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23 Febbraio 2002
Stella Morra

4. Introduzione alla dinamica della Messa (2)

Commento a:


Introduzione

È passato un mese dall’incontro precedente, in cui ci stavamo occupando della messa. Stavamo smontando pezzo per pezzo la liturgia,  per cercare di capire come funziona. Richiamo due questioni di fondo:

  1. La liturgia non è il problema di avere spiegazioni giuste o sbagliate, come se fosse in quiz a domande; non è questo. La liturgia non è un manuale, non risponde alla necessità di capire; è un atto vitale e come tale ha dei nuclei fondatori di senso: ha una direzione in cui i simboli vanno interpretati. Questa direzione dipende dalla conoscenza della liturgia, come quando conosciamo bene una persona. Non è detto che noi riusciamo a cogliere il significato. Non c`è un unico corrispondente di significato. C’è una direzione in cui mi muovo nel conoscere le persone. Il problema per la liturgia non è avere a memoria il significato di tutto: bisogna curare la qualità del rapporto. Più ho famigliarità con Dio, più colgo il senso. La storia, nel caso della liturgia, aiuta: quando un simbolo è stato sempre interpretato in una stessa direzione, sappiamo che deve andare in quella direzione. Se un simbolo ha avuto più interpretazioni, si possono fare altre interpretazioni.
  1. La liturgia per noi funziona anche spazialmente, dal punto di vista dello spazio, come una conferenza; con la riforma liturgica del Vaticano II, abbiamo migliorato con il fatto che il prete ora è di spalle. Prima il conferenziere era Dio: aveva un’idea chiara, ossia che il centro era Dio. Ora abbiamo guadagnato sul fatto che il prete guarda verso di noi: questa posizione centralizza l’attenzione sul prete e aumenta la sua responsabilità. È come stare al cinema: uno non va al cinema per interagire con gli altri; la messa diventa come un cinema, in cui se qualcuno parla, disturba.  Ma la liturgia è un atto comune, una cosa che facciamo tutti. Dopo il Vaticano II tutti lo sappiamo. In realtà solo qualcuno sale sul palco, ossia sulla parte dove recita il prete: i lettori, quelli che portano le offerte…  Questo si vede nelle liturgie particolari, magari nella Veglia pasquale: non sono spariti i movimenti collettivi, ma non riusciamo a gestirli. Per esempio: nella veglia pasquale ci dovrebbe essere la processione di ingresso, con tutto il popolo che segue il celebrante, ma in realtà questa cosa non si riesce a gestire: tutti cercano solo il posto per sedersi; le candele sono accese nel momento sbagliato. Siamo al cinema, ma alla fine stiamo facendo gli attori di un copione che non conosciamo: il  problema è avere il posto, una esigenza anche giusta nella realtà dei fatti. Tutti siamo vagamente imbarazzati nei movimenti in chiesa. Perché non concepiamo la liturgia come un posto in cui ci si possa muovere. La liturgia è un atto e un atto comune. Non si può pensare che basta dirlo e tutto cambia: per molto altro tempo continueremo a celebrare spazialmente in un certo modo. Conviene fare tutti quello che serve per far cogliere questo aspetto. Per esempio i lettori non stanno in un angolo, ma partono dall’assemblea, con un po’ di coraggio. Poi bisogna smettere con le domande tipo se i bambini possono strillare impunemente. A casa i genitori cosa fanno, quando ci sono ospiti? Un genitore normale non si agita troppo se il bambino non fa cose esagerate. Il bambino secondo la buona educazione può muoversi anche durante la messa. Il criterio è lo stesso: se il bambino fa cose esagerate, bisogna intervenire, come si farebbe comunque se si fosse in casa. Sono piccoli passaggi dallo spettacolo all’atto comune: un posto in cui le persone agiscono con buona educazione.

Abbiamo già iniziato a parlare dell’inizio della messa occupandoci di: processione di ingresso, bacio dell’altare e saluto all’assemblea. Ci siamo fermati all’atto penitenziale, per affrontarlo con maggiore calma.

Atto penitenziale

È un problema serio: sia dal punto di vista liturgico, sia per noi. Per noi: abbiamo una cultura fondata sul senso di colpa. Sopravalutiamo questo momento così tanto che alla fine lo cancelliamo, perché non lo reggiamo più. Nel corso della storia è uno dei punti più variabili nella messa: ha subito, nel corso del tempo, dilatazioni, spostamenti e restrizioni. È molto cambiato nel tempo. C’è una difficoltà interpretativa molto forte.

Non c’è mai stata l’assenza totale dell’atto penitenziale nella liturgia.

Questo atto ha sempre avuto un senso in relazione al fatto che l’essere lì era il contrario di quello si stava dicendo. Sembra complicato, provo a spiegarmi. L’idea è come quando uno dice: “che sete!”, poi beve e dopo dice: “che sete che avevo”. Segnala la soddisfazione del bisogno. L’atto penitenziale dovrebbe funzionare in questo modo: che peccatore che ero e non che sono. Segnala ciò che non c’è più, non ciò che c’è. Anche l’invocazione che si ripete: ho peccato, o molto peccato, si usa ma al passato, per dire che l’essere lì segna la differenza.

In una delle variazioni storiche, l’atto penitenziale era prima della comunione; il sacerdote diceva: “chi è puro si avvicini e mangi, che è peccatore si avvicini a mangi”. Il segno era: nella nostra vita ci sono molte cose che non vanno, ma a questa tavola arrivano tutti, puri e peccatori.

Non è l’idea di renderci degni di un sacrificio che sia puro: anche se mi sono confessato devo lucidare l’argenteria. Tutto questo fa parte del mondo per cui la gente aveva sempre una buona ragione per non fare la comunione. Oggi l’idea è: Cristo è l’unico cibo che ci sostiene.

Nel 1500 la liturgia aveva tre atti penitenziali: oltre a quello collocato dove è attualmente, ce n’era uno anche prima dell’offertorio e un altro prima della comunione (di cui resta il ricordo nella formula apologetica di oggi: Agnello di Dio che togli i peccati del mondo). Il Vaticano II, nella riforma liturgica e nei libri liturgici, fa un passaggio interessante e coraggioso: prevede che per alcune liturgie si può sostituire il confesso con l’aspersione con l’acqua, per legarlo meglio al battesimo; per esempio si può fare nel mercoledì delle ceneri. Segna più fortemente per noi l’idea che non siamo noi a chiedere perdono, ma è il sacrificio di Cristo e il battesimo che mi introducono in un’altra economia.

Qui c’è un po’ di macello: l’atto penitenziale è spesso utilizzato per favorire la partecipazione dei fedeli, in particolare per la messa dei bambini. È legittimo, si può fare, ma sono contraria: ma questo va esattamente nella direzione opposta, rispetto a quello che abbiamo appena detto. Sposta di nuovo l’attenzione sulla ragioneria dei peccati, in forma moderna, ma facendo la stessa operazione: quando si fa un lungo elenco di cose di cui si chiede persono. Invece di ricordare che siamo stati perdonati, facciamo l’elenco dei peccati. La partecipazione potrebbe essere favorita in altre punti della messa. Si tratta di lavorare, per l’atto penitenziale, sui gesti più che sui pensieri. I segni sono più utili.

Un altro aspetto problematico è dato dalla domanda se noi chiediamo perdono a Dio o ai fratelli: è un problema notevole. L’atto penitenziale richiede che si chieda perdono a Dio e non ai fratelli. Il perdono dei fratelli è presupposto, come richiesto dal Vangelo, prima di accedere all’altare per il sacrificio: il perdono ai fratelli è un dato previo, che si fa nella realtà e non nel segno. Il perdono ai fratelli si fa nelle cose, è un dato di realtà. Vado a scusarmi con il fratello con cui ho avuto una arrabbiatura: non faccio un gesto simbolico che è il massimo dell’ipocrisia. Nel sacramento si chiede perdono a Dio perché non abbiamo altro modo per chiedere perdono a Dio: non è a costo zero, non è un atto simbolico, perché muove il cuore e Dio lo sa. Rispetto ai fratelli il perdono si chiede fuori dalla liturgia, appianando la situazione nei confronti dell’altro, non nel sacramento. Questa è una confusione diffusa. Questo si vede anche in altri momenti: quando non sappiamo come risolvere delle questioni importanti, facciamo una messa: non che non vada bene, ma quello che faccio nella liturgia non esonera dalla realtà. Posso fare un incontro di preghiera, meglio della messa, per chiedere intelligenza e creatività per trovare una soluzione al problema della giustizia, ma questo non è sostitutivo dell’azione nel reale. È buon ricordarsi di chiedere perdono ai fratelli anche nella liturgia. Ma è un aspetto che non ha una interpretazione univoca nella liturgia, e comunque un tempo il legame tra vita e liturgia era molto forte. Ora il legame tra liturgia e vita è molto fievole: rischiamo di ritualizzare tutto quello che ci fa fatica a fare nel reale. Il sacramento è il rapporto con Dio, ossia di Colui con cui non abbiamo possibilità di relazionarci nel reale. Poi può essere che non ce la facciamo a recuperare una relazione con una persona, e posiamo chiedere aiuto a Dio.

Non aiuta le gestione della liturgia la questione dei libri: i libri liturgici, detti anche rubricali, perché hanno in rosso le parti che non si dicono, ma che si fanno (gesti del prete, dei fedeli…). Per il processo di accentramento dei libri dal X^ secolo in poi, l’unico che ha tutti i libri è il celebrante. Noi oggi abbiamo solo i foglietti che sembra che servano per seguire le letture (ma non servono per quello), come se avessimo il bignami della liturgia. Dopo il Vaticano II c’è  una nuova  moltiplicazione dei libri: abbiamo il messale per la messa, il lezionario per le letture e poi l’orazionario; oltre ai libri dei canti, autogestiti, senza legami con la liturgia; in realtà ci sono repertori liturgici ufficiali, tipo quelli della Conferenza Episcopale Piemontese, che potrebbe essere utilizzato. Noi siamo nella fase in cui si moltiplicano di nuovo i libri: prima tutti sapevano la trama, si riducevano i libri, ma tutti sapevano cosa dovevano fare; noi non sappiamo cosa dobbiamo fare e la moltiplicazione dei libri non aiuta perché non siamo in grado di utilizzarli (tipo per i lettori che non sanno quale lettura ci sia nella domenica e quindi il parroco deve indicare quali sono le letture da leggere).

Si deve riacquistare il ritmo e il senso della liturgia, per entrare e superare anche l’idea che se non si entra alla battuta giusta, succede solo un po’ di caos. La moltiplicazione dei libri, porta alla produzione di foglietti introduttivi: non sono di facile gestione e selvaggi. Ci sono il libri per le monizioni, che potrebbero essere utilizzati e che hanno anche una bella ricchezza.

Ci sono una serie di formule per la richiesta di perdono, previste nel messale; in realtà c’è un dispiegamento nei libri liturgici, formule che aiuterebbero di più. L’aspetto problematico è che nelle richieste di perdono previste nel messale della liturgia il centro è Dio, in quelle fatte da noi, hanno come centro l’uomo.

Kirye e Gloria

In genere il kirye viene collegato con l’atto penitenziale. In realtà il kirye e il gloria sono una unità: invece l’unità liturgia è l’altra; il kirye e il gloria sono sempre stati all’inizio della liturgia. Queste due parti erano presenti nella liturgia, ma in luoghi diversi:  il gloria nel mondo latino e il kirye nel mondo greco: noi li abbiamo legati. Il kirye è uguale al gloria, non c’entra niente con l’atto penitenziale. Nel mondo greco, il kirye era il coro che facevano i bambini quando l’imperatore si spostava da una residenza all’altra: è un canto di giubilo. I latini, che avevano un altro rapporto con l’impero, utilizzavano come acclamazione il gloria: questo ci è chiaro che cosa sia, un canto di festa e di esaltazione di Dio che ha fatto grandi cose.

Kirye e gloria corrispondevano al momento finale della processione d’ingresso: finita si leggeva la colletta. L’ultimo pezzo della processione di ingresso quindi veniva accompagnato dal gloria, ossia l’esaltazione del Signore che veniva. La processione portava l’evangeliario e il sanctam, ossia il pane consacrato nella precedente liturgia, per ricordare che era veramente il Signore che entrava nell’assemblea.

La preghiera di colletta

La colletta non raccoglie le preghiere di tutti, ossia la preghiera del celebrante raccoglie tutte le intenzioni dei fedeli e le interpreta; in realtà questa è solo una visione romantica. Il prete interpreta tutti con una formula fissa? La colletta si riferisce alla raccolta della gente che aveva finito la processione d’ingresso e tutti si sono seduti. Si cominciava con la preghiera, questo il senso della colletta.

Ora tutto è cambiato, non si fa più la processione di ingresso: non sarebbe più pensabile un momento che dura 10 minuti; ma possiamo metterci dentro un senso che non c’era prima: la colletta ci serve da punto di verifica, come quando si viaggia in montagna, quando si prende un punto di riferimento per il cammino. Alla colletta bisognerebbe esserci con la testa: tutto quello che c’è prima serve, oltre al fatto di essere arrivati in orario, ma anche per recuperare la concentrazione sugli altri pensieri. Ci sono alcuni minuti: quando arriva la colletta uno dovrebbe essersi calmato e fatto finire la processione di agitazioni. Dovrebbe servire a noi: la liturgia è questione di monitoraggio, ossia di renderci conto di esserci. In tutte le messe in cui non ci ricordiamo più del fatto che si è letta la colletta si può prender questo come segnale che non eravamo presenti. E ricordare che è stata letta la colletta non vuol dire ricordare quello che è stato detto.

Le glorie di Dio si possono cantare anche da distratti: nella liturgia, le cose che riguardano Dio, funzionano da loro. Se uno si distrae, non fa torto a Dio: di per sé, quanto a Dio, funziona, perché c’è lo Spirito Santo che le fa funzionare. Se per tutta la messa non mi accorgo di essere lì, allora c’è un problema; ma succede anche con le persone che amiamo di più, di non ricordarsi di essersi incontrati nella giornata precedente. Se succede sempre così, allora ci sarà un problema. Ci sono messe in cui non ci ricordiamo neppure chi era il celebrante; se per dieci anni non si arriva mai lì, allora bisogna chiederci quale sia il problema. Metà delle volte noi non realizziamo neppure che questo aspetto, nelle relazioni umane: sappiamo la diagnosi, ma poi si sopporta oppure si fa casino. Noi non sappiamo neppure perché e quale sia la questione e la tensione per cui non ci si riesce ad esserci.

Letture ed omelie

È un capitolo tristissimo. Io trovo una totale sopravvalutazione di questo momento. Spesso aver seguito una messa significa, per noi, non essersi distratti durante le letture e aver ascoltato una buona omelia; se non abbiamo sentito le letture e l’omelia non era buona, allora la nostra messa non ha funzionato. Valutiamo la totalità della messa con la qualità dell’omelia e il senso di insufficienza della conoscenza delle letture, spesso valutiamo questi due punti come non funzionanti.

Lettura e omelia sono importanti, ma non sono la totalità della messa. Uno può ricavare molto dalla messa anche se l’omelia è orrenda e non capisce molto delle letture. Parlare non è né l’unica né la più piacevole delle cose che si possono fare tra esseri umani; parlare ha un suo ruolo, in alcuni momenti anche decisivo. Ma di per sé, per esempio, parlare spesso complica, non aiuta a capirsi; in altri casi è necessario. Parlare non è la cosa più semplice da fare: è un mito che la parola siccome riguarda la vita sia semplice. I bambini dicono di aver imparato non le parole dai loro genitori, ma le carenze ricevute, il clima, i sorrisi, i gesti… Anche delle persone che abbiamo amato ci ricordiamo maggiormente dei gesti, delle immagini, degli atteggiamenti e non tanto le parole. La relazione con le persone umane ha il suo gusto in ciò che parole non sono; le parole sono una forma razionale di alcuni aspetti della comunicazione.

Letture

Le letture sono una componente fondamentale nella relazione con Dio: non sono in assoluto la prima. Per imparare a capirsi senza confondersi, tra persone, ci vanno anni. Uno deve parlare in punta dei piedi. Imparare a comunicare a parole con una scioltezza che non ferisce è il risultato di 40 anni di relazione. Le letture funzionano così: sono il luogo complicato di una parola univoca, in cui non possiamo ribattere; che certamente non va abbandonata e va insistita; non possiamo aspettarci che arrivi il nutrimento che ci serve. La liturgia non è la catechesi: è il luogo delle carezze e non delle parole; è il luogo delle coccole, non si spiegano tantissimo.

La scelta liturgica del Vaticano II sulle letture è stata coraggiosa e intelligente. Abbiamo il 90 % del testo biblico che viene letto nella liturgia nel corso degli anni, con un sistema complicato: un ciclo festivo strutturato su tre anni e uno feriale in due anni (anno pari e anno dispari, con la lettura corsiva dei tre sinottici).

Nell’arco di tre anni sentiamo leggere tutti e tre i  vangeli sinottici. Il vangelo di Giovanni è letto in tempo liturgici speciali. La prima lettura è tratta dell’Antico Testamento ed è scelta in connessione alla lettura del Vangelo: quindi è il vangelo che ne guida la scelta e la prima lettura segue.

La seconda lettura è una lettura, semi continua, delle lettere e degli Atti. Va per la sua strada. L’idea che ha guidato questa impostazione è stata: alla scuola del Vangelo. L’Antico Testamento che ha preparato Gesù, viene letto come supporto e ampliamento del vangelo; ogni domenica facciamo un pezzo di strada con la chiesa delle origini, per vedere come si sono organizzati loro, per vedere se ci serve per organizzarci noi.

Questa scelta è molto coraggiosa, fatta sulla base del criterio di dare all’ordinarietà della vita cristiana di avere nell’orecchio il maggior numero di passi scritturistici, per contrastare l’idea del passato che era meglio che i fedeli non ne conoscessero molto. Prima si leggeva in latino e sempre pochi brani della Scrittura. Ora si rischia l’overdose di letture. Dicendo la liturgia delle ore e la messa ha una quantità di testi esagerata. L’offerta è tutta la bibbia per tutti, ciclicamente offerta: uno sceglie una serie di cose che gli servono.

Non sono il momento centrale né l’unica cosa della messa. Se poi, durante le letture, ogni tanto uno si distrae, si può rileggere le letture a casa. La lettura liturgica è diversa da quella privata. Dato che abbiamo centralizzato tutto sul capire: se leggiamo a casa o seguendo sul foglio è la stesso tipo di lettura. Questo è sbagliato: meglio leggere a casa, tranquillo, con il proprio ritmo. La lettura privata andrebbe fatta ma è un’altra cosa: il senso liturgico della lettura è la proclamazione; bisogna ascoltare, non leggere. È una parola detta ad alta voce, segna l’oggettività di quella proclamazione. Funziona come uno slogan da stadio: non è un’informazione, è un dato di potenza.

La proclamazione delle letture è la proclamazione che ciò che doveva essere è già certificato. Viene proclamato come un editto, una legge. Se uno di tutte le letture si ricorda anche solo il suono di un versetto che gli ha fatto caldo, perché Dio aveva fatto qualcosa, va bene quello.

Questo viene annunciato: questo è il senso.

La centralità dei vangeli, che guidano le letture, dovrebbe essere segnalata: andrebbe elevato, baciato. Quello che vuol dire è che il vangelo è la buona notizia, ossia che Dio lo ha resuscitato. Questa cosa è proclamata, mostrata: il vangelo guida. Per questo si canta l’alleluia prima del vangelo e anche dopo, nelle feste. Non si canta in quaresima: ci è data come tempo in cui non possiamo stare senza messa, eccetto il venerdì santo, un gran digiuno, ma c’è un tempo di raccoglimento, di abbassamento, per provare ad immaginarsi come sarebbe andata se non si fosse compiuta la salvezza. E nella notte di Pasqua può cantare l’alleluia di nuovo.

Tra la prima e la seconda lettura, si legge il salmo responsoriale; noi rispondiamo non con parole nostre, ma con parole di Dio: segnaliamo la nostra presenza, diciamo a Dio che ci siamo, ma talmente muti, da dover usare la sua parola per farci sentire.

In questo secolo c’è sempre meno produzione creativa, si va per citazione. Le citazioni sono frasi che sembrano dire cose che non avremmo mai saputo dire. Noi usiamo il salmo perché citiamo: una citazione che dice una cosa che non avremmo mai saputo dire in modo migliore.

Il salmo responsoriale è scelto legato delle letture: in alcune occasioni c’è una scelta possibile di salmi; può essere scelto; ci sono però moltissimi abusi anche nella scelta del salmo. In alcuni casi il celebrante legge il vangelo e introduce commenti nella lettura. La presidenza della celebrazione è pensata come un presidente, con un modo autonomo di gestire la liturgia, senza tener conto delle rubriche, anche perchè la gente non conosce le rubriche. Bisogna anche fare un po’ di resistenza non violenta: chiediamo ragione dei macelli fatti dal celebrante nella gestione della liturgia!

Il salmo può essere sostituito in alcune feste, dalla sequenza, ma è indicato sul foglio liturgico. Ci sono alcune messe particolari che prevedono più salmi a scelta.

Omelia

È il capitolo doloso. Parlando con i laici emerge che l’omelia  sia una disperazione; parlando con i preti, emerge che loro si si impegnano tanto. Sono vere le due sensazioni: è vero che fare l’omelia oggi sia molto complicato, ci vogliono doti personali che non vengono date con l’ordinazione. Ci vogliono omelie accettabili per una parte dell’assemblea e non per tutti. Ci sono anche delle cose orribili, in alcuni casi. Oltre alla difficoltà oggettiva, ci si mette del proprio. Un laico che va a messa deve comunque trovare una soluzione. Io che sono molto sofisticata, frequento chiese in cui so che non fanno l’omelia la domenica, per evitare la questione; una scelta possibile di sopravvivenza.

Possiamo anche avere pietà per noi stessi: se l’omelia ferisce la nostra dignità, lasciamo perdere e stacchiamo.

C’è un primo problema: questo momento non si sa bene cosa dovrebbe essere. Nasce in un tempo in cui tutte le attività dei cristiani erano l’eucaristia. I cristiani vanno al tempio, sono assidui alla frazione del pane, nell’ascolto degli apostoli e nella condivisione dei beni. La frazione del pane aveva anche una catechesi. Oggi, non penseremmo di fare una catechesi durante la messa, con un tempo molto lungo, di un paio ore, come poteva essere nella chiesa primitiva. È cambiato il contesto. Abbiamo tirato fuori una serie di sensi… Oggi noi abbiamo molte offerte: ci sono gli incontri di catechesi, quelli di preparazione alla liturgia, dei vari gruppi… ci sono molte cose che accadono fuori della liturgia che è rimasto un guscio vuoto. L’omelia è la liturgia del celebrante e non dello Spirito. Cosa deve fare? Un incontro culturale e colto sulle letture, lezioni in pillole? Una catechesi spirituale e morale? Alla fine si tende a rivolgersi di preferenza ai bambini, si usa un target più basso. Dicendo due cose semplici, per tutti.

La scelta del target più basso rischia di renderla noiosa per tutti. E poi spesso la sensazione è di essere trattati come un deficiente, che fa l’effetto di sentirsi offesi.

Che cosa si potrebbe fare?

Si può:

  1. Cercare di sopravvivere: provare a scegliersi con cura un posto dove l’omelia non ci offende, almeno, senza infamia e senza danno; dove l’omelia ci dia almeno un pensiero su cui riflettere.
  2. Si può aiutare i preti per inventare dei modi un po’ utili per fare l’omelia. Non vuol dire partecipare al gruppo per la lettura delle letture della domenica. Non si tratta di entrare nel circuito religioso delle letture, in cui i laici sono più religiosi dei preti. Si tratta di aiutare i preti a dire cose utili per i fedeli: magari riprendere il passaggio dell’omelia che ci ha colpito, facendo venir fuori i punti di attacco con l’esistenza che possono essere utili. Si può dire che cosa ci aspetteremmo dall’omelia: è difficile da dire che cosa ci aspettiamo da una omelia su un brano di vangelo. Facciamo uno sforzo di pensare che cosa vorremmo sentirci dire sul vangelo. Facciamo venir fuori i punti di attacco con la nostra esistenza, che possono essere utili. E proviamo a aiutare i preti a dirci delle cose che ci servono.

Il credo

Dopo l’omelia c’è il credo. Il credo si recita soltanto nelle messe festive. Perché l’idea della liturgia è che non si valuta questa cosa, che è molto seria. Non si fanno grandi dichiarazioni di amore tutti i giorni: ci sono dei momenti più solenni, in cui si dice qualcosa di più carino. Il credo, come il confesso, è l’unica parte della messa che si dice al singolare, il resto è sempre al plurale.

È stato introdotto abbastanza tardi nella liturgia, non è un elemento antico. Viene introdotto per un motivo giuridico, per verificare l’ortodossia di quelli che partecipano alla messa. Viene introdotto nel mondo greco: il mondo latino, invece, aveva un altro criterio di ortodossia, ossia la comunione con il papa. Chi non era conosciuto in una comunità parrocchiale, doveva portare una lettera che diceva che era stato battezzato (littera comunioni), in quale parrocchia e da quale vescovo e che viveva la comunione con il papa di Roma.

Nel mondo orientale invece l’elemento di ortodossia sta dentro la messa ed è la recita del credo. Il credo è  anche l’ultimo punto della celebrazione in cui erano presenti i catecumeni: dopo la recita del credo, i catecumeni erano invitati ad uscire dalla chiesa. Avrebbero recitato il credo la veglia di Pasqua, durante il battesimo.

Anche qui, cosa significa questa cosa oggi? Non ha più il senso di verificare la nostra ortodossia, nessuno controlla se diciamo il credo e come lo diciamo. Non è una patente. Noi siamo in una logica in cui l’eucaristia è un diritto. È strano questo elemento: dovrebbe farci riflettere. Noi lo interpretiamo in un modo che non ha a che fare con la liturgia. È il segno della mia scelta. In questo atto liturgico in cui Dio è il protagonista, ci piazzo questo elemento in cui, in piedi, dico che ho scelto. Di per sé è reddittio (restituzione) alla comunità ciò che ho ricevuto. Il credo viene recitato: ai catecumeni viene consegnato, i catecumeni lo recitano restituendolo alla comunità.

Oggi il senso di questo momento è l’esperienza che io non scelgo proprio niente: io posso dire che credo in Dio padre onnipotente, perché c’è una chiesa che ci crede. Se anche non credo tanto, non importa: io restituisco la fede alla chiesa che la conserva per i giorni in cui mi confondo, quando non credo più alla vita del mondo che verrà o la remissione dei peccati. Se è solo un’espressione della mia fede, forse potrei dire il credo solo in parte e solo in alcuni giorni dell’anno e non a tutte le liturgie festive.

Un mio amico sostiene che il credo dovrebbe essere recitato al futuro: il senso è quello. Se sto in piedi in questa comunità, forse un giorno riuscirò a credere, più in là.

Fossano, 23 febbraio 2002

Testo non rivisto dal relatore

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