo per indicare i discepoli: la sequela. “…seguiva Gesù…”, vuol dire che gli andava dietro come un cagnolino che va dietro al padrone – non sa dove questi vada, ma lo segue; o come un bambino che zampetta dietro a padre e madre – non s’allontana mai troppo, fa un giretto ogni tanto, controllando sempre che padre e madre siano a portata. La sequela è questa cosa: è il padrone che decide dove andare; la sequela è rimanere in un raggio visivo. Uno può tirare un po’ la corda, allontanarsi, fare dei giretti, ma rimane lì nei dintorni. E così fa Pietro.

E qui c’è una bellissima prima parte che dipinge il parallelo delle tre cose che mettevo in evidenza prima, ma girate dall’altra parte, girate in positivo: la possibilità di un incontro. C’è una meravigliosa dinamica di ‘dentro-fuori’ con i tre personaggi: Pietro, l’altro discepolo, e in mezzo c’è la portinaia. Nella scrittura, ma anche in tutti i testi spirituali, nelle regole di vita monastica, i portinai, coloro che stanno sulle porte, sono fondamentali, perché sono quelli che stanno a guardia del passaggio dentro-fuori. Tutti i racconti di soglia, di passaggio, di star dentro o star fuori, sono sempre decisivi; il portinaio è colui che fa entrare, fa uscire; o non fa entrare, non fa uscire. E’ il guardiano. Noi non useremmo questa immagine perché per noi il portinaio è un vago ricordo ottocentesco di buffi signori che stavano al fondo della scala e che avevano un po’ l’aria dei servi, che facevano lavori poco nobili. Per noi la figura del portinaio non evoca un potere. Invece nell’antichità la guardia delle porte – la porta della città – ha un grande potere perché decide chi rimane fuori, ai pericoli, da solo, e chi è dei nostri, è dentro, è protetto.

C’è dunque questa bella figura della portinaia intorno a cui gironzolano Pietro e l’altro discepolo. Pietro ha un alter ego che, secondo la tradizione, è questo discepolo, Giovanni, – e la tradizione dice che per questo non si cita per nome, perché è modesto, è lui che scrive, e non dice ‘io’. Anche qui Giovanni ripete la stessa operazione come con Anna e Caifa. Di Caifa sappiamo che era sommo sacerdote, di Anna sappiamo che era suo suocero – quale valore legale ha che sia suo suocero? Qui lo stesso: di Pietro sappiamo che era Pietro, quello scelto da Gesù; dell’altro sappiamo che era ‘l’altro discepolo’, l’altra metà, l’altra faccia. Chi? Non viene detto. E’ chiaro che Anna e Caifa, Pietro e l’altro discepolo, sono uno e la sua ombra, uno e l’altra metà, uno e lo spostamento possibile. Qui Pietro seguiva Gesù e rimane fuori. L’altro discepolo era conosciuto, la sua ombra si infila. Non si dice ‘conosceva’, ma “…era conosciuto…”, ed entra con Gesù, mentre Pietro si ferma fuori.

Questa è la figura meravigliosa dell’antieroicità di ogni incontro quotidiano con il Signore: siamo sempre mezzo dentro e mezzo fuori. C’è una parte di noi che è ri-conosciuta da Dio e che entra dentro subito, ci chiama con un fischio e vuole farci entrare; poi c’è l’altra parte di noi che sta lì, fa l’indifferente, fischietta e fa come Nanni Moretti quando dice: mi notano di più se vado alla festa e sto sempre zitto, o se non vado? E fa l’indifferente, rimane fuori, sulla soglia perché sa che essere riconosciuti è un problema. E’ esattamente quello che gli capiterà. L’altro discepolo era conosciuto, entra e nessuno gli dice ‘ma non sei tu quello?’. E’ strano, se lo conoscevano, doveva essere il primo che ri-conoscevano! Ci sono i due, quello che va avanti, la metà che va avanti. Pietro e l’altro discepolo nel vangelo di Giovanni hanno sempre questo ruolo; anche nel racconto della risurrezione funziona allo stesso modo: uno dice ‘è il Signore’, l’altro si tuffa; uno corre per primo, poi aspetta sulla soglia. Giovanni ha  sempre questa logica dei due, di cui uno si slancia e l’altro fa l’indifferente, sta un passo indietro, è più perplesso, più pensieroso.

Spesso i Padri hanno interpretato questa dualità come la fede e l’amore: l’amore si slancia, è il luogo della passione, che riconosce il Signore, corre in fretta, è riconosciuto da Dio; la fede è quella che dice sì, però… rimugina, si pone dubbi… Alla fine, prima o poi, ci arriva, ma è sempre un po’ più pesante. Noi, che teologicamente siamo meno solidi dei Padri, forse diremmo il cuore e la ragione: il cuore si fa prendere, si infuoca, si infiamma; mentre la ragione…ragiona. La cosa interessante è che io sono almeno due: sono almeno io e la mia ombra. E devo mettere in conto che c’è sempre un pezzo di me più pesante dell’altro, un pezzo che va prima e uno che va dopo; non basta aver detto una cosa, magari l’ho capita, ma un pezzo è arrivato e l’altro non ancora, si aggira fuori con l’aria indifferente. Per entrare in un luogo, nella mia stessa vita nell’incontro con il Signore, c’è sempre questo rischio: se entro, poi ci sono, qualcuno mi vede, mi riconosce.

“La portinaia dice a Pietro: ‘Forse anche tu sei dei discepoli di quest’uomo?”. E Pietro dice: “Non lo sono”. Giovanni, che ha sempre queste pitture così chiare, dice che dopo a Pietro è venuto freddo, e si è messo vicino al fuoco per scaldarsi! Credo capiamo bene, senza troppe spiegazioni, che a volte diciamo no e poi ci viene freddo; è il minimo. Ma non c’è giudizio morale. Pietro rappresenta l’incontro positivo; è quello che ce la farà a sentire il gallo cantare, ma starà ancora lontano, non sarà sotto la croce; alla fine, però, rimarrà lui il capo dei discepoli, quello che farà il discorso dopo pentecoste. Fa tutto sbagliato; ma non importa, perché l’incontro con il Signore è reale, non è un problema di fare le cose giuste. Certo Pietro è uno che sa sentire freddo e sa sentire un gallo cantare! Non è uno che afferra e lega, non è uno che sposta – sbaglia, ma non sposta! – voleva seguire Gesù, aveva paura, lo riconoscono, lui si spaventa, rinnega, ma non fa un’altra cosa; sta lì e fa una sciocchezza, ma sta lì!

Giovanni costruisce poi la terza scena. Anche qui due premesse possibili per due incontri molto diversi: un non incontro e un incontro; quello che c’è dopo è un dialogo sulle parole – a cosa servono le parole nell’incontrarsi. Gesù viene interrogato, ma non si capisce di che cosa venga accusato, gli chiedono conto delle sue dottrine e Gesù dice: “Ero sempre sulle piazze, nelle sinagoghe, chiedete a coloro a cui ho parlato, loro sanno”. E per questo  gli viene detto: “Come ti permetti di parlare così?” e gli viene mollato un ceffone. E Gesù parla ancora delle parole: “Se ho parlato male dimostrami dov’è questo male; se non ho parlato male, perché mi percuoti?” Le parole sono contrapposte ad uno schiaffo: Gesù parla e quell’altro mena! E Gesù parla delle parole. Si arriva al clou. Poste le due premesse, come si incontra Gesù nella vita quotidiana? Gesù dice: “nelle piazze e nelle sinagoghe”, non c’è niente di nascosto, di strano, di religioso, di spirituale da andare a cercare. Chiedete a quelli che hanno ascoltato! A quelli che mi hanno incontrato. E’ molto semplice; anzi, è troppo semplice; e a questo si contrappone la violenza, perché se io voglio afferrare, legare, se voglio possedere, decidere, tu mi devi dire dove sei, chi sei, così che io possa esprimere il mio giudizio. Se tu mi dici, ‘io sono nella tua vita, nelle cose, in ciò che accade, nelle piazze e nelle sinagoghe, apri gli occhi’, io non posso giudicare, tu non stai legato davanti a me, io non  posso dire questo è giusto, questo è sbagliato, mi tocca di dirmi che io sono giusto o sbagliato, che la mia vita funziona o no, è viva o no. E questo è insopportabile, e dunque parte uno schiaffone, perché le parole vanno bene, ma ad un certo punto devono arrivare i fatti.

Da questo punto di vista Gesù non si sposta, non accetta di entrare in una spirale di violenza, come farà, poi, anche con Pilato. Dice: se ho parlato bene perché mi percuoti, e se ho parlato male dov’è il male? Con chi te la stai pigliando? Dai uno schiaffone a me, ma con chi sei incavolato? Con me? O con te stesso? E questa è la vera questione: chi state cercando? Perché continuiamo a cercare l’incontro con il Signore fuori, come se fosse incontrare qualcosa di estraneo alla mia vita e alle sue dinamiche. Nelle piazze e  nelle sinagoghe della mia vita, in ciò che mi è accaduto e mi accadrà, se non lo afferro, non lo lego, se non lo sposto, c’è abbondantemente il Signore, che  non è mai assente. Non c’è un’altra cosa da cercare. E quando ci incavoliamo, forse, ce la stiamo prendendo con qualcun altro perché non riusciamo a prendercela con noi stessi.

Fedele al desiderio

Gli ultimi versetti sono un finale … che è un inizio. E’ tipico del racconto evangelico di Giovanni: finisce sempre con qualcosa che ne inizia un’altra. L’ultimo versetto di un episodio, di solito, è anche il primo dell’episodio seguente. Dal punto di vista della liturgia Giovanni è molto difficile da tagliare perché lasci fuori o la testa o la coda; gli episodi non sono uno dopo l’altro, bensì un po’ sovrapposti l’uno all’altro, per cui l’ultima vicenda del testo precedente è anche la prima del seguente. Qui c’è la fine di questo episodio, che è l’inizio del seguente: “E Anna lo mandò da Caifa, sommo sacerdote”, che poi lo manderà da Pilato. Ed ecco lo spostamento, la patata bollente che uno rimanda all’altro. Ognuno cerca di incastrare l’altro. E ogni fine apre l’inizio di un altro spostamento, di un altro senso di possesso, di un altro calcolo e, alla fine, la somma di questi calcoli, è un dramma.

La seconda parte del racconto di Pietro è messa in fondo al ‘quadro’, perché anche qui è una rete tra passato, presente e futuro, è una rete di novantanove passi in cui uno si trova al passo successivo quasi senza averlo scelto. “Intanto Simon Pietro stava lì a scaldarsi”. Riprende da dove l’avevamo lasciato, vicino al fuoco. “Gli dissero: ‘Non sei anche tu dei suoi discepoli?’ Egli negò e disse:’non lo sono? Ma uno dei servi del sommo sacerdote, parente di quello a cui Pietro aveva tagliato l’orecchio, disse: ‘Non ti ho forse visto con lui nel giardino?’ Pietro negò dinuovo’  – e qui c’è la fine che è un inizio –  e subito un gallo cantò”.

Anche qui è il legame con un passato: la predizione che, secondo il racconto evangelico, Gesù aveva fatto a Pietro e il gallo che canta. Tutti sappiamo bene che effetto fa quando una cosa, non una parola, né una scelta, ma una cosa, ci si para davanti mostrandoci una verità di noi. E’ accaduto a tutti, credo. Spesso sono cose minime, una sensazione, un suono, una memoria, qualcosa che mi si mette davanti e improvvisamente mi ricordo di che cosa avevo desiderato, mi ricordo perché ero arrivato fino lì, sento la stessa forza che avevo sentito molto tempo prima. In quei momenti uno ha un mondo che si spalanca. Noi siamo molto bravi, in quei casi, a dire: no, sono troppo emotiva, bisogna non farsi prendere dall’emozione; dunque afferriamo, leghiamo, spostiamo, facciamo l’operazione di trasformare il tutto in un incontro sbagliato. Non sappiamo che cosa ha fatto Pietro. Nei sinottici si dice che pianse; Giovanni  non ce lo dice; non sappiamo qual è il mondo interiore che Pietro ha affrontato di fronte a questa situazione, ma sappiamo che alla fine della fiera Pietro è rimasto. Dunque non deve avere afferrato, legato, spostato troppo questo sentimento che il canto del gallo gli ha posto davanti: la memoria di un suo desiderio antico, della passione e dell’entusiasmo con cui aveva detto “io non ti tradirò mai!”

Pietro non fa una bella figura; in tutta questa storia fa molta confusione, ma ha il coraggio di varcare la soglia tra dentro e fuori ed ha il coraggio di non afferrare, di non legare, di non spostare, bensì di rimanere fedele ad un desiderio che una cosa – un gallo che canta, non delle parole – gli ripropone. Fedele ai suoi desideri, prima o poi trova la sua strada. Non si perde, non si confonde; fa dei giri lunghi, ma prima o poi trova la strada. Questa è la condizione per incontrare il Signore nella nostra vita: rimanere fedele al desiderio, non spostare, non calcolare, avere il coraggio di continuare a passare questa soglia tra dentro-fuori, anche di fare degli errori, pazienza, ma rimanere capaci di ascoltare le parole nelle sinagoghe e nelle piazze, nella certezza che il Signore non fa mai mancare queste parole che prima o poi ci raggiungeranno.

Fossano, 9 febbraio 2008

(testo non rivisto dal relatore)

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