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13 Aprile 2002
Stella Morra

6. Introduzione alla dinamica della Messa (4) – I sacramenti (1)

Commento a:


Mi sento un po’ responsabile per il fatto che mi sono molto fermata sugli aspetti della messa, però mi sembra che, dato che la messa è l’esperienza più ordinaria di liturgia, non sia improprio ragionarci con calma. Oggi vorrei finire e poi vorrei aggiungere qualcosa sulla preghiera personale e la preghiera liturgica.

Per quanto riguarda l’incontro di maggio, vorrei invitarvi a mandarmi delle domande; io ho alcuni problemi particolari di cui vorrei parlavi; se qualcuno ha domande su aspetti particolari, sui sacramenti (sulla confessione, sul battesimo dei bambini..), dovrebbe farmele pervenire: uno potrebbe scrivere la domanda su un foglietto e lasciarla qui alla fine dell’incontro, oppure via mail. Questo per poter affrontare aspetti che uno ha incrociato nella propria vita e l’ha trovata strana.

La lectio di oggi

Centralità della messa

Già l’altra volta siamo arrivati a parlare della consacrazione e dicevamo: se noi ci domandiamo qual è il punto centrale della messa, la maggior parte delle gente direbbe che è la consacrazione; il resto direbbe la comunione. Chiedersi qual è il centro, qual è la parte più importante, in genere, di aiuta a capire che senso ha una cosa, una cosa complicata, fatta di tanti pezzi… se uno capisce dov’è il centro, poi gli altri pezzi vengono sistemati attorno a quello. Il fatto che noi, la maggior parte di noi, penserebbe che il centro della messa è la consacrazione (che sarebbe il momento in cui si sta più raccolti, si sta in ginocchio, con il capo chino, concentrati…, come segno di particolare rispetto e attenzione) non è senza motivo; storicamente è stato molto aumentato dalla polemica anti protestante: l’idea su cui le chiese riformate hanno insistito è quella della comunione, quindi del pane spezzato; per contro, al cosa su cui hanno insistito il cattolici è stata, sempre di più, quella del sacrificio di Cristo e quindi della consacrazione con il racconto dell’anamnesi (“Nella notte in cui venne tradito, prese il pane…” il pezzo che è sempre uguale in tutte le messe), come il racconto del sacrificio di Cristo. Questa dottrina del sacrificio, ossia insistere molto sul tema, sull’aspetto di Cristo che si sacrifica per i nostri peccati, che nasce contro la comprensione della fede cristiana delle chiese riformate, aumenta, peggiora vistosamente fino all’800, dove c’è molto fortemente questa specie di culto un po’ macabro della passione di Cristo. Si dice ai bambini che quando uno fa un peccato aggiunge un chiodo a Gesù…  Tutte queste cose accentrano molto l’idea di sacrifico, fino a limiti molto esagerati. Non è un caso che molto ordini religiosi nati nell’800 hanno nomi che si richiamano alla passione di Cristo.

Una parentesi. I nomi degli ordini religiosi dicono tantissimo sull’immaginario, sul come è vissuta la fede, nel periodo in cui sono stati fondati. Se noi consideriamo i francescani, che noi chiamiamo tutti francescani anche se giuridicamente si chiamano Frati Minori, Cappuccini, Conventuali… Noi li chiamiamo francescani, perché l’immaginario lì è che sono seguaci di Francesco. Nell’800 nascono ordini tipo, gli Apostoli del Preziosissimo Sangue. A noi non verrebbe mai in mente, non fa parte del nostro modo di pensare la fede che quella sia una cosa centrale.

Questa dimensione sacrificale cresce tantissimo fino all’800 e prosegue nella prima parte del 900, poi sembra (sottolineo, sembra) che il Vaticano II l’abbia cancellata. In realtà il Vaticano II ha cancellato le esagerazioni: il sacrificio di Gesù resta, ma non è che si deve contemplare il dolore, il sangue. L’ottimo risultato è che noi siamo, oggi, sbilanciati molto dall’altra parte, con l’idea della comunione, del pane condiviso, della condivisione con i poveri… ma senza nessuna radice teologica; né quella xx cattolica, legata al tema del sacrificio, né quella evangelica, legata al tema della comunione, ma in modo molto forte.

Le due centralità: o dire che il centro è la consacrazione o dire che il centro è la comunione, vuol dire che i due grandi temi, veri e centrali tutte e due per la celebrazione della messa, sono il sacrificio e la comunione tra noi e con Dio.

Passaggio successivo. Questo fatto, cioè che l’eucaristia non ha un centro, ma due, è abbastanza interessante perché dice qualcosa (senza spiegazioni dotte, ma con degli esempi concreti) di assolutamente si assolutamente tipico del cristianesimo. Quando tutto il nostro insegnamento cristiano dice che le nostre chiese sono convocate dall’eucaristia, che il centro della vita cristiana è l’eucaristia, che l’eucaristia è fonte e culmine della vita della chiesa… Quello che si sta dicendo è che l’eucaristia dovrebbe funzionare come il modello di tutto il resto: modello in senso forte, non solo l’esempio, ma ciò che da forma a tutto il resto. Quando noi diciamo di noi stessi: io capisco tutta una serie di cose, ma io sono stato molto segnato dalla mia educazione infantile, quello che vogliamo dire è che il modo in cui noi siamo stati educati da bambini, poi ci ha conformati; per cui, anche l’aver capito alcune cose, prima di diventare effettivamente capaci di renderci diversi, ce ne va. Ci va tanto un’azione della testa, di capire altre cose, ma tanto anche un’azione della vita, delle cose che accadono in un altro modo. L’eucaristia conforma la Chiesa in quel senso lì: come noi diremmo che l’educazione infantile conforma la persona adulta.

Ciò che conforma è una cosa che non ha un centro, ma ne ha due. Questa sarebbe la matrice di fondo di tutta la vita credente: questo vuol dire che il cristianesimo non sta in un punto, ma in una tensione. La nostra esperienza credente non è nello stare “da una parte”; ma è nella tensione tra due parti. Lo stato di tensione, di dinamica tra due cose, non è lo stato di cattiva salute della fede o delle chiese. Anzi, è lo stato di buona salute, lo stato eucaristico.

Facciamo degli esempi. Quando diciamo, la vita spirituale, se vado in un monastero, se faccio un incontro di preghiera particolarmente ben riuscito, o tutte quelle cose che per ognuno di noi sono particolarmente buone… Se ascolto uno che parla bene della fede, in modo chiaro, forte, significativo… quello è importante, bello. Dopo però c’è la Chiesa istituzione: il papa, il mio parroco, le scelte politiche… Lì tutto orribile. E viviamo questo come uno stato di cattiva salute della Chiesa. Tendenzialmente l’idea è che dovrebbe essere tutto come piace a me. Tutto dovrebbe funzionare secondo quel metodo, quello stile in cui io mi trovo tanto bene… Questa situazione non è uno stato di cattiva salute della Chiesa, ma di buona salute. Perché la Chiesa si costituisce in uno spazio tensionale, in cui ci deve essere: una dimensione istituzionale, quindi visibile e incontrabile, ma quindi anche lenta a cambiare, un po’ testona, decisa da alcune leggi che, come tutte le cose istituzionali non corrispondono a nessun singolo perché corrispondo all’insieme, e così via… E dall’altra ci devono essere abbastanza matti, santi, pazzi di Dio, uomini e donne che parlano del Vangelo in modo caldo… tanto da mantenere viva la fiamma più interiore. Ma se non ci sono tutte e due le cose, se la Chiesa è tutta carismatica, così come se la Chiesa fosse tutta istituzionale, si rompe lo spazio tensionale tra i due centri.

Oppure… Ognuno di noi, di fronte alla propria esperienza di fede, credo… da una parte ci sono delle cose che crede (e crede non vuol dire necessariamente che capisce fino in fondo), ossia delle dimensioni della fede di cui ha fatto esperienza, di cui è certo, che non abbandonerebbe, che nemmeno lo convincono, ma fanno parte di lui; dall’altra ci sono dei tempi, o dei temi, delle questioni o dei problemi su cui uno è turbato, confuso, e dice: “Ma Dio dove sta?”, “che vuol dire questo? Ma forse allora è tutto sbagliato…”. Questo non è uno stato di cattiva salute della fede: questo è uno stato di buona salute della fede. Perché la fede è una cosa che deve avere una dimensione di accettazione da parte mia, che io capisco, accetto, condivido, in cui mi sento d’accordo, che riesco a maneggiare nella mia vita… Ma deve sempre avere uno aspetto che lo spera, che io non capisco, non so ancora, non so proprio, non condivido, che mi sta come una spina nella carne, che mi stuzzica, che mi inquieta… E se noi fossimo solo inquieti, o solo sicuri, sarebbe una tragedia: quanti conoscete che sono sempre sicuri, che non si reggono alla vista perché hanno sempre tutte le soluzioni per tutto e ti spiegato sempre come si doveva fare. Ma anche quanti ne conosciamo di solo inquieti che ti dicono sempre che tutto è una tragedia, tutto è un casino, tutto è un problema, `tutto è una confusione. Ognuno di noi sa che ci sono dei pezzi di sé, di fede, che stano, su cui non farebbe dei passi indietro, ma non sa nemmeno lui spiegare il perché, ma che sono li; tra l’altro, non sono sempre gli stessi nel corso della vita, a volte sono alcuni, a volte sono altri. Ma poi ci sono un sacco di pezzi molto mobili…

Dire che il centro dell’eucaristia è, insieme, il tema del sacrificio e della comunione, significa dire che il cristianesimo ha come modello una struttura tensionale, e che ogni riduzione si chiama eresia: ogni riduzione, tutto da una parte o tutto dall’altra… L’eresia non è mai un errore, ma l’esagerazione di una verità in modo unilaterale. Ogni volta che non reggo la parte confusa e mi metto tutto dalla parte delle certezze, non reggo la parte istituzionale e mi metto tutto dalla parte dello spirituale, e così via… questo è un atteggiamento eretico rispetto alla complessità dell’esperienza cristiana. #

I due poli dell’eucaristia sono il tema sacrificale e il tema comunionale, perché sono, in termini concreti (ma bisognerebbe dire tanto di più di questo…)… Quello che spetta a noi, a noi insieme, la nostra capacità di accogliere gli altri, essere disponibili, non tenere in tasca da soli ma dividere quello che abbiamo, tutte queste cose da una parte; e la grazia gratuita di Dio, che nella nostra condizione di ingiustizia, fa della nostra ingiustizia una situazione positiva.

Il tema sacrificale è la grazia gratuita di Dio che dice: “non ce l’hai fatta, non ce la fari mai… fa lo stesso”. Dall’altra parte c’è: però uno dovrebbe provare a impegnarsi per farcela, vediamo almeno se riusciamo a migliorare un po’ l’atmosfera, non risolveremo tutto, risolviamo quello che riusciamo a fare; questo è il tema della comunione, nel provare a dividere il pane. E questo, sapendo che c’è sempre un pezzo che ti scordi per strada: c’è sempre uno che è dimenticato… Ma questi sono i due poli.

Andare a messa significa (in termini non proprio teologici) che la Chiesa ci dice che ogni domenica, dato che questo equilibrio è molto instabile, almeno ogni domenica, uno dovrebbe chiedersi a che punto sta questo equilibrio tra due poli. Dovrebbe fare l’esperienza che sono vere tutte e due le cose: perché non cascare nella tentazione della riduzione è una cosa molto difficile. E il calcolo, abbastanza serio, della Chiesa è che più di una settimana non si dure; che, insomma, l’obbligo di andare a messa le domenica sarebbe l’idea che non ce la si fa più di tanto, uno si perde proprio i pezzi; e tutti sappiamo, per averne fatto l’esperienza nella vita, che confondersi sulle cose serie, perdere il bandolo delle questioni serie si fa in fretta, ma poi a ritornare indietro è molto faticoso. Non ci vuole moltissimo tempo per confondersi su se stessi, basta raccontarsi due o tre storie in due punti chiave e uno si è perso di vista. Ma poi, per smontare il caos e rimettere a posto le questioni, il tempo è molto lungo: ritrovare degli equilibri e padronanza su di sé richiede disciplina, tempo, discernimento, ascesi…

La Chiesa ha questo criterio antico e di buon senso: se uno non si dà una regolata più o meno una volta la settimana, su questa struttura di fondo della sua esistenza, poi si confonde troppo e tornare indietro è un caos. L’idea di andare o non andare a messa ormai, molto spesso, soprattutto per gli adulti, non è legata a decisioni ideologiche enormi, ma è uno slittamento: in cui uno perde un po’ quel ritmo lì, è stato una domenica che è andata così, poi la prossima va di nuovo così…

Di per sé, le due parti centrali della consacrazione, l’epiclesi e l’anamnesi, sono ancora la ripetizione di questa doppia dinamica. L’epiclesi (lo abbiamo visto la volta scorsa) è quando il prete stende le mani su calice e patena, su pane e vino; e invoca lo Spirito Santo; epiclesi è un termine molto centrale nella vita cristiana, corrisponde in quasi tutti i casi all’imposizione delle mani. Nel restante numero dei casi, l’epiclesi può essere legata a una benedizione. L’epiclesi è proprio l’atteggiamento, il tempo, il gesto, il luogo in cui, per la mediazione della Chiesa, si invoca la discesa dello Spirito Santo. Che, vi ricordo, nella Trinità è lo Spirito della relazione tra Padre e Figlio. Perché lo Spirito Santo è la persona della Trinità di cui noi parliamo sempre rispetto alla sopravvivenza della Chiesa, all’unità dei cristiani, cioè il tempo e la storia? Perché è quello che tiene in tensione, che consente a questi due poli di essere un’unità. Per questo ci viene detto che noi siamo tempio dello Spirito Santo: nel battesimo siamo fatti figli nel Figlio e tempio dello Spirito Santo. E per questo il più antico gesto di benedizione è l’epiclesi: cioè è invocare lo Spirito Santo.

Mentre l’anamnesi è il pezzo che citavo prima, quello della memoria del sacrificio di Cristo ed è l’altra dimensione: quindi c’è sempre questa dinamica.

Su questa questione, la domanda seria è: perché i cristiani celebrano i sacramenti? Credo che sia una questione importante; noi siamo sostanzialmente usciti da una mentalità giuridica: cioè si celebrano i sacramenti perché se uno non è battezzato va all’inferno… se non è sposato in chiesa non sta bene… Siamo usciti da questa visione perché siamo in un mondo pluralista, si battezza o non si battezza, ci si sposa in chiesa o non ci si sposa in chiesa… e le vite vanno più o meno bene… Ma per ora non siamo entrati da nessuna parte, siamo sulla soglia: siamo usciti da una stanza, ma non sappiamo bene in quale stanza dobbiamo entrare.

Che cosa significa, per un cristiano, celebrare un sacramento? L’eucaristia soprattutto, ma anche tutti gli altri. Ossi, spessissimo, i cristiani impegnati, quelli che hanno esperienza parrocchiale, vivono il discorso dei sacramenti come il discorso di un impegno. Tendo a sottolineare questa idea: che il sacramento ha questa dimensione pubblica, ecclesiale, che si celebra in forma visibile… e dunque significa un impegno pubblico a ciò che quel sacramento riguarda. Questa cosa, se ci pensate un attimo, è veramente un obbrobrio teologico: nel senso che se la questione è il nostro impegno, non serve il sacramento. La Chiesa ha sempre conosciuto al forma di promesse, voti, privati, in cui uno faceva un voto: mi impegno a fare questo… Al di là della struttura di ragionamento che ci può piacere o no… Non serve un sacramento per prendere un impegno. Anzi, il sacramento dice esattamente qualcosa altro: il ragionamento per cui i cristiani celebrano i sacramenti è esattamente l’opposto. Ed è: di fronte alle cose serie, chiave della mia vita (la nascita, la malattia grave, il perdonarsi, il litigare, il cibo, l’assumere uno stato di vita che comporta uno stato di servizio nella comunità, un matrimonio)… di fronte a queste cose, che sono quelle cose fondamentali… Se uno si mette a pensare che cosa ci sia, oltre a quello, di veramente significativo nella vita delle persone, nella vita umana, fatica a trovarne un altro. Noi, forse, oggi aggiungeremmo qualcosa sulla professione, sul lavoro e il denaro, che è l’altra grane fetta importante. Tutto il resto, nascere, stare in salute, avere di che vivere, litigarsi e far la pace, decidere che cosa fare da grande, diventare aduli… c’è qualcos’altro? In questi momenti, cioè nelle cose veramente serie della propria vita, l’esperienza del cristiano è quella di sapere che il proprio desiderio non è commisurato alle proprie possibilità. Per esempio. Nasce un figlio: il mio desiderio su di lui è che sia bello, sano, intelligente, felice, che se la cavi sempre, che non faccia disastri, che io lo proteggerò, che io gli insegnerò… E questo è umano, bello, vuol dire che gli voglio bene. Ma se non sono totalmente fuori, so che tutti questi desideri, legittimi che dicono il mio bene, non sono nelle mie mani. Perché io farò del mio meglio, gli darò tutti gli strumenti e le possibilità e le cose che mi vengono in mente per… cercherò di curarlo, istruirlo, prepararlo, far tutto quello che mi viene in mente, ma… sia per quanto riguarda me, la mia possibilità di errori che posso fare, sia per quanto riguarda lui, la sua libertà, sia per quanto riguarda il caso, con le probabilità. Quindi sono tre elementi molto distinti: non è nelle mie mani poter dire, il giorno che un bimbo nasce, io ti proteggerò, ti educherò, farò di te uno ricco, felice, sereno, senza un problema, cresciuto, adulto, ben integrato… E così di fronte a ognuno dei nostri problemi, di fronte al nostro stesso diventare adulti, per fare un riferimento al tema della cresima, ognuno di noi ha un desiderio grande, di essere se stesso, di diventare grande come vuole, e non come gli altri gli dicono. Se non lo capisce a 14 anni, lo capisce poco dopo, non è nelle sue possibilità. Quando uno si sposa, la sua idea è: ti amerò per sempre, niente ci separerà mai: questo è il suo desiderio, giusto e bellissimo, ed è giusto così, altrimenti non si capisce bene perché uno si sposa, ma credo che uno capisce che questo non è nelle sue possibilità. Per lo meno, può andargli bene, lui può metterci tutta la sua parte, ma ci sono troppe cose che noi non possiamo controllare, stringere… Se non fosse altro per la nostra capacità di esprimere esattamente… di fare le cose che esattamente corrispondono a quello che sentiamo e che l’altro le capisca nel senso in cui noi le diciamo. Una delle cose che si sperimenta nel voler bene, tra genitori e figli o tra marito e moglie, è il 90% dei problemi nasce o disattenzioni o pessime comunicazioni; ossia nascono dall’esperienza: “io non intendevo… però tu non intendevi… ma questo è quello che è venuto fuori”.

L’esperienza che il cristiano fa è che le proprie possibilità e il proprio potere non sono sulla misura del proprio desiderio: il desiderio è più grande. E in questo, credere in Dio significa portare il proprio desiderio nelle mani di Dio, perché una epiclesi, cioè una invocazione di Spirito Santo, renda possibile il desiderio o renda il mio cuore capace di essere contento in ciò che non è in mio potere cambiare.

Il sacramento è esattamente il contrario della logica teorica dello schema: “io mi impegno a…”. Sono bellissime intenzioni, totalmente infantili, legittime, ma che non c’entrano nulla con la dinamica del sacramento cristiano. Cioè che spostano la tensione sul lato comunionale: noi saremo, diremo, saremo capaci di fare… E si dimenticano che se non c’è il surplus della grazia di Dio che fa un po’ come gli pare…  I cristiani celebrano i sacramenti per sé e per i propri figli, perché non sono ammalati di delirio di onnipotenza: e questo non è uno stato così comune in questo secolo. Perché i cristiani sanno di sé e dei propri desideri: ritornando come bambini, per citare il vangelo, vanno davanti al loro Dio e svuotano le tasche; i bambini quando ti fanno vedere tutto quello che hanno e tirano fuori quello che secondo loro è un tesoro, ma agli occhi degli adulti spesso  è una raccolta di schifezza di vario genere. I cristiani ritornano bambini, nell’avere la stessa fiducia del bambino che dice all’adulto: “guarda che bello!”. E portano il loro desiderio, così come in quel tempo della loro vita, con la maturità che hanno, con la comprensione di sé che hanno, con il cammino che hanno fatto fino a lì… e lo mettono sotto lo Spirito Santo dicendo: “Guarda che bello!”. E Dio, fortunatamente fa un po’ come vuole; nel senso che se Dio colmasse tutti i nostri desideri, molti di noi sarebbero profondamente infelici. Invece Dio mantiene le sue promesse, che è diverso: perché la sua promessa su di noi è la vita piena; che è una di quelle cose che, non solo è fuori dalla nostra portata per realizzare, ma non la sappiamo nemmeno desiderare. Questo sarebbe la traduzione per questo secolo di quel versetto evangelico che dice: “non sapete nemmeno cosa chiedere, se lo Spirito non lo suscita in voi”. Noi non siamo nemmeno capaci di desiderare, non sappiamo come immaginare una vita piena per noi e per tutti, contemporaneamente, piena davvero e piena in ogni stagione. Al massimo abbiamo un desiderio per noi che spesso esclude gli altri, e se non li eslcude, li sbatte un po’ perché non c’è spazio per tutti; io con il mio desiderio mi allargo un attimo. E poi va bene oggi, ma se ciascuno di noi ripensa a quali erano i suoi desideri lancinanti dieci anni fa… di cui una buona fetta li ha anche realizzati, con tutto ciò continua ad avere altri desideri nuovi… Forse si rende conto quando Paolo ci dice: non sapete nemmeno cosa dovete chiedere.

Ci sono i nostri desideri che sono un po’ i birilli e i pezzi di corda che sono le cose che abbiamo in tasca; che sono veri, che sono profondi, che sono seri anche perché non abbiamo un’altra vita, abbiamo solo questa. Noi li portiamo davanti a Dio, non perché Dio colmi i nostri desideri, ma li benedica e sia fedele alle sue promesse; siamo coscienti della nostra impotenza a realizzare anche solo i nostri desideri. E Dio, a modo suo, benedice i nostri desideri, ma ci dà la vita piena: ci dà ciò che non siamo nemmeno capaci di desiderare.

Questo è il motivo per cui i cristiani celebrano i sacramenti. E lo fanno su quelle cose fondamentali che fanno le cose serie della vita. Perché al di là di questa cultura in cui tutto è epocale, ogni avvenimento è storico, eccezionale, unico, ultimo… e tutti noi, ormai, ci irritiamo su qualsiasi cosa come se ne andasse della nostra esistenza, da un ritardo di cinque minuti a “non trovo le chiavi della macchina”… In tutta questa situazione, il cristianesimo ha mantenuto una sapiente e sana idea: le cose davvero importanti della vita sono poche, non capitano tutti i giorni e non capitano per distrazione. Le cose serie, in genere, richiedono la nostra presenza.

Se questo è ciò che noi celebriamo nei sacramenti, l’eucaristia che, è il sacramento ordinario, quello che si ripete più frequentemente, quello che è anche fonte e culmine (dice il Vaticano II), cioè la matrice della struttura del cristianesimo, è l’esperienza settimanale contro il nostro delirio di onnipotenza, per il riconoscimento dei nostri desideri, e per richiamarci quali sono le promesse di Dio. Quindi, per esempio, l’idea che non mi devo distrarre, non ho seguito bene l’omelia, sono uscito e non mi ricordo nemmeno più quale era la lettura … fa sempre parte di quella famiglia: i sacramenti sono un impegno. Certi giorni uno a messa sta attento e si ricorda la lettura o un versetto o una cosa; certi altri è disattento, altri ha la mente ingombra perché arriva a messa con un sacco di guai, si sforza anche di seguire cosa succede, ma i guai premono, e poi uno esce dalla porta e i guai ridilagano, e quindi dopo pochissimo si è dimenticato quale lettura è stata fatta… Tutto questo perché noi non siamo a misura del nostro desiderio: per esempio, noi desideriamo riposarci almeno una volta la settimana, e l’eucaristia è il riposo degli uomini di Dio. Le nostre possibilità non sono all’altezza del nostro desiderio di riposo: e dunque certe volte stiamo a sentire, altre ci prende, altre no.

Con questo quadro di fondo, quello che succede dopo questo annuncio tensionale, epiclesi e anamnesi, è quella piccolissima battuta centrale che il Vaticano II ha riintrodotto (come spesso, il Vaticano II riprende elementi molti antichi della liturgia) ma che per cinque o sei secoli non c’era più stata: che è quella battuta che noi diciamo in automatico “Mistero della fede. Annunciamo…”. È una di quelle rovine liturgiche venute bene: assolutamente geniale, fondamentale. Il prete ci dice, in persona christi, in modo particolare lì (dunque non è lui persona, il nostro parroco, ce lo dice la liturgia della Chiesa): vivere così, cioè tra orizzontale e verticale, tra desiderio e impotenza, tra fiducia in Dio ed esperienza di sé, è un mistero, ed è un mistero della fede. Quindi: se volevate una strada semplice con una ricettina precisa, avete sbagliato posto. Ulteriore traduzione: mistero della fede vuol dire che la vita è complicata. In certe lingue, come francese o tedesco, lì la formulazione è ancora più felice che in italiano, perché l’italiano ha mantenuto la contrattura del latino, ma su un italiano che invece funziona in un altro modo e quindi si rischia che non si capisca. In latino è Misterium fidei, il latino abolisce spesso i verbi; in italiano, mistero della fede fa venire in mente che sia un gran pasticcio in cui non si capisce molto. In francese e tedesco, con un po’ più di coraggio, hanno tradotto: è grande il mistero della fede. Tutte le traduzioni hanno dei limiti, si può discutere su quale è meglio o peggio… L’idea è che a fronte di questa tensione perfettamente vissuta dal Figlio di Dio, che ci è regalata, da questo sguardo su questo spazio tensionale della nostra vita, di cui ci viene detto che non è una malattia ma è segno di salute… Di fronte a tutto questo, che ci viene annunciato nel cuore della messa, ci viene detto, con tono di annuncio, di meraviglia, non di spiegazione, con un tono quasi poetico: è grande il mistero della fede! Cioè: è ben cosa seria cercare di imitare questo strano equilibrio che sta nella relazione con Dio e che nella relazione con Dio ha una direzione e un senso: la vita piena che nemmeno sappiamo desiderare.

Noi, a questa affermazione, rispondiamo: “Annunciamo la tua morte, proclamiamo la tua resurrezione, nell’attesa della tua venuta”. Anche qui è venuta bene: ciò che noi diciamo, a fronte di ciò che ci viene detto (è davvero grande questo mistero di equilibrio o di squilibrio), è:

  1. Non parliamo di noi ma di Gesù: ossia, l’unico a cui è venuto bene questo squilibrio è Lui; noi ci mettiamo in fila dietro,
  2. di Gesù diciamo che annunciamo la morte: è un evento; per quanto riguarda il male, la fatica, il dolore, la confusione… siamo preparatissimi, in questo sappiamo. Proclamiamo la resurrezione: cioè, come un 14enne arrabbiato puntiamo i piedi dicendo: questa vita in più ci sarà; c’è stata in Gesù e dunque ci sarà, Dio compirà le sue promesse e ci darà vita piena, oltre ciò che sappiamo desiderare. Nell’attesa della tua venuta: cioè, sappiamo bene che, tra l’annuncio della morte, tra tutta la dimensione negativa dell’esistenza su cui siamo preparatissimi e la testardaggine su ciò che crediamo e ancora non vediamo… tra questo e quello, c’è un tempo, c’è  da aspettare, bisogna avere pazienza…

Ora vi confesso una associazione, tendenzialmente poco sacrale: a me quella formulazione fa sempre venire in mente una frase di R. Queneao, poeta e scrittore, che a un certo punto, in un suo libro, in un dialogo tra due personaggi molto carini… Uno dei due, con aria molto sapiente, dice all’altro: “Per la chiarezza c’è tempo, nel frattempo viviamo di tisane e di speranza”. Ho sempre trovato questa frase di una eleganza molto grande: tutte le volte che dico “nell’attesa della tua venuta”, mi viene in mente… C’è questo lungo tempo di “tisane”, in cui le consolazioni che ci possiamo dare sono spesso evanescenti ed evaporanti come una tisana; però una tisana calda fa bene, fa caldicchio, fa digerire, ha un sacco di dati efficaci… poi certo non è la soluzione di tutti i mali e ci sono serie malattie su cui con una tisana non ci fa niente, ma è vero che regalarci alla sera un quarto d’ora, dopo una giornata stressante, fa sì che poi, in genere, uno riesca a dormire e a svegliarsi il giorno dopo non proprio pensando che la vita è un disastro. “Nell’attesa della tua venuta” sarebbe questa cosa: forse dovremmo imparare a offrirci tisane reciprocamente.

Il Concilio ha messo qui questa parte perché ci dice che nel punto in cui la tensione ci viene spiegata più chiaramente, noi siamo chiamati, se non altro a dirlo con le parole, a dire se ci stiamo a quel gioco; quindi, mi auguro, che ci saranno volte in cui non lo diremo: qualcuno dirà che questo gioco delle tisane e delle speranza mi ha rotto. Ma forse potremmo dirlo anche un po’ meglio.

Dopo questa parte (ed è bellissimo che sia dopo), ci sono, diversamente dai canoni che si usano, le intercessioni: “Ricordati di…il tuo servo e nostro papa…”. Questa cosa mi commuove sempre un po’: mi sembra così carina l’idea che, quando uno deve vivere di tisane e speranze, allora chiama tutti: i vivi e i morti, i buoni e i cattivi, i santi e i peccatori, quelli che si impicciano di Chiesa e tutti quegli altri… siamo tutti nella stessa barca. E lì è veramente il tempo in cui, quando qualcuno ci chiede di pregare per lui, il tempo è quello. Perché quelli che ci chiedono di pregare per loro, non ci chiedono di fare un atto magico, che lo sappiano o no, in cui, se raccogliamo più punti-Paradiso è più facile prendere il premio… Ma ci chiedono, questo almeno è il senso della preghiera cristiana gli uni per gli altri, di ricordarci reciprocamente in questo tempo di attesa e di metterci tutti dalla stessa parte; a, come dicevo l’altra volta, ricorda a Dio le sue promesse, finchè Gerusalemme non sia stabilita, non prendersi mai riposo e ricordare a Dio le sue promesse finchè Gerusalemme non sia ristabilita. Questo è il motivo per cui la messa è offerta: questo è il momento in cui proprio le frontiere della vita, del tempo, dello spazio (per questo si prega sempre per la Chiesa universale) … è veramente il grande momento di questa raccolta. A me sembra, personalmente, che una delle cose più difficili della vita sia volersi davvero bene: quando uno vuole bene a qualcun altro, non in astratto (ti importa come stanno, vorresti essere gradevole per loro e che loro fossero gradevoli per te,  abbiamo voglia di stare con loro, tempo da passare insieme…), più vogliamo bene e più tutto quello che noi siamo, le nostre nevrosi, le nostre fatiche di comunicazione, la facilità/difficoltà di esprimersi, le parole che diciamo, le nevrosi degli altri, le loro facilità/difficoltà di comunicazione… tutto questo ci impiccia un sacco. È così difficile volersi bene e basta, perché volersi bene si tira sempre dietro un sacco di pezzi di noi che fanno pasticcio, che confondono, che non ci capiamo, che capiamo troppo… Il Paradiso sarà un po’ il posto dove ci vorremmo bene e basta, e dove volersi bene sarà semplice, e dove ognuno (pensare che bella cosa) vorrà bene a quegli altri come lui sente che vuole bene, e quegli altri si sentiranno voluti bene come loro vogliono sentirsi voluti bene. Che è una grande idea: uno dei problemi fondamentali è sempre quello, che io voglio essere voluto bene in un certo modo e so voler bene in un certo modo, ma quell’altro vuole essere voluto bene come vuole lui, e vuole bene come vuole lui, e ritrovarsi… Questo è molto più facile, nel senso che vogliamo bene a chi sta dall’altra parte della Terra, perché siccome i modi non si incrociano, noi vogliamo benissimo. Con quelli che ti stanno tutti i giorni sui piedi, dato che i modi si verificano, è un po’ più complicato. Il Paradiso sarà quel luogo in cui ognuno vorrà bene e sarà voluto bene esattamente come vuole lui. Ma funziona come la Pentecoste: i discepoli parlavano nella loro lingua, ma ognuno li sentiva nella propria lingua. Questa è un’operazione dello Spirito Santo.

Tra il “Mistero della fede” e la fine della consacrazione (“Per Cristo, con Cristo…”), quello che facciamo è un anticipo, molto emotivamente raffreddato perché altrimenti diventa un caos, e quindi ritualizzato con delle parole prescritte che sono date, un anticipo di: “Tutti insieme appassionatamente”, tutti voluti bene come è giusto che gli si voglia bene; per un minuto e mezzo, buttiamo l’occhio sul Paradiso, dove tutti, vivi e morti, papa e vescovi, cristiani, buoni e cattivi… saranno voluti bene come vogliono; in quel momento lì, noi li mettiamo tutti nelle mani di Dio, perché il nostro grande desiderio sia così. Questo è l’altro grande desiderio che non è nelle nostre possibilità. Lì facciamo proprio questa operazione, li prendiamo tutti e ci mettiamo anche noi; quel pezzo lì è assolutamente un piccolo anticipo di Paradiso, dove uno può, con sincerità, compreso se ha smesso di litigare appena prima della messa e riprenderà appena fuori con il suo vicino… con tutta sincerità dire dentro di sé, in nome di quello che ha seduto vicino, e che vorrebbe essere tanto capace di volergli bene e in un modo che a lui arrivi, e che vorrebbe essere voluto bene da lui, in un modo che a lui arrivi… e in tutta sincerità, se io dico dentro di me quel nome lì, in quel momento della messa, è così! Solo per quel momento lì, finisce subito. Perché sta dalla parte dello Spirito Santo, non dalla nostra.

E questo, giustamente, viene concluso con: “per Cristo, con Cristo e in Cristo”. Si capisce, a questo punto… cioè, tutto questo: per Cristo, con Cristo e in Cristo; perché per noi, non ancora tanto. Credo che si capisca quello che vuole dire quella dossologia; e giustamente il Concilio dice che quell’ “Amen” li è l’Amen più importante di tutta la liturgia: capito così, diventa anche l’Amen più importante per noi. Questo è lo squarcio di Paradiso, tutti insieme appassionatamente, tutti voluti bene come vorremmo, in Cristo: ci state? E sì! Quell’Amen lì vuol dire ok, questo è il mio desiderio. E non in astratto sul mondo, ma rispetto alle fatiche quotidiane di volersi bene, che non sono legate all’egoismo, ma proprio alla fatica reale che uno fa a…

Se pensate un attimo a questo momento dopo al “per Cristo, con Cristo…”, che cosa vi viene in mente della dinamica della messa? Che in genere, dopo quell’Amen, c’è un attimo di confusione; la gente si alza, si alzano gli inginocchiatoi, c’è come un sospiro collettivo. Questo è esattissimo dal punto di vista liturgico: quello che succede dopo funziona come (vorrei fare un esempio, che per me è molto chiaro e non vorrei che qualcuno si sentisse ferito…) i caffè dei pranzi di Pasqua e di Natale; in genere uno si carica di una tensione micidiale durante la fase preparatoria, perché è contento, ha voglia di … perché non solo ci sono tante cose da fare, ma anche tensioni perché sono i momenti in cui ci si incastra molto da vicino… E poi, soprattutto chi ospita, per tutta la prima parte del pranzo è eccitatissimo, sia organizzativamente di far funzionare tutto, sia che tutto sia buono, che tutto funzioni… Poi c’è il punto, in questi pranzi, che sembra avere una durata eterna… a un certo punto si il caffè in tavola e gli amari, e lì c’è il momento in cui tutti si sbracano, nel senso  che dici: il peggio è passato. Cioè, non ci siamo scannati fino a qui, adesso, ormai… anche perché, se si scatenasse una tensione, dopo il caffè è più facile dire, dobbiamo andare… Uno non può far la stessa cosa dopo gli antipasti.

Dopo la dossologia funziona come: hanno servito il caffè. La grande tensione, la serietà, la coscienza di sé, il prendere atto della propria vita che non sempre è un’operazione banale, il curare il proprio delirio di onnipotenza, il darsi una calmata… Dopo quell’Amen lì, è andata: anche questa domenica è andata, anche questa domenica Dio ci ha detto che sarà fedele alle sue promesse, e dunque ci si rilassa. È l’ultima parte della messa.

Padre nostro

Chiedo scusa al liturgisti, ma io la penso un po’ così: questa è proprio la parte dei bambini, nel senso di noi bambini. È il momento del segno della pace, del Padre Nostro… Infatti, istintivamente, questa è la parte in cui il popolo di Dio, dopo la riforma, fa più caos; in cui c’è tutta una serie di invenzioni… perché è proprio la parte in cui noi diciamo la preghiera che abbiamo imparato nell’infanzia, e che è una preghiera semplice, che è il Padre Nostro, che dice ancora una volta che il centro sta in Dio, ma questa volta in Dio come Padre; sei tu l’adulto, noi siamo piccoli, cavoli tuoi… Noi abbiamo detto che ci stiamo, dato che tu sei Padre e noi siamo figli, dunque il problema è tuo. Questo è il senso del Padre Nostro li: uno dice, ci pensa papà. È quella cosa stupenda che i bimbi hanno di fronte a una serie di eventuali problemi dell’esistenza: io lo dico al mio papà; cosa su cui, in genere, i papà si sentono male, nel senso che fino a quando i problemi sono di un certo livello ce la fanno, ma quando poi…

Lì, dire il Padre Nostro è esattamente dire: ci pensa papà. Dunque, va bene, io ho detto che ci sto, dunque occupatene.

Scambio della pace

È la pace di Cristo, non è la pace nel senso: noi facciamo la pace. È dire: se ci pensa papà, una soluzione c’è. Continuo con l’esempio: in qualche modo si farà, e dunque noi siamo contenti.

Riti di comunione

Poi ci sono una serie di gesti e di parole, che sono molto antichi: l’ostia che viene spezzata e un pezzettino viene messo nel calice, la recita dell’Agnello di Dio, poi il “Signore non sono degno…”. Che sono un collage di dimensioni molto antiche che hanno origini funzionali: cioè nelle prime celebrazioni dello spezzare del pane, celebrava solo il vescovo; man mano che le chiese si allargavano, nei paesi vicini, a quel punto il vescovo divideva il pane consacrato e ne dava dei pezzi ai diaconi che lo portavano alle altre comunità o agli ammalati. Non si consacrava dappertutto: il segno del pezzetto spezzato e messo nel calice, è quell’idea lì, che veniva diviso il pane consacrato e mandato a raggiungere tutti coloro che per qualche motivo non erano lì. Questo comportava dimensioni delle comunità di un altro tipo, una vita credente di un altro tipo, una cultura diversa… era tutto diverso… Ma è rimasto quel segno, che spesso ci è stato spiegato che è come se quel pezzettino sarebbe la nostra partecipazione, che Gesù fa tutta l’ostia e noi facciamo quel pezzettino, che va anche bene… Tutto si può spiegare in tanti modi, ma qui l’idea è proprio quella dello spezzare e, simbolicamente, del distribuire. Quei segni e quei gesti sono l’idea che ciò che accade lì, non accade solo per lì, che non è solo il privilegio di quei buoni che sono andati a messa e sono rimasti fino a quel punto, ma che è qualcosa che riguarda la totalità, che c’è una misteriosa comunione, che non si fa materialmente, ma che ci raccoglie.

Alcune chiese ortodosse conoscono una duplice factio panis: c’è lo spezzare del pane consacrato come nell’eucaristia latina e distribuita; dopo si spezza un pane benedetto ma non consacrato che viene distribuito ai chierichetti, ognuno si porta un fazzoletto da casa, viene dato un po’ e ognuno se lo porta a casa fino alla domenica dopo. È il pezzo che viene offerto a chi viene a trovare: se un ospite viene, la prima cosa che si fa è prendere questo fazzolettino e gli si dà un pezzetto di questo pane benedetto, ma non consacrato. Hanno mantenuto quel gesto, noi abbiamo solo la distribuzione dell’ostia consacrata, ma l’idea è una: l’idea è che uno si porta a casa un pezzo, e poi lo divide, con chi va a trovarlo, con le mille cose che accadono nella vita..

E poi c’è l’andare alla comunione. Gli italiani che non fanno le cose per nessun motivo al mondo, fanno la comunione come se fossero dei giovani soldatini, tutti in fila; con quello che ti guarda malissimo se arrivi dalla fila laterale… Questo nasce da un’idea molto forte, sacrale, che abbiamo…

In un paese dove la gente fa la coda per tutto, tipo i tedeschi che sono ordinatissimi, il modo di andare alla comunione è proprio di affollarsi attorno all’altare: ogni posto ha le sue tradizioni e va benissimo. Ma l’idea è che quella convocazione è una convocazione attorno a una mensa, non è una distribuzione, come noi diciamo spesso. Non è che uno si mette pazientemente in coda come dal medico, ad aspettare la tessera. Uno viene convocato attorno a una mensa: non deve cambiare il gesto, ma l’idea sì.

Una delle cos che faccio spesso, perché son un bastia n contrati, e personalmente serve e mi diverte, è che io in genere faccio il contrario di quello che fanno gli altri. Nelle chiese di Roma, dove la gente si affolla perché sembra che gli si freddi la comunione, aspetto e vado per ultima; nei posti dove tutti si guardano e non si muove nessuno, io parto… Uno deve anche un po’ giocare con questi gesti, non nel senso di mancanza di rispetto, ma giocare seriamente: per non entrare nella logica che ci siano tentazioni molto forti, in alcuni luoghi come qui, che ci sia uno e un solo modo di fare le cose. È per ricordarci che c’è un pasto, noi siamo convocati a questo cibo, e poi la forma deve essere solo civile, si evita di spintonare, ma non è obbligatorio né fare delle coreografie perfette, né fare molta confusione.

Congedo

Il congedo è composta di due parti: l’orazione sui fedeli e la benedizione sui fedeli. È conosciuto come congedo, ma non si chiama così, perché non è che uno dice: arrivederci a domenica prossima. Ma è l’idea che, quando uno è arrivato a quel punto lì, con tutto quello che abbiamo detto fino ad adesso, la tensione che si gioca per se stesso comincia, non è che finisce. “Ite missa este”, da cui il nome messa, è: andate, la missione è data. Come dire: queste sono le regole del gioco, adesso giocate. Per questo motivo la Chiesa dice che lì c’è un raddoppio: una orazione sui fedeli e una benedizione sui fedeli, perché uno va attrezzato.

Una delle cos che io trovo più orripilanti, è il saluto mondano dall’altare alla fine della messa. Da una parte, in modo collettivo, c’è il formulario liturgico: “Andate, glorificate il Signore nella vostra vita. Rendiamo grazie a Dio…”. Basta: i credenti si salutano così, non si salutano in un altro modo. Dall’altra, se si vuole incrementare il discorso umano, un rapporto, una conoscenza, noi non siamo una massa che rispondiamo in coro come dei fessi, noi siamo delle persone. Allora il prete va in fondo, non direttamente in sacrestia, alla porta di uscita e saluta la gente che esce. Siamo esseri umani e quindi ci fa piacere di dirci “buona domenica, come va, come è andata la settimana…”, di dircelo tra noi, di dirlo al prete o che lui ce lo dica: va benissimo, ma non siamo una classe, tutti in coro… Il prete, invece di andare direttamente in sacrestia, va alla porta di uscita e saluta le gente che esce. In genere, tra l’altro, se si fa così, quello che si ottiene è che la gente non si muove, fino al momento in cui il prete non è arrivato alla porta di uscita. Magari le prime volte no, ma poi la gente capisce il meccanismo e questo sarebbe di grane vantaggio anche organizzativo. Se decidiamo che il saluto è comune, perché siamo troppi, non c’è tempo per salutare tutti, forse non ci conosciamo abbastanza per salutarci in modo personale… allora ci sono le parole della liturgia; il saluto della liturgia è serio, molto più serio che “buona giornata”.

Queste mi sembrano delle tipiche operazioni post-conciliari, apparentemente umanizzati, ma che fanno sì che non capiamo meglio la liturgia, ma non siamo nemmeno valorizzati come persone, ma semplicemente aggiungiamo un rito apparentemente modernizzato, ma che rimane un rito per cui tutti in coro diciamo grazie.

Con oggi ho finito le mie riflessioni sulla messa.

DOMANDA: ancora qualcosa sul denaro?

RISPOSTA: i desideri sul denaro, quelli legittimi, sono tutti alla nostra portata. Quelli che non sono alla nostra portata non sono legittimi. Perché il denaro, come le cose, il successo, è qualcosa che riguarda noi, la storia, non è male di suo, ma riguarda le cose che ci attengono. E dunque le cose sono il nostro compito, degli uomini, non c’è bisogno di invocare Dio. Per ciò per cui ci sarebbe bisogno di invocare Dio, significa che è qualcosa che è troppo.

Diverso è il discorso sulla giustizia che è un’altra questione. E l’eucaristia è il sacramento che riguarda anche il ristabilimento della giustizia.

Non c’è sulla richiesta del compimento del desiderio da parte di Dio circa il denaro e le cose, per ciò che riguarda la vita ordinaria. Perché quelle cose lì attengono a noi, e dunque fai quello che sai fare, fino a dove ci arrivi; sai anche che non sei tutto lì, quindi se ci sono delle cose che non sai fare, forse è perché ne potevi fare a meno.

Fossano, 13 aprile 2002

Testo non rivisto dal relatore

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