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12 Febbraio 2005
Stella Morra

4. DA DOVE VIENE IL NOSTRO CIBO?

Commento a: 1 Re 19, 1-18


Premessa

Il testo di oggi mi pare si adatti bene al periodo quaresimale che è iniziato proprio in questi giorni.

La volta scorsa, commentando il testo riguardo alla manna, abbiamo insistito sulla necessità di uscire dalla logica dell’Eucaristia come ‘puro atto celebrativo in sé’ – momento specifico che comincia quando si entra in chiesa e finisce quando se ne esce – e ricominciare a costruire un ambito significativo per quella celebrazione.

Non vuol dire che la celebrazione non conta, che basta pensarci… No, la celebrazione, l’atto oggettivo dell’Eucarestia conta! Ma dobbiamo ricostruire un ambito in cui questo atto sacramentale abbia un significato per comprenderlo fino in fondo e non farlo diventare una specie di strana magia, un atto più o meno incomprensibile, in cui si dicono parole e si fanno gesti strani, e la cui efficacia reale sta solo nel mio cuore: se sto concentrato, attento, ascolto bene la parola di Dio e l’omelia, quando esco sono più buono, o un atto con una sua logica, dove ciò che conta è solo quanto io sto attento, imparo, ci credo… dove il soggetto sono sempre solo io.

L’altra volta, cercando di ragionare sull’espressione ‘atto significativo’, dicevo che nella nostra vita facciamo sempre meno esperienza di atti significativi e, facendone pochi, quando diciamo che l’Eucaristia è un atto significativo, non sappiamo cosa immaginarci.

Gli atti significativi sono atti veri, non immaginati, non esistono solo nell’intenzione, ma hanno una loro consistenza oggettiva, ed il loro peso va oltre l’atto puntuale della loro consistenza oggettiva. E’ un atto reale, non un semplice pensiero che mi frulla in testa!

Se decido, per esempio, di dare dei soldi ad un amico a cui servono veramente, questo è un atto reale, oggettivo. Ma perché io possa fare quell’atto veramente libero e gratuito, e perchè l’altro possa accettarlo senza offendersi, ci deve essere un prima e un dopo: io devo avere un certo rapporto con il mio denaro, devo conoscere bene quella persona, avere accesso alla sua fatica, e lui deve avere con me una libertà tale che gli consenta di accettare il denaro senza sentirsi umiliato. Perciò quell’atto non sta solo nel gesto materiale di staccare un assegno, anche se non basta che io lo pensi, devo farlo materialmente!

C’è un rapporto stretto tra l’atto in sé, che deve esserci, che ha una consistenza materiale, reale, oggettiva, e tutto ciò che è prima e dopo quell’atto, tutto il nostro modo di essere con noi stessi, di rapportarci con l’altro, con quell’oggetto…

Un atto significativo è un atto complesso che ha una sua consistenza, una sua realtà, una oggettività che fa da discriminante: se quella non c’è, l’atto non c’è, è solo pensato, sognato, desiderato, augurato, ma non è reale!  Contemporaneamente l’atto significativo non appoggia tutto il suo peso solo in quel gesto, ma richiede un prima e un dopo di un certo genere, un prima e un dopo con me stesso, con gli altri, con le cose.

Nell’esperienza cristiana i sacramenti sono atti significativi, che devono esserci. Ci vuole una celebrazione eucaristica, un tempo preciso in cui si fanno dei gesti, si dicono delle parole, che non appoggiano però tutto il loro peso solo in quell’atto puntuale; hanno un prima e un dopo di rapporti tra me e Dio; ma se questi non sono a posto, quell’atto oggettivo rischia addirittura di produrre il contrario, rischia di essere ‘un assegno buttato in faccia ad una persona per umiliarla’ l’esatto contrario di aiutare!

Simbolico e reale

Facciamo attenzione all’uso della parola simbolico. Già dai tempi di Berengario, nel milletrecento, c’è una grossa discussione sull’uso della parola simbolico rispetto all’Eucaristia.

Da lì, dal dibattito di Berengario sul simbolico e reale, viene – ce l’hanno insegnato al catechismo – la presenza reale del corpo di Cristo nell’Eucarestia; solo che a quel tempo simbolico e reale volevano dire una cosa diversa. Non so che cosa pensiate voi quando dite che nell’Eucaristia c’è la ‘presenza reale del corpo di Cristo’… Forse non approfondiamo abbastanza, pensiamo che lì c’è la presenza di Gesù che viene nel nostro cuore… In che senso?… A quel punto è in senso metaforico… e non sarebbe più una presenza reale, sarebbe una presenza metaforica…!!

I termini simbolico e reale sono molto cambiati nel loro uso. Nella nostra testa simbolico sarebbe il contrario di reale: se ti do un assegno di cinque milioni è un aiuto reale, se ti mando una scatola di cioccolatini è un pensiero simbolico, una gentilezza che  non ti cambia la vita, se hai un bisogno reale! Per noi simbolico è un qualcosa tra poetico, artistico, sentimentale, positivo, ma non reale! In teologia le parole simbolico e reale non si usano così, è esattamente il contrario.

Faccio un esempio che ci aiuterà anche a ragionare sull’Eucaristia. Di solito diciamo che il corpo è il simbolo dell’’Io’. Quando dico ‘Io’, so che c’è; ma se devo fare incontrare ad un altro il mio io, lo faccio con le mie parole, il mio viso, le espressioni, con tutte cose attinenti al mio corpo. Nessuno può incontrare un io, si incontra una persona, non un io. Eppure quando di me dico ‘io’ so bene a cosa mi riferisco: mi riferisco a ciò che è ‘dentro’ di me, non al mio corpo!

‘Il corpo è il simbolo dell’io’, vuol dire che il corpo è l’unico luogo dove ci è dato di incontrare, toccare, vedere, misurare, conoscere l’io. Non c’è un altro modo, per quanto questo sia limitato. Tutte le volte che non abbiamo abbastanza parole per spiegare quello che sentiamo, sappiamo quanto è limitato, … perché ci mancano le parole. Tutte le volte che uno si guarda allo specchio e scopre l’ennesima ruga ha un problema tra sé e il proprio simbolo, perché sa di avere cinquant’anni, ma dentro se ne sente venti! Sappiamo tutti che realtà e simbolo non sono identiche, ma non c’è un’altra strada: l’altro non si incontra in astratto!

Simbolico e reale funzionano così: quando diciamo che la liturgia in generale e i sacramenti hanno una struttura simbolica, non vogliamo dire che sarebbero come un bigliettino di amicizia, quando l’altro ha bisogno di un aiuto concreto, vogliamo dire che sono l’unico luogo dove si può incontrare ciò che non si può incontrare diversamente: Dio, che resta un mistero, non è mai prendibile da nessuna parte.

Dunque un atto significativo nella maggior parte dei casi è sempre un atto simbolico, poiché un atto significativo riguarda le realtà più profonde della nostra esistenza. Le relazioni, gli affetti, sono tutte realtà immateriali, che per essere mostrate, dette, accolte e riconosciute diventano realtà simboliche, che non vuol dire irreali, vuol dire che hanno un corpo, un luogo in cui l’altro misura il mio interessamento reale a lui.

Simbolico e reale sono una continuità, non un’opposizione. Simbolico non è contrario di reale, ma è il modo in cui incontriamo il reale che non si può possedere, non si può toccare.

Ritmo della liturgia

Il testo di oggi, 1 Re 19, 1-18, si muove su questi temi ed ha una nettissima struttura liturgica. Il protagonista di questo racconto è Elia.

Tante volte abbiamo detto: l’amore di Dio è come il perno, il centro di una ruota, la regge e la fa girare; la ruota è la storia, il tempo dove siamo noi. I raggi della ruota sono la liturgia.

In punti determinati della nostra storia noi abbandoniamo la ruota, il tempo ed arriviamo fino al centro, dove sta Dio, l’Eterno, e di lì guardiamo la storia dal punto di vista di Dio. Poi veniamo rimessi sul raggio, torniamo indietro al nostro punto storico, dove eravamo prima, avendo nel frattempo visto la storia dal punto di vista di Dio.

Questo è il ritmo fondamentale della liturgia: si passa dal tempo all’eterno e si torna al tempo. Questo brano funziona esattamente così: i versetti 1-8 sono la descrizione di una situazione in un tempo; in mezzo, non a caso, c’è un cammino: “…Camminò quaranta giorni e quaranta notti…”… (vers. 8). Dal 9 al 14  c’è la sosta al centro, l’eterno. Con i versetti 15-18 si torna al tempo. E, come vedrete, la situazione non cambia di molto.

La dinamica generale del  testo è sconvolgente, c’è un punto della storia pieno di violenza.

“Acab riferì a Gezabele ciò che Elia aveva fatto e che aveva ucciso di spada tutti i profeti.”.. ed erano quattrocentocinquanta! … che cercano di ucciderlo, lui spera di morire… una situazione disastrata!

C’è questa grande dinamica liturgica: l’angelo, il riposo e il cibo, la presenza di Dio. E poi c’è  il ritorno alla storia che è: ‘ungi una successione’, – così se non li ammazza il primo, lo fa il secondo o il terzo – ancora durissimo! – e la storia continua.

La storia è un luogo di conflitto, non una valle serena; perché possa funzionare ci vuole la grazia di Dio, non funziona ‘di suo’. La storia è basata sulla legge del più forte; la natura funziona secondo le sue leggi, che sono abbastanza spietate!

C’è un momento liturgico, un incontro, e poi si torna alla storia, senza per questo trovare tutti buoni e convertiti; anzi, riparte il disastro, ‘apparentemente non è cambiato niente’! Questa ‘apparente staticità’ è accentuata ulteriormente dall’inclusione dell’incontro con il Signore – che nell’Antico testamento è un incontro potente, molto solenne – e di una domanda e una risposta che sono assolutamente identiche prima e dopo l’incontro con l’eterno:

“Il Signore gli disse: Che fai qui Elia?… Sono pieno di zelo, … sono rimasto solo”. E dopo: ”Il Signore gli disse: Che fai qui Elia? … Sono pieno di zelo, … sono rimasto solo”.

Se a qualcuno venisse il dubbio che un’esperienza liturgica, l’incontro con Dio è una di quelle situazioni in cui entri cattivo ed esci buono, entri con problemi ed esci senza, sbaglia: questo, con il Dio della scrittura, non ha niente a che fare. Più chiaro di così non c’è modo di sperimentarlo. Si esce uguali, quanto alla storia! Certo non uguali su alcuni piani, ma non sono i piani dei problemi, delle cose che si vedono, dei conflitti che si sperimentano.

La fame che apre all’incontro

“Gezabele inviò un messaggero a Elia per dirgli: ’Gli dei mi facciano questo e anche di peggio, se domani a quest’ora non avrò reso te come uno di quelli’.

A chi conosce un po’ la scrittura viene in mente la vicenda di Mosè con l’egiziano: Mosè è pieno di buona volontà, uccide l’egiziano che percuote un ebreo; gli ebrei gli chiedono chi l’ha costituito capo fra di loro, che ora dovranno subire le conseguenze del suo atto, e vogliono ucciderlo.

Qui è la stessa situazione: Elia ha fatto una cosa giusta: ha perseguitato l’idolatria in Israele, ha ucciso i profeti di Baal, ha fatto una cosa giusta, ma il risultato è che gli israeliti vogliono uccidere lui. Questo non dovrebbe stupire particolarmente chi è discepolo di ‘Uno che è morto in croce’!

Noi abbiamo sempre questa ipotesi: se uno è discepolo è contento, le cose gli vanno bene. Tutta la scrittura è testimone che se uno è discepolo le cose vanno male, si viene perseguitati, – uno può anche essere contento nella persecuzione! -, ma noi abbiamo sempre la strana pretesa che la giustizia, la bontà e la fedeltà a Dio siano a costo zero, anzi, che diano un minimo di riconoscimento!

Di solito pensiamo che, pur essendoci impegnati tanto, la gente è ingrata! E’ così, non è strano, sarebbe strano il contrario! Secondo la scrittura questo è molto chiaro. Come abbiamo sentito nelle letture del mercoledì delle ceneri, ‘l’unico giusto si è fatto peccato perché diventassimo giustizia di Dio’, dunque lui, che non aveva niente da pagare, è morto in croce come bestemmiatore e ateo. Perché a noi dovrebbe andare diversamente? Questa è la ‘fame’ senza la quale non c’è cibo che possa nutrirci!

Se uno pensa che, dato che fa le cose giuste, le cose funzionano, e se non funzionano è colpa degli altri che sono malvagi… a cosa serve l’Eucaristia? Che bisogno abbiamo nei confronti di Dio? Basta fare le cose giuste!!

Ma il problema è un altro: l’Eucaristia e tutti i sacramenti sono la grazia per reggere al fatto che facendo le cose giuste, il risultato è la croce!

E’ chiaro che se noi non ci mettiamo mai nella condizione di sperimentare una croce, non abbiamo mai bisogno dell’Eucaristia, non abbiamo mai fame abbastanza! Perché non siamo mai dalla parte di Elia.

Infatti il versetto 3 dice:“Elia, impaurito, si alzò e se ne andò per salvarsi.”

Elia accetta la regola dei discepoli: se ci si mette dalla parte di Dio in genere non se ne ha un risultato di gloria, ma questo non vuol dire stare lì a farsi uccidere, non avere paura…, Elia ha paura e cerca di salvarsi, ma non si stupisce troppo della reazione di chi lo vuole uccidere.

“Egli si inoltrò nel deserto una giornata di cammino e andò a sedersi sotto un ginepro. Desideroso di morire, disse: ‘Ora basta, Signore! Prendi la mia vita, perché io non sono migliore dei miei padri’.”

Questo è il punto: se non c’è un desiderio di questo genere, se non c’è l’esperienza che non è il fare le cose giuste che risolve, noi non ci rivolgeremo mai all’esperienza dei sacramenti come atti significativi.

Solo nella consapevolezza di: non sono migliore dei miei padri  – non è casuale questa frase  Ora basta!” – solo lì si può innestare l’incontro con Dio, come solo tra i due discepoli che se ne vanno verso Emmaus tristi parlando tra loro, può entrare il viandante. Perché, se non hanno misurato la delusione e se non hanno il coraggio di mettere in circolazione la loro delusione prendendola sul serio,  “… credevamo che fosse …” se non mettono in gioco la loro ‘fame’, Dio non può ‘entrare’.

Spesso noi pensiamo che i sacramenti sono una strana recita che il buon cristiano deve fare e che gli dà un conforto spirituale, ma che in fondo tutto ciò che abbiamo studiato sull’efficacia della grazia, … chissà cosa vuol dire … è un dato simbolico, spirituale, non è una cosa reale, non incide  concretamente. Significa che nella nostra vita non c’è un posto dove un sacramento possa agire, non c’è un ‘Ora basta’ così profondo per cui ci sia uno spazio in cui il sacramento possa agire. Certo, male non fa, ma non può neppure esplicare la sua grazia.

San Tommaso diceva che la ‘grazia suppone la natura’, cioè la grazia moltiplica quello che c’è. Se c’è zero, moltiplica zero; se c’è dieci moltiplica dieci. La grazia non è un colpo di magia che crea ciò che non c’è, ma moltiplica quello che c’è. Se c’è un nostro desiderio, un dolore giocato, reale, la grazia moltiplica.

E moltiplica fino a che, là dove c’è tutto, la morte del figlio sulla croce, moltiplica talmente tutto che c’è la risurrezione! Proprio perché c’è un radicale ‘Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato!?’

Là, dove l’unico che non aveva niente da pagare ‘di suo’ assume il costo più radicale possibile fino all’ultima briciola di obbedienza, la grazia può moltiplicare tutto e produce la vita nuova in Gesù.

Nella storia noi non saremo mai Gesù, dunque non saremo mai così, ma è chiaro che un cristiano è un ‘Christi formato’, è uno che nel Battesimo viene messo ‘sulla strada’. Dunque per noi il problema è assumere una croce, ogni volta che possiamo, perché la grazia del sacramento possa moltiplicare questa croce a un pezzo di vita in più.

E’ Dio che agisce …

“Si coricò e si addormentò sotto il ginepro”.

Si dice nell’Antico testamento, che il sonno porta sogni, visioni, è creativo; l’ultimo grande sognatore è Giuseppe, che in sogno viene avvertito dall’angelo di non ripassare da Gerusalemme e porta lontano Maria e il bambino salvandoli. Dopo Giuseppe non ci sono più sogni!

Io riflettevo su questa cosa, che è verissima: la figura del sonno nella scrittura è sempre una figura ricca. Ma mi chiedevo come mai noi non abbiamo più di questi sogni e come mai spesso dormiamo tutti abbastanza male. Mi sembra che non sia un caso che il sonno nelle culture antiche era chiamato piccola morte, e che tutti noi nel sonno abbiamo un abbandono che non abbiamo in nessuna condizione da svegli. Credo veramente non sia un caso che nella nostra cultura occidentale i disturbi del sonno siano sempre più diffusi perché non riusciamo a mollare mai, e dunque dormiamo poco e male perchè c’è sempre un pezzo di noi che tenta di rimanere sveglio, di controllare.

Credo che l’esperienza del sonno nella scrittura sia proprio questa esperienza radicale di un luogo dove ‘io non sono io’, dove non sono io che decido, che so, che scelgo, che faccio, perché io dormo… e dunque Dio fa, disfa, appare, parla, agisce; dato che non ci sono io che occupo la scena, lui ha un po’ di spazio e può fare delle cose. L’io narrante durante i sonni della scrittura è sempre Dio; nel sonno l’uomo diventa un tu, diventa l’interlocutore di Dio.

Forse dovremmo addormentarci all’inizio dei sacramenti, dormire un pochino. La tradizione della chiesa ci insegna che ogni atto sacramentale è l’esperienza di Dio che agisce, è un luogo dove  il soggetto non sono io. Forse anche a causa della nostra situazione culturale, stiamo stravolgendo sempre di più le grandi intuizioni sulla liturgia, per cui le nostre liturgie si dividono nettamente in utenti passivi, – che sono quelli che stanno dal 5° banco fino in fondo e di cui si dice che non cantano, non partecipano, non rispondono – e utenti attivi, agitati – quelli che leggono, cantano, rispondono, correggono, – e pare che non ci sia via di mezzo. O sono lì per caso o sono lì e il buon andamento della liturgia dipende da me, dunque mi devo agitare e soprattutto correggere tutti quelli che non fanno le cose come io penso che andrebbero fatte.

Forse bisognerebbe ritrovare questo senso di ‘sonno’, cioè prendere atto che nella liturgia è Dio che agisce, che occupa la scena e può occuparla solo se gliela lasciamo occupare, se non continuiamo ad agitarci, spingendolo fin dietro le quinte. Dovremmo ritrovare un sonno creativo, come quelli della scrittura, con sogni e gesti, dove c’è uno spazio in cui io per una volta almeno …’sono tu’ e non io. Posso essere tu nel senso che c’è un altro che fa, decide, parla.

Nelle celebrazioni liturgiche vengono proclamati i testi delle letture ed alla fine si dice: ‘Parola di Dio’. Non è un’etichetta; serve a dire che chi ha letto ha prestato la sua voce ad una Parola che non è la sua. E’ l’unico caso in cui non sono io che leggo la Bibbia,  ma la ascolto. C’è un  Io di Dio che parla ed io sto a sentire.

Questa cosa è talmente intollerabile per noi che ci mettiamo tutti a leggere sui foglietti; riempiamo questo ascolto perché ‘se non seguo non capisco’…, dove il soggetto sono di nuovo io: io che seguo, io che capisco!

I foglietti bisognerebbe portarli a casa per rivedere i testi durante la settimana; lì, quando vengono proclamati, uno dovrebbe ascoltare i testi; se si distrae pazienza, se perde un versetto non importa, perché la Parola resta, non è che se io lo perdo, svanisce! Se io mi distraggo su un versetto, quello nella Bibbia rimane, dunque… pazienza!. Dio parla ed in quel momento non l’ho tanto ascoltato, come succede con i figli, i genitori, gli amici che ogni tanto parlano e non ascoltiamo tutto; quando percepiamo un tono grave ci concentriamo un po’ di più, ma nell’ordinario ogni tanto perdiamo qualche passaggio.

…Tempo di riposo

Forse avremmo bisogno di addormentarci un po’ di più, cioè di mollare questa necessità di essere sempre al centro della scena, di essere io, di essere protagonisti, per lasciarci essere un tu. Ma attenzione… solo dopo aver detto: ‘desideroso di morire … ora basta … prendi la mia vita’ Cioè non prima di aver fatto tutto quello che c’era da fare. Elia si addormenta solo a quel punto, non prima!

“Allora, ecco un angelo lo toccò e gli disse: ‘Alzati e mangia!’.

Se uno dorme arrivano gli angeli! Questo potremmo scrivercelo come meditazione per la quaresima! In molte icone il pane è portato in bocca da un corvo, che non è l’immagine uguale all’angelo, a me fa pensare che il problema non è chi porta il pane, l’importante è che il pane arrivi!

“Egli guardò e vide vicino alla sua testa una focaccia cotta su pietre roventi e un orcio d’acqua. Mangiò e bevve, quindi tornò a coricarsi”.

Non basta una, si addormenta due volte: è profondo questo bisogno di forza e di lasciarsi andare! La tensione per aver ucciso tanti sacerdoti di Baal era molto alta; perché fosse un altro ad operare bisognava proprio che Elia prendesse tempo!

Questa è una cosa che noi non calcoliamo mai;  le cose si fanno o non si fanno, funzionano o no, sono giuste o sbagliate. L’ipotesi che si debbano fare due volte non ci sfiora mai.

La chiesa ci insegna che bisogna andare a messa tutte le domeniche, almeno cinquantadue volte in un anno; cioè, calma… per passare dalla storia all’eterno ci vogliono tempi lunghi – è come passare dalla superficie a cinquecento metri sotto la profondità del mare: si rischia l’embolia, ci vogliono tempi di decompressione che richiedono ripetizione, pazienza -.  Qual è il problema efficientistico che ci assilla?

“Venne di nuovo l’angelo del Signore, lo toccò e gli disse: ‘Su, mangia, perché è troppo lungo per te il cammino’”

Questa è una delle frasi che mi accompagnano da molti anni nella mia storia personale.

‘E’ troppo lungo per te il cammino’, uno lo sapeva già prima. Ciò che ci viene chiesto è impossibile! Non ci viene mai chiesta una cosa a nostra misura. Se ci venisse chiesta una cosa a nostra misura sarebbe un traffico mercantile, non un amore; gli amori sono sempre troppo grandi per noi, hanno un’altra misura, è troppo quello che ho da fare.

Questo è un pensiero rassicuratorio per cui possiamo metterci calmi fin dall’inizio? Sì, senza ombra di dubbio! E’ troppo, non ci sarà comunque possibile far tutto, quindi … calmi!

L’incontro con Dio

“Si alzò, mangiò e bevve. Con la forza datagli da quel cibo, camminò per quaranta giorni e quaranta notti fino al monte di Dio, l’Oreb”.

E’ troppo lungo per te il cammino… e camminò quaranta giorni e quaranta notti! Cioè, l’impossibile si fa!

Questa liturgia eucaristica ci conduce ai versetti centrali: attenzione, il pane non è per il pane! Il pane è per incontrare Dio! Non finisce qua, Elia con la pancia piena che dice: ‘meno male non ho più fame!’ No: “Con la forza datagli da quel pane camminò quaranta giorni e quaranta notti fino al monte di Dio”.

Il centro è l’incontro con Dio. E questo incontro è un’inclusione tra ‘Che ci fai qui? … Sono pieno di zelo… e sono solo!’  E.. ‘Che ci fai qui? … Sono pieno di zelo … e sono solo’!  Si entra e si esce allo stesso modo.

E in mezzo succede questa cosa bellissima, che è tutta la nostra vita.

“Gli fu detto: ‘Esci e fermati sul monte alla presenza del Signore’. Ecco il Signore passò. Ci fu un vento impetuoso e gagliardo da spaccare i monti e spezzare le rocce davanti al Signore, ma il Signore non era nel vento. Dopo il vento ci fu un terremoto, ma il Signore non era nel terremoto. Dopo il terremoto ci fu un fuoco, ma il Signore non era nel fuoco. Dopo il fuoco ci fu il mormorio di un vento leggero. Come l’udì, Elia si coprì il volto con il mantello, uscì e si fermò all’ingresso della caverna. Ed ecco, sentì una voce che gli diceva: ‘Che fai qui Elia?’. Egli rispose: ‘Sono pieno di zelo per il Signore, Dio degli eserciti, poiché gli Israeliti hanno abbandonatola tua alleanza, hanno demolito i tuoi altari, hanno ucciso di spada i tuoi profeti. Sono rimasto solo ed essi tentano di togliermi la vita’”.

Un vento, un terremoto, un fuoco, il mormorio di un vento leggero, …il testo greco dice “il sottile suono di un silenzio” – bella immagine! – Qual è il suono di un silenzio? Però è chiaro cosa vuol dire. Il vento, il terremoto, il fuoco. Sono elementi della natura sempre presi a immagine della presenza di Dio nelle culture antiche.

In un bellissimo commento il Cardinal Martini dice che queste tre cose rappresentano i tre pezzi della nostra vita necessari per arrivare all’incontro con Dio, ma che non sono Dio; luoghi dove Dio non c’è, ma per arrivare all’incontro con Dio bisogna passare dentro ciò che non è Dio! Nella sua vita ci sono stati gli anni dello studio disperato, in cui ‘il vento impetuoso sembrava spaccare la montagna’, e lui voleva capire, sapere, studiare, conoscere; poi il terremoto: dopo aver studiato per molti anni, gli è parso di avere una confusione pazzesca, tutto le sicurezze vacillano, tutto ciò che era ben sistemato rispetto a Dio crolla, – l’idea di Dio, l’idea di cosa doveva fare, di cos’era una persona buona… non è Dio, ma bisogna passarci dentro! E poi il fuoco: il sacro zelo: sono pieno di zelo, bruciare di passione, e comunque neanche lì c’è Dio.

Dopo il fuoco ci fu il mormorio di vento leggero e come l’udì, Elia si coprì il volto. Non si può vedere Dio in faccia! Nell’Antico Testamento, se si vede Dio in faccia si muore! E si ferma all’ingresso della caverna. Noi ci aspettiamo che ci siano alcuni versetti che ci dicano cosa Dio vuole, qual è il suo insegnamento… No, leggiamo: “Sentì la voce di Dio che gli diceva ‘Che fai qui Elia?’. Esattamente quello che gli aveva detto prima. E cosa risponde Elia? Esattamente la stessa cosa: “Sono pieno di zelo… e sono solo”.

  La tentazione è quella di rileggere 10 volte i versetti nel timore che manchi qualche parte, che manchi il contenuto: che cosa si sono detti, che cosa è accaduto? Che cosa ha imparato Elia, che frutto ha portato l’incontro con il Signore?  Niente, risponde allo stesso modo di prima!

Ritorno alla storia

In realtà  una differenza sostanziale c’è: il ritorno alla storia non ha più Elia come soggetto!

“Il Signore gli disse: ‘Su, ritorna sui tuoi passi verso il deserto di Damasco; giunto là, ungerai Azaèl come re di Aram.… Io poi mi sono risparmiato in Israele settemila persone, quanti non hanno piegato le ginocchia a Baal  e quanti non l’hanno baciato con la bocca’”.

I problemi sono gli stessi, ma Elia non è più solo, non è più lui che decide, è Dio che decide. E questa è l’unica differenza radicale, sostanziale.

Spero vi sia venuta voglia di riprendere questo capitolo ed il precedente, quello della battaglia con i discepoli di Baal,  perché mi pare molto chiaro dal nostro punto di vista. Questa è la nostra storia, è la struttura di una liturgia come atto significativo. Ci fa vedere come funziona un’Eucaristia. Certo noi leggiamo questo testo alla luce di quello che Gesù ci farà capire, ma la dinamica che ci conduce, l’ossatura, è questa. Dunque, niente a che fare con un atto magico, tutto solo centrato su se stesso, su versetti che non ci sono.

E’ un atto che sta dentro una storia, che ha una sua significatività perché poi cambia la storia sostanzialmente, pur non cambiandone i fatti; un atto che appoggia sullo spessore della storia di Elia, non solo su quel gesto puntuale.

Fossano, 12 febbraio 2005

(testo non rivisto dal relatore)

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