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24 Novembre 2001
Stella Morra

1. Introduzione: la liturgia nella vita cristiana

Commento a:


Introduzione

Questa idea di questo percorso di riflessione sulla liturgia è nata quest’estate, in un campo ad Acceglio, in cui c’erano alcune persone che sono qui presenti, dove, all’interno di un altro ragionamento, abbiamo parlato di alcuni aspetti di liturgia. È venuta fuori una reazione in cui ci si è chiesti: “ma di cosa si stava parlando?”.

Credo che la liturgia sia la cosa in cui abbiamo l’esperienza e in cui trascorriamo la maggior parte di ore, per chi frequenta gli ambienti della parrocchia: molto del tempo è trascorso comunque all’interno di messe e preghiere comuni, esperienze di sacramenti, preparazione ai sacramenti o di cose di questo genere. È quindi esperienzialmente una delle cose di cui abbiamo la massima esperienza, e dal punto di vista, invece, della riflessione, e cioè del contenuto, della comprensione di ciò che accade, credo che sia una delle cose in cui siamo più analfabeti. Una decina di anni fa si diceva che non si sapeva nulla di Bibbia (il che è vero, in parte), ma almeno spesso sapevamo che non sapevamo niente. Sulla liturgia, molto spesso, non sappiamo neppure quale sia la domanda da fare: a molti accade, credo, di non rendersi nemmeno conto di cosa non sanno. Secondo me, questo è un po’ peggio, perché ci mette, nei confronti della liturgia, in una situazione di totale minorità, cioè di essere totalmente affidati o a chi la presiede o ha l’ultima idea che è venuta, in cui ci sediamo attorno a un tavolo e decidiamo di fare una cosa piuttosto che un’altra. Su questo tipo di esigenza, cioè non sull’esigenza di riflessione per diventare degli animatori liturgici piuttosto che degli animatori del coro, ma sull’esigenza assolutamente base rispetto a: come funziona, cosa mi posso aspettare, che cosa ho diritto di chiedere, quali sono i criteri su cui posso dire, per esempio, ho partecipato bene o male a una liturgia e così via… su questa esigenza, finalizzata unicamente al fatto di capire qualcosa di più per se stessi, sono state pensate queste riflessioni. Questa è una differenza abbastanza fondamentale, perché più o meno, è come il paragone di imparare una lingua per impararla o per insegnarla: sono due cose abbastanza diverse; chiaro che prima bisogna saperla parlare, non basta saperla parlare per saperla insegnare, c’è un passaggio in più. Funziona un po’ allo stesso modo: la liturgia è una lingua, un  linguaggio e in qualche modo bisogna imparare a parlarla, se uno è interessato a questa questione, o comunque rendersi conto di qual è il meccanismo, di come funziona. Poi se uno, a seguito di questo, decide che, in seguito a una esigenza che c’è in una comunità di chiesa e in seguito a un suo desiderio, può essere utile che dia una mano ad altri rispetto a questa cosa qui, dunque che faccia un servizio di animazione liturgica, bisogna fare ancora un passaggio: non è la stessa cosa.

La finalità di questi incontri è soltanto legata alla finalità per dire per noi, e c’è una serie di questioni che affronterò unicamente da questo punto di vista, ma che se sono affrontati in altri modi hanno altri aspetti da toccare.

La seconda idea è che quest’anno è facilissima da fare, un’esperienza nuova, non ho molta pratica, dobbiamo trovare i tempi e i luoghi. Dobbiamo reagire, fermarci se non è chiaro. Troviamo un modo per comunicare per darci una misura sulle cose su cui stiamo ragionando.

Abbiamo impropriamente chiamata lectio, ossia con il metodo sulla parola di Dio, ossia una riflessione gratuita da cui ognuno trae le proprie riflessioni, non ha nessun obbligo, di prendere un impegno. Ognuno ascolta e se gli serve, in modo semplice. L’applicazione del termine è impropria, per dare la continuità all’esperienza di questi anni.

Un programma.

Per preparare i 6 incontri ho fatto alcune scelte di temi, che non sono fissi, ma sono le cose di più uso corrente, dell’uso quotidiano di questa questione. Se ci sono temi che interessano di più, possiamo fare delle modifiche.

La mia idea sarebbe di dedicare questo incontro e il successivo a un aspetto introduttivo, per entrare nella logica e così, con la prossima volta, provare a rispondere alla domanda: “che cosa mi posso aspettare? E che cosa devo fare? quali sono i criteri per cui posso uscire da una liturgia e dire che ha funzionato oppure no?”. Per esempio il criterio è quello della distrazione: se mi sono distratto, ho seguito male. Spesso è segno di salute mentale, di fronte a certe omelie è sano distrarsi. Bisognerebbe chiedersi se il criterio è la distrazione, rispetto alla liturgia, se il problema è non distrarsi. Se noi parlassimo di come è andato un pranzo in famiglia non credo che il criterio che useremmo sarebbe quello: non mi sono mai distratto. È vero che uno poi di fatto non si distrae, ma non è quello il criterio che gli viene in mente per giudicare se il pranzo di Natale con i parenti è andato bene o no.

Questo sarebbe il secondo tema, ossia che cosa vuol dire una buona liturgia, che effetti fa.

Poi vorrei dedicare due incontri, gennaio e febbraio, a una riflessione sulla messa. In un modo pedestre, come abbiamo fatto per il catechismo della seconda elementare, e che poi non abbiamo più fatto; questo è un problema perché nel catechismo lo abbiamo fatto a misura dei 7 anni e ora non abbiamo più 7 anni e non lo abbiamo più fatto. Prendendo l’Ordinario della messa, una risposta, un pezzo dopo l’altro, vedere come funziona.

In marzo farei una introduzione sulla preghiera personale e sulla preghiera liturgica: pregare da soli, pregare insieme, quale è la differenza tra pregare da soli e insieme. Uno dei problemi è che noi usiamo gli stessi criteri, del pregare da soli per il pregare insieme: un buon pregare insieme è come mi sento quando prego da solo; significa che pregare da solo è una noia. È un po’ poco, bisogna ragionare su come funziona

E l’ultimo incontro, di aprile, sarà sui sacramenti e su questioni sui sacramenti. Io ne ho in mente alcune, ma se, nel corso del cammino ne emergono altre va bene: i sacramenti non sono solo quelli dei nostri figli, sono anche la confessione, l’eucarestia in se stessa. Teniamole in modo che io sappia quali sono gli interessi.

Questa sarebbe l’idea generale. Oggi cominciamo con un po’ di introduzione, che ci metta nel tema e poi correggiamoci andando avanti. Se non ho commenti di nessun genere vuol dire che va bene.

Il posto della liturgia nella vita credente.

Il punto di partenza mi sembra che sia questo: che posto ha la liturgia rispetto alla vita cristiana. Detto così è teorico. In modo concreto vuol dire: cosa c’entra l’obbligo dei sacramenti, l’obbligo di andare a messa, l’esperienza della preghiera, il festeggiare la Pasqua e tutto il resto, rispetto al fatto che uno dice di se stesso che è un credente? Qual è la relazione tra le due cose, come funzionano e che rapporto hanno tra di loro? Credo che tutti a 14 anni abbiamo fatto il ragionamento: “io posso amare gli altri, anche senza andare a messa la domenica”, quando cercavamo di spiegare ai nostri genitori perché non volevamo più andare a messa. Forse bisognerebbe da adulti avere il coraggio e rifarsi le stesse domande che ci facevamo quando avevamo 14 anni, che cosa succede nella mia esistenza se la liturgia c’è oppure no, che cosa cambia?

Tre profili di liturgia.

Io credo, per me personalmente (magari non riguarda nessuno di voi, oppure si), che ci siano tre esperienze, tre aspetti che noi normalmente utilizziamo per capire che a che cosa serve la liturgia:

  1. Il dovere o il sacrificio: l’idea è che la liturgia è una cosa che si deve fare; vuol dire che uno compra tutto il pacchetto. Se uno si dice credente ha acquistato tutto e ci mette dentro questa questione, il credente fa in questo modo. Caso mai, uno ha il problema specifico di farsi piacere o meno, di farsi servire o no il singolo pezzo. Spesso noi diciamo: non mi piace il rosario o l’adorazione eucaristica; oppure non mi piace il rosario o mi piace. Ma non ci poniamo la questione che sta a monte, ossia che cosa c’entra rispetto a tutto il resto? Ho acquistato a scatola chiusa tutto il pacchetto oppure posso orientarmi? Questa idea del dovere o del sacrificio, dell’offrire qualcosa per, è molto legata al fatto che dopo l’800 le penitenze dopo la confessione erano delle preghiere: per penitenza una persona doveva recitare 5 Pater, e questo è un po’ strano: che la preghiera sia un’esperienza di penitenza, fa un attimo venire i brividi. E come prendere l’olio di ricino, è male incastrata. Ha radici storiche e chiare culturalmente, fa parte di forme concrete praticabili, di modi e atteggiamenti, cose da fare, modi per capirsi, che hanno identificato il cristianesimo per due secoli, fino a un punto di rottura alla fine dell’800, fino al Vaticano II. C’è stato un modo di pensarsi cristiani, in termini di visibilità, dell’esperienza, della quotidianità, che si è prolungato e peggiorando, per due secoli, irrigidendosi in una serie di formule che si sono spezzate a cavallo dell’inizio del 900 e di fronte alle quali il Vaticano II ha colto la domanda che c’era sotto e ha rigirato le questioni comprendendo la domanda. Il problema è che il Vaticano II ha reimpostato le idee, ma queste cose non erano idee, ma prassi concreta. Dopo il Vaticano II ha reimpostato le cose, noi abbiamo trovato dei nuovi modi per fare le stesse cose, ma con nomi nuovi. Faccio un esempio molto chiaro. Fino al Vaticano II il precetto domenicale era un precetto indiscutibile: chi è un buon cristiano va a messa la domenica, non c’è da discute, non c’è da chiedere il perché. Dopo, l’idea che ci sia una legge che non ha motivo e ragione, ma è un obbligo, non funziona, non suona più bene, anche per i cambiamenti culturali degli anni ‘70. Poi il Vaticano II aveva rigirato tutta la questione. Dunque sono uscite tutte quelle espressioni che dicono: non è che sia un obbligo, ma un cristiano deve sentirne l’esigenza. Con l’ottimo risultato che noi adesso invece di un obbligo ne abbiamo due, ossia dobbiamo comunque andare a messa e abbiamo anche l’obbligo di sentirne l’esigenza. L’obbligo di andare a messa almeno era chiaro: cioè se uno la domenica andava lì, arrivava prima dell’offertorio e se ne andava almeno dopo l’elevazione, era tranquillo che aveva esaurito l’obbligo festivo. Sull’obbligo di sentirne l’esigenza, è talmente complicato stabilire se ne ho sentito l’esigenza oppure no, se ho sentito l’esigenza giusta o no, se ho sempre sentito l’esigenza oppure mi sono distratto e ad un certo punto non ne sentivo l’esigenza… uno riesce a sentirsi perennemente in colpa. Gli pare comunque, che sarebbe troppo presuntuoso dire: “sì, ne sentivo l’esigenza, l’ho proprio sentita bene questa esigenza. Ma ci sarà qualcosa che non ho capito e che non funzionava”. Questo esempio mostra come è difficilissimo uscire dalla logica del dovere della liturgia vissuta come dovere o sacrificio, come qualche cosa che si fa perché è così e punto e basta. È come noi abbiamo molte risposte apparentemente ammodernate, che giocano sugli aspetti di sentire, capire, sensibilità ecc… che sembrano cambiare questa logica del sacrificio, ma in genere la confondono solo. Allora una delle cose da sapere è che la liturgia ha nella vita credente un posto povero, cioè la liturgia è fatta per chi sa poco, capisce poco, è molto stanco, ha poco tempo e ha poco da pensare. Dunque, se diventa così complicato che io non so nemmeno se ho esaurito l’obbligo o no, perché ci vanno tali criteri per capire se l’ho esaurito oppure no, c’è qualcosa che non funziona. Perché la liturgia è veramente, come la definiscono tutti i Padri, il riposo di Dio e degli uomini: questo è il suo tono, è un luogo i cui  criteri devono essere concreti, semplici, piccoli, visibili; non può essere niente di stranamente psico-emotivo-sentimentale. Ed è vero (e in questo era molto sano il discorso precedente al Vaticano II sul precetto che si esauriva a certe condizioni o no) la liturgia non è fatta tanto di testa, di intenzioni, di profondità e così via, ma ha un aspetto estremamente materiale. La liturgia è un luogo di corpi, parole e di gesti. Dunque, alcune cose si fanno o non si fanno, e poi non tute le volte che fai certi gesti ci metti dentro tutto te stesso, non tutte le volte che dici “buongiorno” a uno ci metti dentro tutto il desiderio e l’augurio profondo che sia per lui uno stupendo giorno. Ma in questa tribù occidentale, se incontri una persona le dici “buongiorno”, per educazione; poi ci sono alcuni “buongiorno” che pesano più degli altri. Ma tu, comunque, dici “buongiorno”, perché questo gesto di mette all’interno della comunità occidentale, dentro una comunicazione civile, in cui quello che stai dicendo è: “non ho intenzione di morderti, sono qui, esisto e ti vedo”. Poi si vede che cosa succede, poi si inizia a parlare, ci si chiarisce o non ci si chiarisce, poi succedono tante altre cose, ma il segnale che tu dai, con un gesto convenzionale, è: “ok, sono qua, ho visto che ci sei anche tu, perfetto, buongiorno. Allora?”. La liturgia sta dalla parte di segni convenzionali, che sono gesti, parole, posizioni del corpo eccetera, che quindi ci sono o non ci sono. Sant’Ignazio dice, rispetto a un passaggio dei suoi Esercizi Spirituali, che ci sono giorni in cui lui non può obbligare la sua mente a stare concentrata su Dio, non può obbligare il suo cuore, non riesce a obbligare il suo cuore ad amare Dio, ma può obbligare le sue ginocchia a stare piegate. E quindi, tanto basta, in quei giorni lì. Cioè funziona esattamente al contrario rispetto al nostro criterio: mi sono distratto / non mi sono distratto. La liturgia è l’offerta semplice per cui uno, certi giorni, a casa, cucinando pranzo e cena per tutta la famiglia tutti i santi giorni, certi giorni tira un po’ giù il pranzo così, e magari sbatte la pasta in tavola non con particolare buona grazia. Il dato qualificante di quel gesto è che comunque, anche quel giorno lì, ha fatto pranzo, e quello è il dato positivo, e non ha lasciato il biglietto: “arrangiatevi, sono fuori a pranzo!”. E poi ci sono i giorni, in cui uno, tutto sommato è più contento, ha più voglia, e fa anche un pranzettino più bellino e anche carino. Allora, la liturgia funziona esattamente allo stesso modo: è un gesto che è talmente povero, talmente stereotipato, talmente ripetitivo, talmente già tutto previsto, che anche se tu non ce la fai proprio ad esserci, con la testa, con il cuore, con la volontà, ma giusto ti porti fino a lì, quella cosa lì ha la sua forza nel fatto che c’è, che ti sei portato fino a lì. E che la convenzione del gesto dice che il tuo desiderio sarebbe di esserci anche un po’ più tranquillo, un po’ più contento. Quindi c’è questa prima tematica, quella del dovere / sacrificio, su cui, secondo me, bisognerebbe un po’ pensare. L’idea che sta dietro è che la liturgia è un tempo dato a Dio. Giustamente, il problema che noi abbiamo è che noi non abbiamo mai tempo. Se la liturgia è un tempo che io do a Dio, dunque io faccio il sacrifico di offrigli un’ora, due ore e così via… e non ci sono mai le messe alle ore giuste, noi non abbiamo mai tempo di passare in chiesa, è chiaro no? Perché se la mia percezione è che io devo ritagliare, in una vita in genere abbastanza pienotta di suo, un tempo che è un tempo buttato via, tra virgolette, ossia un tempo che prendo e lo do a Dio, o mi fanno la messa esattamente in quella mezz’ora in cui io posso sganciare da tutto, oppure non mi è comoda. Ma è chiaro che nelle nostre esistenze, quando noi ci prendiamo del tempo che noi percepiamo come tempo per noi, funziona in un altro modo, cioè noi siamo disposti a lottare abbastanza per prenderci un tempo. Solo che queste due idee, in genere, non vanno bene insieme. Mi spiego… se io sono particolarmente isterica, il mio percorso della giornata, essendo pienissimo e avendo tante cose da fare, finisce che io, quando finalmente, a una tarda ora notturna, ho finalmente sbrigato tutto l’urgente, e comunque non posso più telefonare o fare perché è un’ora troppo tarda per… L’idea che mi viene non è, siccome ho bisogno di dormire, vado immediatamente a letto, ma in genere uno si ritaglia quei dieci minuti della giornata in cui sta calmo, si travacca, legge un libro oppure guarda un pezzo di TV… fa una piccola cosa in cui rallenta. Perché l’idea che mi viene non è che se io, prima di andare a letto, mi metto in poltrona sfogliando una rivista che non ho ancora letto e bevendo un bicchiere di Cocacola con calma senza correre, se faccio quello, perdo del tempo. La mia percezione è che io me lo prendo quel tempo lì. E penso che sia meglio se dormo mezz’ora meno, ma che vado a dormire rilassata, perché se vado a dormire assolutamente stressata non dormo. Cioè trovo comunque un modo, magari alla fine di tutto, di prendermi una cosa e di dire: “adesso fermi tutti, tutti sistemati, nessuno ha più fame o sete, non c’è più nessuno a cui dare da mangiare e nessuno da sistemare; siete tutti calmi? Perfetto, anche io adesso mi calmo”. Perché quello è un tempo in cui io decido che quello è tempo mio. Se io, quando arrivo a quel punto lì, come succede, e sto per sedermi in poltrona e c’è qualcuno che ha una richiesta, io potrei uccidere! Perché già tutto il giorno ho risposto a tutto il tempo che mi è stato rubato e nel momento in cui sto per prendermi un tempo, se qualcuno tenta di occuparmelo, che cosa gli dico? “Ah, sono stanca, devo andare a dormire, altrimenti non dormo abbastanza”. Ma in realtà, io non stavo andando a dormire, stavo prendendomi un tempo. Fino a che la liturgia è vissuta come una richiesta sulla nostra esistenza, un dovere, un sacrificio per cui Dio, che pare essere una sanguisuga, la domenica mattina (che sarebbe il momento in cui uno potrebbe dormire un attimo – fosse il martedì pomeriggio, uno si organizza, ma la domenica mattina è difficilissimo)… Giustamente abbiamo inventato la settimana corta per avere il sabato che è il giorno in cui faccio tutte quelle cose che non riesco a fare in settimana. Dio, la domenica mattina, mi si presenta con una richiesta di un’ora o giù di lì, e mi deruba di questo tempo, io devo essere molto eroicamente cristiano per pensare che gli offro quell’ora. C’è un problema su questo, rispetto a questa esperienza che abbiamo: ma non è una follia, è un’esperienza che forse va ripensata, risistemata. Però è l’esperienza del tempo della liturgia come tempo di dovere e di sacrificio, come tempo dato, e non tempo reso, in qualche modo.
  2. C’è una seconda esperienza o sentimento comune rispetto alla liturgia, e sarebbe un po’ l’idea che la liturgia è una questione spirituale. Questo fatto sta diventando molto di moda, ultimamente; ossia, quest’idea che la liturgia sia un’esperienza, un luogo, un tempo, di ricarica spirituale. Se poi tu chiedi a qualcuno che cosa significa, cioè che cosa ricarichi quando tu esci da messa, ossia qual è la differenza rispetto a ciò che eri quando sei entrato, è difficilissimo che uno riesca a spiegartelo: non succede quasi mai. È vero che non si sa bene che cosa vuol dire ricarica. Sarebbe, come dire, un’esperienza interiore, in cui io, nel più profondo di me, secondo movimenti emotivi profondi (anche se il tono è scherzoso, tutte queste cose sono componenti vere della liturgia, ma se le mettiamo al posto giusto, allora sono pezzi che hanno il loro peso; ma se è l’unica spiegazione, non funziona) una specie di esperienza interiore in cui  avvengono strani sentimenti: sento la vicinanza di Dio, la presenza di Dio, la pace, la quiete, una serie di cose; tutti criteri di questo tipo. Questo tipo di modo di approcciare la liturgia, di pensare che sarebbe una piccola oasi spirituale in mezzo una vita molto materiale, in cui io faccio un miliardo di cose, mi distraggo, ma poi invece lì uno si ferma, sente la Parola di Dio, si concentra… Quest’idea qui è un’idea molto pericolosa, per alcuni versi. Primo perché in quest’idea uno se la racconta, con un po’ di frizzi e lazzi e gli altri sono un impiccio: poco da fare, se il criterio di una liturgia è come io ho sentito, accade con una probabilità di uno su tantissimo che io e altri siamo esattamente sulla stessa lunghezza d’onda, sentendo esattamente la stessa cosa, rispetto a esattamente la stessa proposta che ci viene fatta. Alla fine gli altri sono solo fonte di una necessità di una mediazione; quindi cosa succede (come succede spesso nelle nostre liturgie), che caratterizzarle rispetto al pubblico presente, significa, in genere mettere delle etichette di mediazione per cui di fatto non vada mai bene a nessuno. Per cui c’è: la messa dei bambini e poi se ci sono o non ci sono i bambini è più o meno indifferente, però la messa è commisurata sui bambini, compresi quelli che non ci sono; per cui gli adulti si devono sorbire una messa da bambini, o l’immagine che si ha di ciò che dovrebbe essere una messa da bambini. Poi c’è la messa per la giornata missionaria, poi c’è la messa per l’inizio dell’anno catechistico… Una messa senza aggettivi rischia di non esserci più o quasi, e uno fa, normalmente, lo slalom, la domenica, a tentare di evitare le occasioni speciali, facendo il giro delle parrocchie, sentendo quello che viene annunciato per la domenica dopo, per evitare di trovarsi incastrato dentro a… Perché appunto, la grande sintonia è totalmente teorica: si dice, ma l’anno catechistico è un evento della comunità! È vero, ma il problema è che la nostra esperienza della comunità è tale per cui, se tutto ciò che tu fai come esperienza come anno catechistico come evento della comunità e che a tua insaputa vai a messa delle 11 e ti becchi questa apertura dell’anno catechistico, spessissimo la sensazione che hai, è che hai sbagliato film; cioè che tu stavi seguendo un altro copione, ma ti hanno cambiato il film mentre eri lì; non capisci che cosa succede. È chiaro che se l’attesa rispetto alla liturgia è di sentire un’esperienza spirituale di un certo genere, questa cosa diventa insopportabile in assoluto: che cosa c’entro io? Questo è il caso limite, ma in questo atteggiamento spirituale, l’unica garanzia è data dai gruppi di amici. Cioè: o noi siamo gente che fa un percorso comune, un’esperienza comune, allora ci diciamo una messa, la domenica insieme, possibilmente presieduta da un prete che sappia il tipo di esperienza che facciamo, che ci conosca, che sappia interpretare… Altrimenti, negli altri casi, si risolve in un mega sforzo di volontà per entrare in sintonia e sentire qualcosa da una proposta che di per sé viviamo come assolutamente generica. Questa idea della liturgia come esperienza spirituale è come dire che le famiglie sono l’esperienza del luogo in cui ci si vuole bene: cioè, è tanto vero quanto tu sezioni ogni giorno, evento, atto, gesto, ti pare che non sia mai vero; perché in ogni singolo atto, non è che fai questa esperienza incredibile; in ogni singolo atto succedono spesso cose molto normali, ogni tanto incavolature nere, spesso perché sono le persone più vicine si creano grandi distanze, altro che vicinanze. Perché certe cose fanno molto più male lì che non altrove; atteggiamenti di un certo genere, che da uno sconosciuto seccano un pochetto, ma dopo due minuti te ne sei dimenticato, dentro una famiglia, fanno un male che non riesci a dartene pace. La liturgia funziona allo stesso modo. Dire che la liturgia è un’esperienza spirituale, certo che è vero, solo che poi se tu guardi le singole messe, i singoli atti liturgici, l’esperienza che fai è un’altra. Allora, o uno finisce di nuovo nel meccanismo precedente, con sensi di colpa a non finire (sono io che non ho abbastanza fede, non ho abbastanza fede rispetto agli altri, non mi inserisco nella vita della comunità, o altre spiegazioni simili), oppure, se non entra nel meccanismo del senso di colpa, si entra nel meccanismo di dire: “vabbè, magari io sono un cristiano un po’ strano”. Che è, credo, che il 95% di chi ha superato i 25 anni, almeno nelle chiese cattoliche occidentali, pensa di se stesso: di essere un credente un po’ particolare. Però, se tutta questa percentuale è un po’ particolare, c’è qualche problema!  Vuol dire che non c’è una norma così chiara su come dovrebbe funzionare un credente.
  3. C’è un terzo filone possibile, anche questo credo in crescita rispetto alla liturgia. Temo che sia abbastanza complicato spiegarlo, per me, che è quello della liturgia come esperienza di identità: io so di me, come credente, perché vado alla messa la domenica. Anche questa è una delle cose che rischia di ritornare ad essere forte, in un periodo in cui  non era più così forte. Perché viviamo tempi di grande confusione, ed è molto difficile sapere delle cose di se stessi con una certa stabilità. Allora, sapientemente (per alcuni versi, ma è l’unicità della spiegazione che non funziona)… rischia che la liturgia funziona come uno dei pochi elementi identificativi che ci fanno dire che sono un credente. E dato che non ho dei buoni motivi per sbattere la porta e andarmene totalmente, ma non ho nemmeno grandi motivi per restare, in fondo quello è un filo che mi tiene attaccato. Questa, in genere, è una situazione molto delicata, perché quando è così e si incontrano gruppi, movimenti o associazioni con una identità molto forte, lì succede il disastro: per cui io passo per un filtro che non è più l’appartenenza alla chiesa ma è l’appartenenza a una specie di setta, e deposito lì tutta la mia identità. Anche qui, è vero che la liturgia è quello che caratterizza l’esistenza del credente: dei primi cristiani si dice che si amavano, che avevano tutto in comune e che spezzavano il pane insieme. Non è che c’è tanto d’altro. Ma è anche vero che se l’unica cosa che so dire di me stesso, rispetto al mio essere credente è che vado a messa, c’è qualcosa che non funziona. Come quelle persone, quelle donne (come diceva Eduardo) che sono un monumento e che sotto c’è scritto “moglie”.  Come di quelle persone che di loro stesse, nella loro vita, sanno solo più di essere una moglie o una madre o un marito o un padre… È vero, nella vita può succedere, ogni tanto ci accade, però in genere è un brutto segno, e forse uno ha da farsi due ragionamenti perché ha da sapere qualcosa di sé oltre al fatto di essere la moglie di… Funziona un po’ con lo stesso tipo di meccanismo, quando uno di sé, della propria vita, ha talmente poco in mano e nel cuore, che una cosa come la liturgia diventa l’unica identità possibile.

Rispetto a questi tre filoni, questi modi di interpretare, su cui si potrebbe continuare a fare ragionamenti ed esempi, ma che credo che ora sia chiaro, bisogna dire qualcosa in termini un po’ più positivi, cercare di individuare un luogo di vita credente, un luogo di liturgia. Ora lo dico in modo compattato, ma poi torneremo in tutti gli incontri su queste questioni. Per adesso lo dico in termini teorici, in fretta, e poi, mano a mano, lo diremo su tutte le singole cose.

Vita credente e liturgia.

Ci sono due elementi che dicono dove sta la liturgia rispetto alla vita credente: uno è definire la vita credente e l’altro è definire la liturgia. Cioè, bisogna avere questi due elementi per poter dire dove sta la liturgia rispetto alla vita credente.

  1. Credo che per molti di noi (per un lungo tempo della mia vita è stato così, per esempio) la vita credente era semplicemente l’appartenenza ecclesiale: ossia, il fatto di andare in parrocchia, di fare l’Azione Cattolica, di fare l’animatore, di avere tante cose; era il vero nucleo che mi reggeva. E nel momento in cui avessi dovuto smettere, per qualche motivo, mio o altrui, di fare quelle cose, era come se io non sapessi più che cosa voleva dire essere credente, oltre all’impegno ecclesiale che io giocavo. Ognuno, credo, ha il suo percorso su cui alcune cose che sono importanti e vere, diventano così grandi che poi non si sa più dove sta il cuore della faccenda. Io credo che la prima cosa da dire è che l’esperienza della fede è l’esperienza di ascoltare una buona notizia sulla vita. Questa definizione non è data a caso: il cuore dell’esperienza credente è prima di tutto ascoltare (ascoltare e accogliere, ma ascoltare innanzitutto), cioè sentire e risapere, ogni giorno sentire e risapere, ogni giorno sentire come da fuori, non darsi da sé, ma ricevere da altrove (questo vuol dire ascoltare). Ascoltare, dunque, una buona notizia sulla vita: credo che questa formula ci sia molto consueta, ma credo che da adulti, dovremmo ripensare, darci un po’ di tempo, per ripensare, per esempio, qual è il contenuto di questa buona notizia.
      1. Noi ci siamo abituati a dire che il Vangelo è una buona notizia: ma qual è la notizia? Che pare una questione banale, ma che non è banale per niente. Perché dipende, strettamente, da qual è la notizia. Se qualcuno mi dice che ho ereditato 5 miliardi, è per me una buona notizia: perché so quanto valgono i soldi, perché 5 miliari sono tanti soldi, perché ho bisogno di soldi e così via. Cioè, è buona nella misura in cui io sono in grado di verificare il contenuto di quella notizia. Se qualcuno mi dice, come è accaduto non tanto tempo fa, che qualcuno mi ha rubato la macchina, per me è una cattiva notizia. E perché io so esattamente che tipo di cattiva notizia ho ricevuto? Perché ho una macchina, dopo non ce l’ho più, perché la macchina mi serve, perché la macchina costa soldi e così via. Allora, noi diciamo sempre che il Vangelo è una buona notizia, ma qual è la notizia? Credo che su questo dovremmo riflettere un po’. Perché, per noi è molto poco buona, perché in genere non sappiamo che notizia è. Ci sono delle risposte di tipo teorico-spirituali del tipo: il contenuto della buona notizia è che Dio ci ama; che in effetti è una gran bella notizia… cioè? Di cosa stiamo parlando? A volte la risposta è: il contenuto della buona notizia è che non siamo più sotto la Legge, ma siamo sotto il comando della Carità e dell’amore: alla faccia della buona notizia! È una fatica tale il mettersi in un amore che viene da dire, “scusi, ma questa buona notizia me la vorrei evitare”. Qual è la buona notizia è la prima cosa da chiedersi: lo lascio come domanda, volutamente. Questa buona notizia è sulla vita: cioè, non è una buona notizia religiosa, pia, spirituale; l’Evangelo è dato per la vita di molti, questo dice il testo evangelico.
      2. Già ci sarebbe da farci una domanda su quale sarebbe la vita che abbiamo, perché abbiamo molte cose, cose che possediamo, cose che ci accadono, cose che abbiamo scelto di fare, cose che vorremmo fare se potessimo, abbiamo molte cose, abbiamo la nostra vita: in che senso? Cioè: che cosa della nostra vita ci è disponibile? Per avere una buona notizia sulla vita, bisogna avere una vita, perché altrimenti la buona notizia non ha nulla su cui cascare. Tutte le volte che sento la parabola del seminatore che dice che la Parola di Dio è come un seme gettato sulla terra arida, sulla terra con le spine eccetera… Io mi chiedo sempre, quelli come me, che rischiano di pensare di non avere una terra, è peggio ancora, non è nemmeno previsto nella parabola. E credo che questa riflessione sia abbastanza un secondo punto su cui fare due ragionamenti: qual è la vita su cui ci piacerebbe che cascasse una buona notizia? Spesso noi abbiamo l’idea, non razionale, ma agiamo come se questa idea fosse vera, che la buona notizia sarebbe una notizia religiosa su una serie di aspetti etici, morali o religiosi della nostra esistenza. O, ormai, dopo il Vaticano II, sugli aspetti e i problemi di senso: le questioni sui significati, sul dolore, sui gravi drammi. È questa la vita che abbiamo a disposizione? E quindi questo è il terreno su cui ci dovrebbe essere una buona notizia? Io credo che bisognerebbe provare a ragionare un pochetto se, e in che misura, la nostra vita credente è l’ascolto di una buona notizia sulla vita, con queste domande appese, ossia qual è il contenuto della buona notizia e qual è la vita. La mia personale convinzione, ma questo è un parere strettamente personale, è che noi abbiamo molte più buone notizie di quanto abbiamo vita nei nostri mondi credenti. La nostra vita quotidiana, quella fatta di quelle piccole e grandi cose che ciascuno di noi ha, in genere resta fuori, è altro: abbiamo l’esperienza di due mondi, cioè un mondo come nei romanzi di fantascienza, un mondo e il suo doppio; c’è un mondo che sarebbe quello in cui si lavora, si fa, si conoscono le persone, si passa un sabato sera, si fanno le cose normali; e poi c’è il suo doppio, che sarebbe un mondo religioso, dove ci si impegna, si domanda, si discute, si va a messa, si fanno i ritiri, si fanno gli esercizi spirituali. Da una parte abbiamo un mondo che è fatto di molte cose che rischiano di non avere nessun nome, e dall’altra abbiamo un sacco di nome che non hanno un contenuto, per cui facciamo gli incontri sui temi e poi non sappiamo mai di cosa si dovrebbe veramente parlare. Ci viene chiesto di riflettere o di meditare e, io non so voi, ma io spessissimo ho la questione: ma su cosa dovrei riflettere? Cioè, qual è la questione su cui dovrei pensare? Abbiamo dei nomi, senza un contenuto, forse dovremmo un po’ ragionare su che cosa significa questa vita credente, perché se non ripensiamo un po’ questa questione di una vita credente, la liturgia non ha un posto. La liturgia sono le regole del gioco della grazia di Dio rispetto a noi. Questo è un po’ il primo punto, il primo passo su cui penso che valga la pena di riflettere un po’.
  1. Il secondo è: che cos’è la liturgia? Ho sentito, molti anni fa, una spiegazione che mi è parsa molto efficace, dunque ve la ripropongo come tale, molti l’hanno già sentita da me, ma credo che ogni volta che la spiego, mi pare di capirla meglio. Questa spiegazione diceva così: se noi immaginiamo che tutta la storia, tutte le cose, quella di ciascuno di noi dalla sua nascita alla sua morte, ma anche quella di tutto il mondo, dalla creazione alla fine del mondo, è una specie di cerchio, il fulcro, il centro di questo cerchio, che è anche il punto che lo regge, come il perno di una ruota, che fa sì che la ruota possa girare, che possa stare su, ebbene, quel perno è l’amore di Dio, che è equidistante da ogni momento della storia, come il centro da ogni punto del cerchio, ma è anche un’altra cosa rispetto al cerchio, non c’è, non è disponibile sul cerchio, perché se il perno è sul cerchio, la ruota non gira proprio benissimo. E la liturgia sarebbe il raggio: cioè sarebbe quella linea che congiunge ogni singolo punto del cerchio con il centro, e dunque tiene la ruota al suo posto, ma anche la collega. Questa spiegazione diceva: ogni volta che noi compiamo un atto liturgico è come se noi percorressimo il raggio e andassimo a sederci sulle ginocchia di Dio, guardiamo il punto della storia in cui eravamo dal punto di vista di Dio, dalle sue ginocchia; non diventando Dio, ma dalle sue ginocchia, dunque abbiamo la sua prospettiva e poi veniamo rimessi sul raggio, per tornare esattamente al punto dove eravamo. Non è che funziona come nei video games, in cui uno guadagna punti se va al centro e quindi fa un balzo: no, uno fa lo stesso percorso. Dunque un tempo di eternità nel tempo, in cui noi usciamo dal cerchio del tempo ed entriamo nella logica dell’eterno, e poi ritorniamo esattamente dove eravamo. Io credo che questa sia una buona definizione di liturgia, sia un buon modo per cominciare a ragionarci. Perché la liturgia funziona esattamente in questo modo: voi sapete, secondo la tradizione unanime della Chiesa, ci sono solo tre modi in cui noi siamo certi, ossia assicurati dallo Spirito Santo, della presenza di Dio in mezzo a noi: poi Dio ha tanta fantasia e può rendersi presente in tanti modi, ma questo riguarda Lui; ma i tre modi certi sono: la Parola di Dio, la Liturgia e i Poveri. Non c’è un altro modo: Dio è con noi in questi tre luoghi. Perché è vero che l’Eterno, il punto centrale del cerchio, non ci è disponibile, non fa parte dell’orizzonte ordinario del cerchio; ha un’altra qualità, ha un altro tempo. E la liturgia ci è data come uno dei tre luoghi in cui noi con certezza possiamo uscire dal tempo, vedere il tempo dal punto di vista di Dio e poi tornare al tempo. Faccio un esempio molto concreto. Tutta la storia liturgica, in modi molto diversi a seconda dei tempi e delle culture, ha sempre dei riti di ingresso, dei gesti; da piccoli ci hanno insegnato che si fa la genuflessione e si fa il segno di croce entrando in chiesa. Cioè c’è sempre, da lì in poi, una serie di gesti, di canti, di azioni, di piccolissime cose che segnano uno stacco: sono gesti che noi non faremmo normalmente; ma non è che non li faremmo normalmente perché sono gesti antichi e non si usano più: neanche una volta si sarebbe fatto normalmente così nella vita quotidiana; sono sempre stati gesti anacronistici. Da piccoli ci hanno insegnato, quando avevamo meno di 3 anni, che se uno entrava in chiesa salutava Gesù, perché era un modo che potevamo capire per dire che uno era entrato in un altro luogo, che non era uno spazio vuoto, ma uno spazio abitato e quindi, essendo educato, si salutava. Questo è sempre stato un modo molto concreto per segnare, per segnalare che c’è una scansione, un passaggio, una soglia, che si passa una porta, cioè che si esce da un posto e si entra in un altro. Questo è veramente un dato centrale dell’esperienza liturgica. Io credo, per esempio, che se uno facesse, per un po’, l’esperienza di far mente locale a questa questione e di inventarsi dentro di sé, utilizzando dei modi antichi o inventandosi dei piccoli trucchi personali, un modo per segnalare a se stesso, per fare tutte le volte questa esperienza di uno stacco, improvvisamente la liturgia comincerebbe a funzionare in un altro modo. I modi che uno si può inventare sono banalissimi: per esempio provare ad arrivare sempre 5 minuti prima dell’inizio, in cui uno per 5 minuti sta fermo, entra e non è ancora cominciato tutto, che si canta, si fa… Sta lì, per dire un modo assolutamente praticabile. E da lì in poi… Ho un amico che quando va alla messa, la strada che va da casa sua alla messa la fa sempre a con il walkman ascoltando Mozart, perché per lui, questa musica di Mozart lo stacca, crea una interruzione rispetto al quotidiano; poi quando entra in chiesa si toglie le cuffiette ed entra in chiesa con ancora Mozart nelle orecchie. È una cosa banale e ognuno deve trovare le sue, ma l’idea di questo passaggio, di questa uscita dal tempo è un’idea fondamentale se si vuol entrare in una logica delle liturgia come un raggio.

I quattro elementi della liturgia.

Quattro cose dunque: a conseguenza di questo, la liturgia ha:

un tempo,

un ritmo (che non è la stessa cosa del tempo)

un linguaggio e

un’estetica.

È una lingua straniera, sì, e non la capiamo: infatti, perché dovremmo capirla? Chi ha detto che il problema è quello? E soprattutto chi ha detto che il primo criterio è quello? In tutti gli amori, la prima esperienza che si fa è quella di non capire cosa sta succedendo. E in genere, dopo tanti anni, quello che uno impara a dire è: lo conosco, non lo capisco. Quando uno ha un rapporto lungo e duraturo, quello che osa dire è: no, ma io lo conosco, lui ragiona così, è fatto così, gli piace quello, non gli piace quello; ma smette di avere il problema o la presunzione di voler dire: lo capisco. È ben cosciente che l’altro rimane un mistero e che al massimo posso dire, a titolo di incoraggiamento, a lui, ti capisco. Ma da qui ad andare in giro a dire, io lo capisco…

Cioè, il problema della liturgia è che ha un respiro, una biologica, dei bioritmi che dovremmo conoscere esattamente come si dice di una persona, io lo conosco. Non è che mi sono messo lì a studiarlo: lo conosco perché la mia famigliarità è tale, la mia frequentazione è tale, l’ho visto talmente tante volte reagire di fronte a certe cose, talmente tante volte ho guardato la faccia di fronte ad un cibo e di fronte a un altro che so che cosa gli piace, indipendentemente dal fatto che lui dica buonissimo… Conoscere la liturgia significa entrare in una famigliarità con il suo tempo, il suo ritmo e il suo linguaggio e la sua estetica, che ci consenta, un po’ alla volta, di poter dire: questa cosa la conosco, io so come funziona, so come reagisce.

Alcune parole sui quattro elementi:

  1. Un tempo. Che cosa vuol dire che la liturgia ha un tempo? Se la liturgia deve farci fare l’esperienza di un uscire dalla storia per andare nell’eterno, ha un tempo che è quello dell’eterno; che non è la giustificazione per omelie di 40 minuti, non è che per fare esperienza dell’eterno, si fanno delle omelie lunghissime; è l’idea che la liturgia ha una durata che non è quella della funzionalità; che sarebbe la questione per cui si dice: ci vanno anche dei tempi di silenzio. L’idea è che nella liturgia, come alcune altre esperienze umane che stanno sotto il segno dell’eternità, il tempo non è il tempo del fare; non è il tempo necessario per… È il tempo come tutto il tempo, noi abbiamo tutto il tempo. Per questo io penso che sarebbe una cosa utile che nelle parrocchie (ma questo è una mia stretta opinione personale) ci fosse una sola messa domenicale e che fosse in centro all’orario della mattina, che rompesse tutta la mattinata, che non si riesca a fare niente altro, né prima né dopo; perché è tutto il tempo. Sarebbe molto impopolare, ma avrebbe un senso liturgico reale. Perché uno, prima si riposa, si alza un poco più tardi, fa tutto con calma, arriva lì, fa questa cosa che è tutto il tempo e poi basta, non c’è un’altra cosa da fare. Il tempo significa che ha un ritmo che non è legato a una strumentalità del tempo, non è il tempo per riflettere, il tempo per pensare, il tempo per studiare, il tempo per capire (e sto dicendo tutte cose nobili), tanto meno è il tempo per cantare, per fare una serie di cose. È il tempo perché è la totalità del tempo. Una delle cose tipiche, che ci discendono da motivi di tipo storico molto concreti, è che nella liturgia facciamo sempre, almeno, tre cose insieme: abbiamo molto criticato, almeno noi abbiamo molto criticato da adolescenti, le signore anziane che dicevano il rosario durante la messa, perché ci sembrava che fare due cose fosse un modo per essere esclusi dalla messa; in realtà noi abbiamo costruito delle messe che funzionano esattamente in quel modo lì. Perché c’è il prete che si occupa dell’offertorio, fa una serie di cose, intanto il coro canta e c’è qualcuno che raccoglie i soldi. Questo è il minimo, ci sono sempre almeno tre cose in contemporanea  e ci sono sempre almeno due o tre attori che agiscono facendo cose diverse in luoghi diversi. Questo è esattamente il panico che prende tutti (ma dovremmo farci due pensieri) di fronte all’idea che il tempo non è solo strumentale, che non serve solo a fare delle cose; per cui abbiamo la sensazione, che se non ci mettiamo qualcosa, per lo meno un canto che aiuti a meditare, poi cosa succede? Di per sé la liturgia, tutta la liturgia è costruita sull’idea che: essendo che Gesù Cristo ha già salvato il mondo, non c’è più niente di serio che può succedere. Possono succedere cose gravi, ma di serio niente, perché l’unica cosa seria è già successa; quindi abbiamo tutto il tempo.
  2. Seconda cosa: la liturgia ha un ritmo, in conseguenza a questo tempo: ha un ritmo che è quello di chi sa che non c’è niente di serio che può succedere. Dunque un ritmo che è pacato, calmo, tranquillo e non perché uno fa tutto uno studio, uno sforzo di andar piano, è pacato perché non c’è niente di serio che può accadere, dunque che fretta c’è? Questa cosa si conquista nella misura in cui uno fa veramente l’esperienza che non c’è nient’altro di serio. Sto dicendo, in modo riassuntivo ed iniziale, una serie di cose che in realtà sono un punto di arrivo, come quando io dico di una persona, io lo conosco; io lo conosco, in genere, vuol dire che io sono passato attraverso tutte le fasi della relazione con una persona, in cui prima mi sono agitata, poi ci ho litigato, poi ho pensato che dovevo sempre dire delle cose intelligentissime, essere sempre al meglio della forma; poi mi sono rassegnato al fatto che le cose intelligentissime non mi venivano mai in mente al momento giusto, e poi mi sono per la prima volta presentata non al massimo della forma, in ciabatte e quell’altro non è andato via… Alla lunga, alla fine, uno si fida. Le cose che io sto dicendo non sono dei punti di partenza: le sto dicendo a titolo interpretativo all’inizio, ma sono i punti di arrivo: ci va una vita di famigliarità con la liturgia per cui uno senta che non c’è fretta; allora, se uno corre, fa uguale: non è una tragedia, può essere fastidioso. Non entriamo nella logica: si deve fare così. Certo bisognerebbe arrivarci un po’ alla volta, il più possibile insieme a… Avere un ritmo è quindi avere il ritmo dell’eterno, è il ritmo di un discorso amoroso. Per esempio, tutta la liturgia è pensata, ma ancora una volta per un’intenzione del cuore, ma per gesti e cose concrete, in cui anche se uno è distratto, lei funziona così lo stesso, perché funziona così di suo; è tutta pensata in modo dialogico. Vi siete mai chiesti perché è come una recita in cui c’è sempre uno che dice una cosa e un altro che risponde, uno che fa una cosa e … Tipo: la pace sia con voi, e con il tuo spirito… Nessuno parlerebbe così! Questa cosa deriva del principio di prima: se tu fai l’esperienza e la fai perché tutti ce l’abbiamo nell’orecchio, che se c’è nessuno che risponde, la questione rimane a metà. Se tutti stessero zitti di colpo, si crea un attimo in cui tutti si guardano e manca un pezzo. La liturgia, di suo, al di là delle nostre intenzioni, ha questo ritmo a due: che appunto è il ritmo della calma, è il ritmo non narcisistico, è il ritmo non funzionale a quello che io ora ho capito e adesso faccio, realizzi e vado avanti. È il ritmo in cui io dico una cosa e aspetto una eco; e l’eco arriva e allora io posso dirne un’altra; perché ha un suo passo. Questa cosa non è un problema di intenzioni: è così perché è così strutturalmente, perché non c’è gesto liturgico che non sia dialogico, che non sia fatto di un botta e risposta. Chiaro è che se uno se ne accorge, dopo un po’ lo gusta: se uno lo vede, dopo un po’ gli fa piacere. E, per esempio, quelle volte che non ha voglia di rispondere, si addormenta sulla risposta collettiva: si adagia sul sentire che uno dice una cosa e che c’è un popolo che anche a nome suo (che quel giorno lì è proprio girato male) risponde e risponde con le stesse parole con cui risponderebbe lui; perché non c’è una soggettività possibile, sono le parole della rubrica. E dunque, uno si può proprio calmare, perché il ritmo della liturgia c’è anche se mi distraggo, se sono girato, se sono agitato; non è che il ritmo è calmo perché io dentro di me sento la calma. Il ritmo è calmo perché è calmo di suo: dunque posso permettermi il lusso di essere profondamente arrabbiato e di non dovermene vergognare e di andare lì e dire: fatemi questo esercizio di calma per favore…
  3. Un linguaggio. Io sono, come si sarà abbondantemente capito in questi anni, profondamente contraria alla modernizzazione del linguaggio liturgico. Ma questa è una mia opinione. Il linguaggio liturgico è un linguaggio non ordinario, un linguaggio che non parleremmo fuori di lì, ed è assolutamente giusto che sia così: ci mancherebbe che nell’eterno uso le stesse parole che uso da un’altra parte. E poi, già le mie parole mi assordano 20 ore al giorno, perché devo sforzarmi di trovare delle parole espressive pure per parlare con Dio? Il linguaggio della liturgia ha questo grande vantaggio che è un linguaggio convenzionale, nel senso che nella tribù occidentale quel linguaggio lì esprime delle cose. E se io le penso, le capisco, le sento, risuona con quel linguaggio, bene; se no, le esprime comunque, anche senza di me. È chiaro che anche qui è una progressiva famigliarità: il linguaggio liturgico che è così diverso, proprio perché è diverso e non è inflazionato come il linguaggio televisivo e comunicativo odierno, è un linguaggio che può avere una densità … Ci sono delle parole della liturgia che uno, dopo un po’, se le rotola dentro; perché sono come un paesaggio esotico, una foto delle Maldive, una evocazione di qualcosa di profondamente strano che non avevo mai visto prima; sono il disegno, il desiderio, l’indicazione di larghezze, lunghezze e profondità delle parole che nel linguaggio quotidiano non ci sono quasi mai date. Ci sono giornate in cui uno riesce a proferire appena: “per favore il pane compralo tu”; questo è il massimo dello sforzo comunicativo che riesce a fare… È dunque una parola strana e antica che ha 3000 anni di storia, che si porta dietro 3000 anni di interpretazioni e che mi allarga, davanti agli occhi e al cuore, tutto un paesaggio buffo e che io non riuscirei a farmi vedere da solo; una parola che viene da generazioni e generazioni di credenti che la hanno amata così, diventa il racconto, nella taverna del porto che nel 1500 facevano i marinai che avevano visto i mostri delle Indie; e tutti quelli che non si erano mai mossi dalla taverna, stavano lì a sentire i racconti di questi viaggi, di questi mostri, avendo paura e desiderio e immaginavano le meraviglie. La liturgia ci racconta il grande viaggio di Dio, e ce lo racconta con queste parole strane, con questi racconti di strani atteggiamenti del cuore: che cosa vuol dire “con il tuo spirito”? Se uno comincia a farsi girare in testa questa parola, comincia a vedere un racconto dietro a questa risposta così stereotipata. Si potrebbe narrare intorno a questa parola tutta una storia e lo faremo poi commentando la messa; e dunque, questa storia lo accompagna tutte le volte che semplicemente dice una frasetta.
  4. Da ultimo, la liturgia ha una estetica. Mi rifiuto di pensare che per l’eternità saremo condannati al brutto. I teologi medioevali hanno sostenuto che le tre caratteristiche dell’essere di Dio erano la verità, la bontà e la bellezza. Io credo che qui ci sia un problema: noi siamo una generazione, delle generazioni con delle grandissime orecchie, un grandissimo ditone per schiacciare i pulsanti da homo tecnologicus, e un grandissimo cervello per le idee, ma rischiamo di essere gente senza naso, senza occhi, senza mani, cioè nel nostro secolo abbiamo molto sviluppato l’idea del capire, comprendere, ascoltare, sentire, spiegare, imparare; tutti questi verbi…  Molto meno, rispetto ad altri secoli, abbiamo curato il vedere, il sentire con il naso, il gustare, il toccare. E le nostre chiese spesso sono luoghi in cui non sai dove posare gli occhi: io ritengo che la bruttezza di certe chiese sia un vantaggio, siccome l’unica cosa che puoi guardare è il tabernacolo, rimani concentrato sull’essenziale, perché il resto, se lo guardi, viene mal di stomaco. Ma di per sé la liturgia ha una sua bellezza, dovrebbe avere la sua bellezza, se è un tempo di eterno, si costruisce intorno a qualcosa che comunque è anche da vedere.

Fossano, 24 novembre 2001

(testo non rivisto dal relatore)

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