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8 Dicembre 2007
Stella Morra

3. Una vita paralizzata

Commento a: Gv 5, 1-18


Premessa

I primi due testi – l’incontro a Mamre e la costruzione del vitello d’oro – ci hanno accompagnato, prima, ad una descrizione di come funzionano gli incontri, di noi, della vita com’è, e, poi, dell’aspetto più ombroso, di separazione degli  incontri. Oggi facciamo un passo avanti, in clima col Natale a cui ci avviciniamo; da qui in poi i testi sono tratti dal Vangelo di Giovanni e poi dagli Atti. Entriamo,cioè, in una dimensione che tecnicamente si dice ‘cristologica’, l’incontro con Cristo, la buona notizia. Rispetto agli incontri noi funzioniamo in un certo modo – come è stato descritto nei primi due incontri -, ma c’è di più perché il contenuto della buona notizia è: noi non siamo tutti lì. Quello che si vede di noi, ciò che si sperimenta, anche di più profondo, non dice fino in fondo la nostra verità. E questo è l’elemento liberante, la notizia che è buona: non siamo tutti lì, c’è di più. Un modo per tradurre la vita eterna è: il meglio deve ancora venire… e verrà! Non c’è dubbio. Entriamo in questa dimensione cristologica dell’incontro e vedremo come Gesù incontra e si fa incontrare, per cercare di capire, o almeno di intuire, rispetto agli incontri, che cosa vuol dire che non siamo tutti lì.

Una soluzione è sempre possibile

Il testo di oggi, dal capitolo 5 del vangelo di Giovanni, è molto conosciuto. E’ il racconto della guarigione dell’uomo paralitico, con la presenza un po’ magica dell’angelo che viene ad agitare le acque, e la gara per cui il primo che si immerge viene guarito. Probabilmente abbiamo memorizzato meno la seconda parte del testo, la discussione sul sabato.

Una vita paralizzata, il titolo  di questa lectio. A me il testo piace molto per il suo colore fondamentale: l’immagine delle molte possibilità, e nessuna sembra funzionare. La vita di quest’uomo è paralizzata su un lettuccio, nemmeno la magia degli angeli riesce a smuoverla in trent’otto anni; quando la vita media ne durava cinquanta scarsi, trent’otto vuol dire tutta una vita! Una vita bloccata, in cui il desiderio rimane assolutamente forte, ma sembra davvero non poter succedere niente. Non solo, ma anche la legge è contro quest’uomo e la sua vita paralizzata: dalle magie alla legge tutto cospira contro di lui. Eppure questa vita si muove e ‘prende su’, si fa carico.

Il colore fondamentale del brano è il piede giusto su cui cominciare per indagare un po’ su quello che la scrittura ci dice circa gli incontri. Un incontro è sempre l’annuncio che non è vero che non c’è soluzione. Quando tutto sembra cospirare per lasciare tutto fermo, non è mai vero. L’unica realtà da cui noi sappiamo che non è vero, sono gli incontri, non c’è un’altra strada. In generale tutti gli incontri, in particolare l’incontro con Gesù, mostrano che non è mai vero che non si può uscirne.

Questa è forse la prima dimensione su cui riflettere per riceverne una buona notizia rispetto agli incontri, e per non essere solo descrittivi.

In fondo c’è un problema anche di età, la crisi della mezza età, in cui hai la sensazione che il grosso è andato; certo puoi fare ancora belle cose, puoi avere belle soddisfazioni e gioie dall’esistenza, ma c’è un momento in cui ti rendi conto che, bene o male, quello che sei, sei e non riesci più a pensarti come da adolescente, quando tutto ti sembrava possibile. Credo che la porta da cui entriamo in un atteggiamento di fede, di accoglienza di una buona notizia, sia: questo pensiero non è mai vero. E’ vero che noi costruiamo realtà, è vero che ci sono alcune cose che sono scelte, ci sono alcune cose che non faremo più, ma la nostra vita è più grande e, davvero, il meglio deve ancora venire, è davanti a noi, non dietro. La nostra fede non è nel paradiso terrestre, ma nel ritorno del Signore, non è dietro le nostre spalle, ma davanti a noi, dunque il meglio deve ancora venire. E avrà delle forme che solo Dio sa, non sappiamo come sarà domani, o tra un mese o un anno.

Che questa idea sia condivisa nel giorno della festa dell’Immacolata è una bella coincidenza. Maria mostra come tutti siamo stati amati da Dio, pensati come ‘tutti belli’. Tutti siamo stati concepiti da Dio a misura del destino che ci attende e, dunque, bisogna fare un esercizio di fede, credere che il meglio deve ancora venire.

Il percorso … nella perseveranza

Mi fermerò un po’ sul primo versetto, quello che normalmente si salta, perché è veramente il titolo. Come abbiamo detto tante volte, i testi antichi non mettevano il titolo separato perché risparmiavano spazio, lo scrivevano nel primo versetto e poi andavano avanti. Noi abbiamo aggiunto, per esempio nella Bibbia di Gerusalemme, dei titoletti e tutto il resto è diventato testo. In realtà, normalmente, l’intenzione del testo sta nel primo versetto. Qui il primo versetto sembra apparentemente non aver niente a che fare con il racconto, pare piuttosto una specie di premessa che si può saltare.

“Vi fu poi una festa dei Giudei e Gesù salì a Gerusalemme”.

Forse, con le associazioni che facevamo prima, si può capire: anche per Gesù il meglio doveva ancora venire, ed è il suo salire a Gerusalemme, che è in alto, e salire sul Golgota e poi sulla croce, perché questo era il luogo dove sarebbe fiorita la risurrezione. Le salite di Gesù a Gerusalemme sono, in Giovanni, una delle chiavi letterarie, ed indicano l’inizio di un nuovo percorso. Il vangelo di Giovanni è organizzato secondo le tre salite di Gesù a Gerusalemme. Qui Gesù sale a Gerusalemme per una festa; da buon ebreo va al tempio per una ricorrenza liturgica; la festa lo attende. Gesù si mette in cammino perché la sua strada lo conduce verso la volontà del Padre e, senza dubbio, lo condurrà alla risurrezione. La sua strada è importante, ed il vangelo ci racconta tutto quello che gli succede lungo la strada, fino alla croce. E le nostre vite dovrebbero essere sotto questo segno: andiamo verso un destino certo di vita, ma è importante anche ciò che succede durante il percorso, nella salita.

  “V’è a Gerusalemme, presso la porta delle Pecore, una piscina, chiamata in ebraico Betzaetà, con cinque portici, sotto i quali  giaceva un gran numero di infermi, ciechi, zoppi e paralitici”.

Giovanni è molto preciso, ha una mentalità da storico e mette tutti i particolari, i dati, i nomi, perché ha forte il senso che le cose accadono dentro una carne, dentro una storia. Io mi chiedo spesso se a noi ogni tanto non accadano le cose perché non sappiamo dove siamo, non sappiamo di noi qual è il punto del nostro percorso, qual è la malattia che ci affligge, o qual è il desiderio che ci abita, o da quanto tempo stiamo aspettando. Nel vangelo di Giovanni spesso le figure della fede sono figure di attesa, o piuttosto, di gente che non se ne va.  Questo personaggio, paralitico, da trent’otto anni sta lì; l’adultera, dopo che se ne sono andati tutti, non alza la testa e sta lì; la Maddalena, quando non trova il corpo di Gesù, i discepoli tornano a casa, e lei sta lì a piangere e chiede a tutti: ‘Dov’è il corpo del mio Signore?’.

Nel vangelo di Giovanni la figura della fede è questa, di ostinazione su un desiderio;  quello che ci compete è la durata nel tempo, la storia, non le soluzioni. Le soluzioni sono competenza di Dio, quello che spetta a noi è perseverare, non mollare di chiedere verso l’unica soluzione che conosciamo; se poi la domanda è sbagliata non importa, Dio farà la cosa giusta. La fede, l’intelligenza, il cuore, dicono a Maria di cercare il corpo del Signore per un’opera di sepoltura; all’adultera che questo è l’unico uomo che non l’ha maledetta, dunque è meglio stare lì; al paralitico dicono che se c’è una speranza è nell’angelo, non ce n’è un’altra, dunque sta lì… Per Giovanni, molto più che per i discepoli, la figura della fede è questa, dell’ostinazione. Nel vangelo di Giovanni i discepoli fanno sempre la figura di quelli che non capiscono. Nel caso della Samaritana Gesù ha sete e loro sono andati a comprare da mangiare; nel caso della tomba vanno, vedono, non capiscono e tornano via; sotto la croce non ci sono… Sono sempre nel posto sbagliato al momento sbagliato. Io sono colpita dall’idea che la fede sia una forma di perseveranza ostinata secondo noi stessi, per la soluzione che vediamo noi; non siamo responsabili di ciò che non sappiamo.

La descrizione di Giovanni di questi infermi che si trovano vicino alla piscina, è segno di un’abitudine diffusa nell’antichità quando non c’erano ospedali e i luoghi di cura, spesso, erano legati alla presenza di acque; acque termali che avevano proprietà benefiche, acque simbolicamente rigeneratrici, ma anche semplicemente acque che consentivano un’igiene non possibile altrove, perché non c’era acqua corrente. Secondo l’abitudine greca i luoghi di cura erano tutti dei santuari e non c’era un confine così netto tra scienza e magia. Non stupisce che, anche in Gerusalemme, seppure vicino al tempio del Dio unico, ci fosse un luogo legato ad una piscina, che riportava a culti precedenti, ad abitudini antiche, un po’ secolarizzato –gli ebrei non potevano sopportare il culto della guarigione -, e doppiamente prezioso, perché posto in un territorio non molto ricco d’acqua. E lì giace un gran numero di infermi, che sono ciechi, zoppi e paralitici: le grandi malattie dell’antichità. Nel vangelo le guarigioni riguardano quasi sempre queste, che sono le malattie che si vedono. Noi oggi abbiamo malattie più nascoste e segrete, perché abbiamo migliorato gli strumenti di diagnosi. In un tempo in cui il male era ciò che si vedeva, le malattie erano ciechi, zoppi e paralitici.

Ed è interessante che nei quadri che ringraziano per i miracoli, nelle litanie, nelle preghiere popolari siano ricorrenti queste figure di malanni esterni, facilmente riconoscibili; noi, oggi, siamo di fronte a malanni molto più segreti, che purtroppo non si vedono tanto, e questo ci mette in un mondo molto simile e molto diverso. E’ diverso essere ammalati fuori o essere ammalati dentro, e non solo dal punto di vista medico! Una società ricca, opulenta come la nostra, che ha allungato la vita in modo enorme, in grado di affrontare il novanta per cento dei malanni base che erano pesanti e rendevano la vita difficile fino a cinquant’anni fa, è però una società che ha sviluppato una necessità di psicoterapia diffusa. Tutti siamo un po’ più ammalati dentro.

Questa immagine del gran numero di infermi, ciechi, zoppi e paralitici che giacciono lì di fronte all’acqua mi fa pensare al rapporto che esiste tra l’essere ammalati fuori e l’essere ammalati dentro, e mi chiedo di che angelo avremmo bisogno, quali acque dovrebbero essere agitate. In fondo, se uno è zoppo e viene agitata l’acqua, è semplice immergere la gamba che fa male. Che cosa dovremmo immergere noi? Forse sarebbe già una buona domanda per tentare di essere guariti!

Incontro: benedizione e minaccia

C’è poi la spiegazione. “Un angelo infatti in certi momenti discendeva nella piscina e agitava l’acqua; il primo ad entrarvi dopo l’agitazione dell’acqua guariva da qualsiasi malattia fosse affetto”.

E’ una guarigione magica, funziona, fa bene a qualsiasi tipo di malattia, ma scatena una competizione: solo il primo che scende nell’acqua guarisce; dal secondo in poi non guariscono più. E questo è il problema del paralitico, che, proprio per la sua malattia, non riesce mai ad arrivare per primo. E’ come se l’antica competizione tra Caino e Abele segnasse drammaticamente tutta la vita dell’umanità, anche nei luoghi di benedizione. Non c’è posto per tutti. E’ come se l’origine che ci ha dato vita non fosse in grado di garantire un posto uguale per tutti. E questo scatena la fraternità costosa che tutti viviamo, a cominciare dal primogenito e secondogenito che, molto prima dell’età della ragione, sono gelosi uno dell’altro, perché la percezione è che il posto del primogenito sia insidiato da un altro che sottrae tempo, attenzione, affetto… Da lì in poi è per tutti così: ognuno di noi vive l’incontro con l’altro come benedizione e minaccia nello stesso tempo. E’ interessante: da una parte c’è competizione e salvezza solo per il primo; dall’altra il problema del paralitico è: non ho nessuno che mi immerga. E’ la doppia faccia dell’incontro: se non c’è qualcuno con te che ti aiuti, non hai speranza di vincere, ma anche gli altri che ci sono, che competono con te, ti tolgono la speranza di vincere.

E viene un angelo. Chi mi conosce sa che ho una grande passione – molto precedente alla moda new age – per gli angeli presenti nella scrittura, che sono sempre queste figure passanti – questa è la loro caratteristica fondamentale, entrano in scena da una quinta, attraversano il palcoscenico ed escono dall’altra; e non sai cosa succede né prima né dopo. Sono figure passanti, sono degli indicatori. Indicano qualcosa per parte di Dio, passano e se ne vanno; e tu rimani lì a bocca aperta perché hai un’indicazione, ma non puoi chiedere spiegazione, non sai chi è l’interlocutore, non è nemmeno di prima battuta – te l’ha detto un angelo e non Dio stesso. Gli angeli funzionano così, sono una figura trasparente, vuota, che rimanda ad altro; una figura che passa e che bisogna cogliere come un tempo efficace. Nella lettura che abbiamo sentito nella liturgia di oggi, il racconto dell’Annunciazione, c’è l’angelo Gabriele che fa tutto il suo discorso e poi se ne va, e Maria rimane nei guai con tutte le sue domande e le questioni che si mettono in moto da lì in poi. Gli angeli sono strani personaggi perché in genere mentono, sono immorali, trasgrediscono tutte le leggi, perché vengono da parte di Dio, hanno un incarico, passano e se ne vanno. Questo accade normalmente nella nostra esistenza. Qui l’angelo è l’immagine della gratuità, della possibilità di una guarigione, ma anche il segno della sua impossibilità – il paralitico non ce la fa ad essere il primo. Ma l’angelo è dato a tutti. Poi arriva Gesù, che non è un angelo, non è passante ma rimane, e guarirà, e non scatena competizione; non guarisce il primo e non gli altri, guarirà tutti coloro che incontrerà sulla strada. L’angelo è una figura un po’ ambigua che fa parte della nostra storia. La domanda sarebbe: com’è che non incontriamo più angeli? Forse dovremmo chiederci come sono oggi, come si riconoscono, che faccia hanno, quali sono le parole passanti che ci attraversano quasi senza darci una spiegazione.

“Si trovava là un uomo che da trent’otto anni era malato”.

Giovanni, che è sempre così preciso, non dice il nome di quest’uomo; la sua qualifica è essere malato da trent’otto anni. Il numero trent’otto non è usato a caso, richiama gli anni in cui gli israeliti hanno vagato nel deserto, secondo il Deuteronomio. Noi diciamo sempre quarant’anni; in realtà, secondo Deuteronomio, sono trent’otto; secondo Esodo quaranta. Secondo Deuteronomio sono trent’otto, perchè bisogna contare l’ultimo anno in cui erano ancora in Egitto e il primo  nella terra promessa in cui non mangiano ancora i frutti che hanno coltivato loro, e si arriva così ai quaranta del deserto.

Giovanni cita Deuteronomio: quest’uomo è uscito da una schiavitù, ma non è ancora entrato nella terra promessa. E’ uscito dalla schiavitù di pensare che non potrà guarire, è arrivato alla piscina, può sperare la guarigione, ma non può ancora entrare nella terra promessa perché non riesce a guarire. E sta in mezzo a queste due cose: non è schiavo della storia così com’è, ma non ha ancora visto risultati. E su questo lo sentiamo tutti gemello, nel senso che probabilmente, se siamo qui, siamo usciti da un’immagine infantile e onnipotente della nostra vita e forse non siamo ancora entrati in un tempo di guarigione, da essere così sapienti da non aver più domande da porre alla scrittura e stiamo vagando in un deserto ostinatamente, forse trent’otto anni, perchè non siamo più schiavi, ma non siamo ancora liberi. Ecco la tentazione ricorrente di dire, come penso sia successo agli ebrei: ‘ma in fondo le cipolle d’Egitto non erano poi così male!’. Se uno riuscisse a non farsi tanti problemi, a prendere la vita così com’è, a rimanere schiavo condizionato della propria esistenza: in fondo non va neanche così male; di solito succede quando la situazione si fa più dura  pensiamo che in fondo non va poi così male, perché porci tanti problemi? L’ostinazione di quest’uomo dovrebbe farci compagnia, a guardare altri che entrano per primi e guariscono.

Fedeltà al desiderio

E il suo grido è meraviglioso! “Io non ho nessuno che mi immerga nella piscina”. Avrebbe potuto dire: ma perché sono paralitico? Invece dice : io non ho nessuno. E’ fedele al suo desiderio. Il suo problema non è che è malato, ma che non è guarito. Se siamo qui non abbiamo più il problema di essere malati, forse siamo arrabbiati per non essere guariti, ma non ce la stiamo più pigliando  con la malattia di origine. Ed è un grande passo avanti.

“Gesù vedendolo disteso e, sapendo che da molto tempo stava così, gli disse. ‘ Vuoi guarire?”. Due sottolineature molto veloci: Gesù, quando incontra qualcuno, fa sempre delle domande. Gli incontri con Gesù non sono mai una risposta; in genere non spiega e quando spiega non si fa capire – a Nicodemo fa il discorso del nascere di nuovo, alla Samaritana il discorso sulla fonte di acqua viva …– e i suoi interlocutori non capiscono, però va bene così. La questione è che lui arriva a piedi uniti, entra in una vita e fa una domanda. Questo nelle nostre teste di credenti non entra mai; noi ci aspettiamo sempre che l’esperienza della fede  sia avere una risposta, un senso, una direzione. Invece mettersi dalla parte della sequela di Gesù significa accollarsi un guaio, avere sempre qualcuno che ti fa una domanda e che in genere, tra le varie possibili, ti fa l’unica che non vorresti sentire. Non ti chiede come va, com’è il tempo, ma, a quest’uomo che da trent’otto anni sta tra la schiavitù della malattia e la mancanza di guarigione, dice: Vuoi guarire? Gli chiede sulla verità del suo desiderio, della sua ostinazione. E la grandezza  di quest’uomo, come di tutti coloro che incontrano Gesù nel vangelo, è nel non sottrarsi alla domanda, non nella qualità di ciò che risponde. Ognuno risponde a modo suo, con ciò che ha e che sa. Il paralitico non si tira indietro. Dice esattamente la cosa profonda: “Signore, io non ho nessuno che mi immerga nella piscina quando l’acqua si agita”.

Questo breve dialogo: “Vuoi guarire?” “Signore, io non ho nessuno…” personalmente a me fa compagnia da molti anni, e mi ritorna in molte occasioni; risento questa domanda, che in genere divide i desideri veri da quelli falsi, quelli che durano da trent’otto anni e quelli che invece sono un’improvvisazione del momento. E, smascherati questi desideri, sono costretta a dire cosa mi manca per quel desiderio. A quest’uomo, paralitico, non mancano gambe buone, che pure non ha, ma dice: io non ho nessuno.

Forse varrebbe la pena fare una piccola sottolineatura sull’agitare le acque, nel senso che il passaggio della guarigione passa attraverso acque agitate. Non è male come immagine! Cioè, passa attraverso una piccola tempesta; non si può sperare di guarire a costo zero, nella bonaccia e non si può nemmeno sperare di guarire senza cambiare niente, bisogna agitare un po’ le acque, scompaginare un po’ di equilibri.

Guarire: farsi carico di sè

“Gesù gli disse: ‘Alzati, prendi il tuo lettuccio e cammina”. Come vediamo, questo prendi il tuo lettuccio diventerà una questione decisiva. Giovanni deve metterla lì perché, se gli dicesse solo alzati e cammina, non potrebbe poi mettere la polemica sul sabato, perché di sabato non è proibito né alzarsi né camminare, ma portare una cosa sì. Ma è anche una bella immagine. Costui, che se ne stava disteso da trent’otto anni, può prendersi carico della cosa stessa su cui stava disteso, può farsi carico di se stesso. Che forse è il vero significato della guarigione: libero dalla schiavitù, dal non poter camminare, trent’otto anni a desiderare la guarigione e la guarigione, forse, è farsi carico di sé. Ma è anche bello che Gesù parla con autorità, usa una parola come quella di Dio che crea: dice una cosa e quello fa. Dio disse sia la luce e la luce fu. Gesù disse alzati e quello si alzò. E’ una parola potente, creatrice, ma anche di movimento e di futuro. Prendi il tuo lettuccio e cammina… Verso dove? Per fare che? E soprattutto, che se ne fa uno di un lettuccio da paralitico, se non è più paralitico, perché deve portarselo dietro? Perché non può gettarlo via? Questa parola di guarigione è anche una parola di raccolta: non si getta nulla. Oggi noi diremmo che, forse, il segno della nostra guarigioni interiori è quando cominciamo a poter benedire le nostre ferite, quando consideriamo una fortuna essere stati, in alcuni passaggi, così male! E benediciamo di essere guariti – non sani – perché questo ci ha dato misericordia.

“E sull’istante quell’uomo guarì e, preso il suo lettuccio, cominciò a camminare”.

Il verso dove, non importa a nessuno, né a Gesù, né a lui. Noi ci aspetteremmo, in una lettura moralistica,  che la discriminante sia sapere dove va. E poi c’è un’interruzione nel racconto: finisce l’evento e inizia la discussione sull’evento. Giovanni, che è un grande costruttore di testi, ci mette in evidenza la differenza tra questa, che è una parola di salvezza, e quella dopo, che è una parola che uccide. Volevate un esempio, eccolo: due quadri di un dittico. Apri un quaderno e su una pagina trovi la fila dei buoni, nell’altra la fila dei cattivi. Nel racconto fin qua vediamo come funziona una vita che fiorisce, con la guarigione misteriosa e, paradossalmente, senza spiegazioni, senza giudizi – non c’è distinzione, tutto viene usato, nulla viene gettato, tutto è raccolto e contribuisce al passaggio, come nel deserto le quaglie, la manna… tutto è raccolto, anche le mormorazioni, per arrivare dall’uscita dalla schiavitù fino alla terra promessa, ad una vita fiorita e in fondo non c’è problema … E poi Giovanni dice: come si può creare un sacco di questioni? Ecco ve lo faccio vedere, ed ecco l’altra metà, che è tutta di parole, nessuna autorevole, nessuna fa quello che dice. Sopra ci sono poche parole, comprese quelle del paralitico, ma tutte fanno quello che dicono. Dopo ci sono un sacco di parole, a vuoto, senza conseguenze, tutte inefficaci. Secondo, tutte preoccupate di gettare via, distinguere, valutare, tutte preoccupate di dire questo sì, questo no.

Parola potente e parola di divisione

Comincia così il secondo quadro del dittico: “Quel giorno però era un sabato”. Come se questo particolare, in una guarigione, fosse un dramma. Noi diremmo: guarda che bel racconto, una fioritura di vita, proprio nel giorno del Signore! “Dissero dunque i Giudei all’uomo guarito: ‘E’ sabato e non ti è lecito prender su il tuo lettuccio”.  Si occupano dell’unica cosa che non c’entrava niente né col desiderio del paralitico, né con la domanda di Gesù, né con la vita di quell’uomo. In fondo l’aspetto apparentemente meno importante! Ma, abbiamo visto, la parola di Gesù: prendi su il tuo lettuccio, è l’opzione di metodo che niente si butta. Quello che loro stanno dicendo, invece, è: ci sono cose da buttare ed altre da tenere. E’ una parola di divisione.

“Ma egli rispose loro: ‘Colui che mi ha guarito mi ha detto: ‘Prendi il tuo lettuccio e cammina”. Contrappone alla loro questione la parola affermativa ed efficace di Gesù. Lui, che non aveva nessuno, ha incontrato uno che gli ha detto una cosa vera e  non ha intenzione di metterla in discussione. Fa come gli è stato detto.

Ma poi viene il punto geniale: “Chi è stato a dirti: ‘Prendi il tuo lettuccio e cammina?’ Ma colui che era stato guarito non sapeva chi fosse”.  E qui tutte le nostre belle dissertazioni sulla fede, l’essere o meno religiosi, da questa parte o dall’altra, vanno tutte a farsi friggere. Colui che era stato guarito non sapeva chi fosse. Così come nel vangelo di Matteo, al capitolo venticinque, quando si racconta del giudizio universale, si dice : Il Padre dirà, venite benedetti perché avevo fame, avevo sete… e mi avete dato da mangiare, da bere… e: via da me maledetti, perché avevo fame, avevo sete e non mi avete dato da mangiare…” gli uni e gli altri fanno la stessa domanda: quando, Signore? Non sapevano chi fosse!

La comunità ebraica romana ha un’antica tradizione, per cui in occasione delle grandi feste religiose fanno particolare carità a barboni che stanno nella zona di un certo ponte di Roma, perché la tradizione della comunità romana tramanda l’idea che il Messia riapparirà come un povero sotto quel ponte, e allora, nel dubbio, beneficano tutti – non si sa mai; se uno di quei barboni fosse il Messia…   E’ un’antica usanza. Ed è l’atteggiamento di chi sa che il meglio deve ancora venire. Non è importante chi è. E’ l’esatto contrario di ciò che facciamo noi normalmente: ti dico questo perché io so… Qui è in gioco l’efficacia delle cose che vengono dette, che le cose accadono. E se le cose accadono, cosa importa sapere chi è! E che importa sapere se quest’uomo ha avuto o no, prima o dopo, fede in Gesù! Nei racconti evangelici non viene mai detto cosa succede dopo. Cosa succede dopo al giovane ricco, a Nicodemo? Non lo sappiamo. Chi ascolta questa parola poi la segue, non la segue? Su queste cose sono scritti romanzi, perché tutti sono un po’ incuriositi dal sapere come è andata a finire. Ma questo non è l’interesse del vangelo perchè il problema non è se dopo diventerà un discepolo o no. Il problema è cosa gli è successo in quel momento, e non importa che lui sapesse o no che costui era Gesù.

“…Gesù infatti si era allontanato, essendoci folla in quel luogo. Poco dopo Gesù lo trovò nel tempio…” Lui non sa chi è, Gesù si è defilato, non cerca la prima pagina, ma è Gesù che torna e lo trova. E’ sempre Gesù che ci trova. Il problema non è che noi sappiamo chi è Gesù; l’importante è che lui sappia chi siamo noi. Se lui sa chi siamo noi, basta, siamo tranquilli; il resto non è un problema nostro. Il problema non è se noi crediamo in lui, è che lui creda in noi. Se lui crede in noi, basta, non c’è un altro problema.

Dunque Gesù si era allontanato, poi lo trova. “Ecco che sei guarito; non peccare più” Entra in questo scambio di parole, ma non per dire, il sabato non è così importante… non entra nella polemica, entra nella situazione e dice all’uomo l’unica parola che, ancora una volta, è significativa: Sei guarito, non peccare più. Non c’è un’altra cosa da dire. Non c’è giustificazione o spiegazione da dare sull’agire di sabato, la legge….

“Quell’uomo se ne andò e disse ai Giudei che era stato Gesù a guarirlo. Per questo i Giudei cominciarono a perseguitare Gesù, perché faceva tali cose di sabato”. Viola la legge. “Ma Gesù rispose loro: ‘Il Padre mio opera sempre e anch’io opero”.

E così, due motivi per perseguitarlo: perché fa tali opere di sabato e perché, si dice, chiamava Dio suo Padre. Della serie: si può essere paralitici per trent’otto anni, desiderare di guarire, ricevere una parola efficace e guarire; e si può essere dotti e sapienti di Israele, non voler sentire quello che viene detto, e ricavarne un doppio motivo di condanna. E questo non riguarda tanto o solo gli ebrei, riguarda ciascuno di noi, che tipo di incontro mettiamo in opera: quello di colui che ha una legge e su questa giudica se è lecito o no fare una certa cosa e, anzi, da un incontro ricava un motivo di condanna ulteriore. Prima non ero d’accordo con te per un motivo e ora per due, perché siccome mi hai anche parlato, ho due motivi per non andare d’accordo.

O siamo spostati sulla nostra malattia, sul nostro desiderio, sulla nostra ostinazione e perseveranza – e non su quelli degli altri – che non accetta di rimanere nel deserto, ma desidera essere guarito e dunque possiamo ricevere da qualsiasi incontro una parola salvifica e non importa se sappiamo chi è colui che l’ha detta. Questa mi pare la differenza dei due quadri.

Per chiudere vorrei leggere alcune righe di un testo già usato negli incontri anni fa, che può esserci utile. E’ tratto da un libro di Formenti e parla degli angeli.

“L’angelo non appartiene al tempo, ma ne è l’amoroso custode… La sua pazienza non è meno sconfinata della sua memoria. L’angelo ascolta, osserva, scruta nei minimi dettagli tutto ciò che avviene. La sua attenzione è vigile e lucida come quella di colui che deve sorvegliare, ma è pacata, perché l’angelo sorveglia senza mai agire. Egli non può agire, perché appartiene al vuoto, abita gli intervalli, le soglie, gli incroci, il regno di mezzo fra essere e non essere, le dimensioni fluide e spettrali che separano un elemento dall’altro.

…L’angelo aspetta che avvengano i miracoli. Aspetta che i piccoli scarti, le biforcazioni, le deviazioni infinitesimali della materia generino il nuovo… Un tempo l’angelo aveva un nome: i greci lo chiamavano Hermes, il messaggio degli dei. Oggi noi non sappiamo più come chiamarlo. Ma forse è meglio così: colui che è senza nome e senza volto, può assumere tutti i volti e tutti i nomi della divinità. E questo è l’aspetto più adeguato per un angelo che debba convivere con la modernità. L’angelo ha indossato la maschera del viaggiatore, di una entità vaga e inafferrabile, che quasi scompare per risolversi nel suo eterno movimento… L’angelo aspetta che si realizzi il miracolo più grande: aspetta che gli uomini… riescano nuovamente ad avvertire il soffio impalpabile della sua presenza, e che tornino a trovare nomi e immagini per la divinità che non cessa di chiamarli da un futuro imprecisato”.

C. Formenti, Piccole apocalissi. Tracce della divinità nell’ateismo contemporaneo, Milano, 1991, pp. 191-192.

Fossano, 8 dicembre 2007

(testo non rivisto dal relatore)

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