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16 Marzo 2002
Stella Morra

5. Introduzione alla dinamica della Messa (3)

Commento a:


Continuiamo la discussione sulla messa, che almeno a mio modo di vedere, è un tema decisivo su cui mi sto fermando molto. Se non va bene, basta che me lo dite.

Avevamo fatto tutto un ragionamento sulla prima parte della messa: l’altra volta ci eravamo fermati al credo, dopo la preghiera universale

La lectio di oggi

Preghiera dei fedeli o preghiera universale

C’è un equivoco di base molto grosso, che sta nel tempo, spostando un po’ alla volta il significato (a causa dell’equivoco) dopo un po’ uno si ritrova con una cosa che è tutto il contrario dell’inizio. Si chiamava anticamente preghiera dei fedeli (quello che inizia, in genere con: “Ascoltaci Signore…”): il Vaticano II ha pensato di introdurre questo nome che era il nome antico, pensando di fare una cosa bella (e in effetti è una cosa bella). Nel senso antico, era la preghiera dei fedeli voleva dire: dei fedeli battezzati, contrapposti ai catecumeni o a quelli che erano in stato di penitenza. Ossia preghiera dei fedeli: di quelli che partecipavano a tutti gli effetti, in pienezza di partecipazione, contrapposti ai catecumeni, che non erano ancora battezzati e che partecipavano a tuta la messa fino al credo, ascoltando il credo della comunità e poi venivano congedati dall’assemblea; oppure a coloro che erano in stato di penitenza, che a seconda delle penitenze che erano date, partecipavano solo alle letture, oppure come per i catecumeni.

Nel nostro linguaggio, invece, nella nostra comprensione, preghiera dei fedeli è contrapposto: fedeli laici rispetto ai preti; come dire che finalmente ci fanno parlare. Per tutta la messa parla il prete e finalmente lì… così è diventato il punto in cui si esprimono le preghiere partecipative, spontanee dove ognuno esprime, dice e fa, monta e smonta…

Questo sposta il significato della preghiera dal punto di vista liturgico (il suo secondo nome, medioevale, è infatti, preghiera universale): il suo significato è, molto bello secondo me: il momento in cui, dopo tutta la parte delle letture, di essere entrati nel ritmo della liturgia, di essersi fermati un attimo di fronte a questo mistero, e di aver proclamato la fede coscientemente, uno si ferma e dice: fino a qui ho detto io, e ora la questiona si fa spessa e decisiva,  e che quello che entra in gioco è soprattutto Dio, qui sarà meglio che io mi porti dietro tutti quegli altri: il mondo, i poveri, le altre chiese… tutti quelli che mi stanno a cuore e che non sono qui in questo momento. La preghiera universale era stata posta lì, perché in quel momento uscivano i catecumeni: l’idea era non che fossero i cattivi della classe che vanno allontanati, ma… la prima azione che fate quando restate da soli è che pregate per tutti quelli che non sono qui, a cominciare dai catecumeni che erano appena usciti.

L’intenzione liturgica va nella direzione di alzare gli occhi da sé, di raccogliere tutti coloro che conosciamo e non conosciamo, che ci stanno a cuore, lontani, vicini, confusi, ci credono e non ci credono, tutto quello che lì non è materialmente presente. Mentre nella logica da preghiera dei fedeli contrapposta a quella del prete, in cui si dà il tipico… Si inizia con: “Io ti prego perché…”. E vengono fuori quelle cose, che con le migliori intenzioni e buona volontà, sono sentimal-narcisistiche, della propria pancia, seguendo le emozioni di quel momento lì: in quanto emozione, è particolarissima, ossia la mia, di quel momento; è esattamente l’opposto della logica per cui è messo quel momento lì. Ora è vero che l’idea di costruire strutture partecipative della messa ha avuto delle difficoltà e, quindi, si sono prese della parti e si sono piazzate lì delle partecipazioni più o meno a caso… è anche vero che il libero sfogo rispetto a queste preghiere è molto eccessivo. Non so se è anche la vostra impressione, ma quando si parla di preghiere spontanee, quello che viene fuori è quello che non oso dirti in faccia, motivandolo con una serie di pensieri comunicabili, te lo dico per traverso con la preghiera dei fedeli. Che è l’uso più particolare, ad personam, che ci sia; oppure quella cosa che sta a cuore solo a me, che nessuno mi ascolta… la ridico nella preghiera dei fedeli.

No, non so se riesco a spiegarmi…

Se ci sono solo le preghiere fredde, che non dicono niente a nessuno, allora non va bene… il problema è che bisognerebbe ricordarsi anche:

  1. il senso di questo momento è l’universalizzazione e non il narcisismo;
  2. il senso di questo momento è che ci sono alcuni criteri: la richiesta liturgica è che si preghi sempre e almeno per la chiesa, il mondo, i poveri e la comunità che assiste alla messa, e in questo ordine. Bisogna fare qualche ragionamento educativo.

Su questo, io personalmente, faccio una considerazione personale, oltre alle indicazioni dei libri liturgici. Io trovo che questo momento, particolarmente in un tempo come questo, per quello che ognuno vive, per la fine della cristianità, in cui non funziona più come un tempo, in cui è molto chiaro chi sono i nostri e chi gli altri, e le famiglie si organizzano per avere tutti le stesse idee… dato che non funziona più così e ognuno di noi è super trasversale, ha tanta gente a cui vuole tanto bene ma che sta dove sta lui, oppure al margine, o in altri posti… questo è il momento privilegiato, dove portarci dietro nel’eucaristia tutte queste appartenenze scassate, che appartengono al nostro cuore, ma che non si sa bene dove metterle rispetto a una appartenenza religiosa piena.

Per esempio, i nuovi catecumeni sono tutte quelle persone di cui dobbiamo avere cura, a cui vogliamo bene, per esempio i piccoli i figli, non solo i nostri figli, i piccoli della comunità, che ci piacerebbe che arrivassero fino a lì, ma non ne siamo certi e non abbiano né la voglia né l’autorità, per imporre chi lì arrivino. Quello è un luogo privilegiato, dove si dovrebbe pregare per i piccoli, per i giovani, per tutti quelli che sono confusamente in ricerca e che dunque, forse, non sono lì quella domenica: perché sono arrabbiati, sono stufi, perché hanno beccato un prete che li ha trattati male, e quindi si sono offesi… per i mille motivi per cui non sono lì… riesco a spiegarmi.

Bisognerebbe favorire la partecipazione, nel senso di riformulare i criteri tradizionali alla luce di quelle che sono oggi le esperienze più comuni nelle comunità. Però evitare, con la maggior cura possibile, il particolarismo, che è proprio il contrario di quello che è il senso liturgico di questo momento.

La cosa molto bella è che questa preghiera universale fa da ponte, passaggio, tra tutto il tempo sotto il segno dell’Io (io confesso e io credo), per cui ascolto le letture proclamate, e il tono è più personale, anche se siamo in tanti; a tutta la parte della messa più comune, dove ciò che agisce è la Chiesa non è il singolo, ma il comune. Questa preghiera universale è messa lì per fare da ponte tra il singolo e al comunità, perché tutto quello che è fuori di lì, ogni pezzo di storia, ogni vita umana, conosciuta o no, riconosciuta o no, amata o no, tutto è invitato a fare da ponte verso la Chiesa. È proprio bella questa cosa: è una struttura liturgica molto bella. Tutte le volte che vado a messa, arriva un punto in cui prima di passare dalla profondità del mio cuore, all’azione della Chiesa, la cosa che faccio è di prendermi sulle spalle tutto. L’immagine che a me suggerisce quasi sempre la preghiera dei fedeli, è… credo che quasi tutti abbiano visto il film Mission, quando c’è l’ex mercante di schiavi, in fase di conversione, che risale lungo le cascate, con il peso delle armi, e in cima alle cascate, l’indigeno taglierà la corda e butterà via tutto questo peso… La preghiera dei fedeli`è quella cosa lì: la Chiesa è quel luogo dove un povero ti taglierà la corda e buttera via il peso di troppo che hai. La fase di avvicinamento in cui si decide la conversione, è tutta prima delle cascate; in mezzo c’è questa ascesa in salita in cui si porta dietro un peso pazzesco, una quantità di carabattole, amate e non amate, cose che vorresti dimenticarti e che ti ricordi, cose che ti ricordi e rischi di dimenticarti… porti dietro tutto questo.. il mondo intero. Quando arrivi su, ci sarà un povero che ti farà ridere e piangere, perché questo è il luogo della Chiesa; un luogo in cui tutti arrivano e quindi non c’è più bisogno che uno porti il peso di tutti quegli altri.

È fortissima questa collocazione a giuntura di questo momento liturgico: il momento in cui ognuno si carica, faticosamente, come dice san Paolo: “portate i pesi gli uni degli altri”… carichiamo il peso di tutta la storia, spendo che dura poco, perché appena finisce l’offertorio, si butta tutto nell’eucaristia: ce la siamo cavata con poco. Ma non senza, non senza tutto il mondo dietro di noi: non si celebra nessuna eucaristia, senza che tutto il mondo sia lì.

Offertorio

Il passaggio segnato dalla preghiera dei fedeli, segna il passaggio in quello che comunemente chiamiamo “offertorio”, che dal punto di vista liturgico si chiama preparazione alla liturgia eucaristica. Qui, secondo me, è uno dei tanti luoghi, uno dei luoghi in cui succedono le peggio cose. Dove la comprensione del senso liturgico si è proprio perso, nel passaggio dei valori simbolici. Un esempio per tutti, la questione del denaro: il maneggiare l’offerta o il denaro (che prima non era il denaro, ma erano cose, alle origini: cibo, vestiti… poi è diventato denaro) nel VII secolo e ora nel 2002 è una cosa molto diversa; perché il denaro ha una potenza simbolica molto legata alla cultura in cui è.

Qui si potrebbero dire molte cose…

Questo momento in cui prima dell’eucaristia, nel passaggio dalle letture alla consacrazione, quello che noi chiamiamo consacrazione, c’è un momento di offerta: è uno dei momenti più antichi, già nel II secolo è testimoniato questo uso. Che prima della consacrazione c’è un tempo dell’offerta in cui si portano, pane e vino e la carità, la carità per i poveri. Addirittura Giustino nel IV secolo scrive che due sono le cose obbligatorie per poter celebrare l’eucarestia: l’offerta per i poveri e il partecipare alla mensa eucaristica; ossia offrire qualcosa e fare la comunione. Questo significa (nota a margine) che metà delle persone che vanno a messa la domenica, secondo Giustino, non partecipano alla messa validamente: perché non fanno un’offerta e spesso non fanno la comunione. Questo dice come è cambiata la nostra comprensione di questa parte.

Obbligatorietà secondo Gustino, ha un senso molto chiaro: queste due cose rappresentano il sacerdozio di tutti che abbiamo ricevuto nel battesimo, il dono del sacerdozio. Allora noi celebriamo la messa se facciamo i due segni che mostrano che ciascuno di noi e sacerdote: cioè dividiamo quello che abbiamo con i poveri e partecipiamo alla mensa eucaristica. Che non è faccenda da poco…

A causa delle polemiche con i protestanti, la tradizione cattolica romana ha insistito molto sul sacerdozio ministeriale, ossia quello dei preti. La presidenza dell’eucaristia è il prete che celebra: noi ci siamo sempre più sentiti come quelli che assistono alla messa, con il solo piccolo insulto che quello che ci veniva chiesto era una piccola somma di denaro, e dunque questa cosa di far tintinnare i soldi è diventata esattamente il contrario: io sono un fedele, non capisco il latino, non faccio niente, non capisco niente, però mi spremono i soldi… sto un po’ banalizzando, ma ancora una volta è un giro di180 gradi sulla questione.

Questa situazione è figlia della faccenda della polemica protestante. Vorrei un po’ fermarmi su questa questione, perché qui è un punto in cui la partecipazione si potrebbe esprime ed esprimere con dei gesti, con degli atti liturgici, e sarebbe molto bello, un punto su cui si potrebbe lavorare molto nella celebrazione concreta, proprio perché il denaro ha un potere simbolico potentissimo dunque è una cosa che si capisce, non c’è bisogno di fare l’ammonizione: “questo segno vuol dire che…”. Si capisce.

Nell’antichità l’offerta era obbligatoria, ma non obbligatoria per i laici, ma lo era per tutti; per esempio, i celebranti facevano l’offerta, perché quello era la parte dei poveri, non la parte della chiesa. Non era ciò che offro al parroco, ma ciò che io e il parroco offriamo per i poveri, a causa di questa eucaristia. Ad esempio, questa è una cosa su cui bisognerebbe lavorare. Nelle nostre comunità ci sono delle esigenze: il riscaldamento e altre esigenze, che è vero, ci sono. Ma bisognerebbe distinguere, nettamente, così come la giornata dell’università cattolica… bisognerebbe imparare a distinguere i momenti di offerta per le necessità della comunità o della chiesa universale, e aver molto chiaro e rendicontare molto bene che l’offerta dell’eucarestia è per i poveri: dunque, ci diamo dei micro-progetti, decidiamo come comunità quali sono… e in quell’offerta lì, tutti, compreso il presidente della celebrazione, che darà una parte… dopo di che il riscaldamento, se non vogliamo andare a messa al freddo, è una necessità di tutti, ma non ha il suo luogo nell’eucarestia.

Su questa cosa, basta molto poco, non è il caso di fare un nuovo concilio Vaticano, con una riforma liturgica: basta distinguere, e dare l’abitudine a una comunità che quell’offerta è l’offerta della carità per i poveri, e che poi ci sono le necessità della comunità. Certo all’inizio è che le offerte per le necessità per la vita della chiesa precipiteranno, questo è sicuro: perché la gente è abituata, caso mai, a dare qualcosa durante l’offertorio. Ma sarebbe uno di quegli investimenti che andrebbero fatti.

Questa è una cosa. La seconda cosa è che questa parte della messa fino al VII secolo, non prevede nessuna preghiera, nessun canto, nessun niente… S’Agostino dice: quando l’assemblea è veramente troppo grande e ci vuole più di mezz’ora per raccogliere le offerte, si può cantare un salmo. Ma stiamo parlando …

Perché anche qui, noi mettiamo, tra l’altro in modo simoniaco alle nostre orecchie, mentre la messa va avanti, ci sono quelli che girano per la raccolta, si sentono i soldini che cadono, la gente si agita, cerca i soldi.. perché non si fa, semplicemente, che tutti stanno fermi: il prete sta fermo dov’è e invece di uno o due che raccolgono le offerte, un buon numero di persone raccolgono le offerte in pochi minuti, si portano all’altare e si offrono i soldi e il pane e il vino. Senza dover portare altre cose (il pallone, la nostra vita…): se porti i soldi, la gente capisce, è chiaro che cosa stai portando. Ma implica stare un minuto e mezzo tutti fermi, senza un canto: il gesto parla per il gesto e, a quel punto, diventa molto chiaro che tutto ciò che noi raccogliamo che viene offerto sull’altare, insieme al pane al vino, perché “i poveri sono sempre con voi”. Cioè, non c’è possibilità di sbagliarsi.

Insieme a questo, c’è il gesto che fa del pane e del vino, portati all’altare, frutto della terra e del nostro lavoro, come dice il testo liturgico (ma il 90% di noi non fa più il contadino, e quindi questa cosa … per noi è più chiaro offrire dei soldi, perché quello che ognuno di  noi fa nella vita è portare a casa uno stipendio). Se all’altare vengono portati il denaro, il pane e il vino: quello è il frutto del lavoro e della nostra fatica. Ed è diviso tra le necessità della comunità e i poveri, e basta.

Su questo c’è una quella che si chiama una falsa elevazione: quando il prete dice le parole dell’offertorio e alza il pane e il vino. Questa faccenda dell’elevazione è divertente e quindi dedico due parole. Le elevazioni si moltiplicano, ossia sono sempre di più, nei periodi storici in cui il popolo di Dio capisce meno di liturgia: perché quando il popolo di Dio non capisce più, c’è bisogno, almeno, di vedere. È come se fossi di fronte a qualcuno che parla difficile: ti sforzi di guardare, nella speranza di capire. Ma se hai di fronte la colonna e non vedi il celebrante, la cosa è finita, non capisci più niente…

Il risultato è che ogni volta che il popolo di Dio capisce meno la liturgia, il prete alza più volte l’ostia, il calice… come se ci fosse una specie di compensazione sul fatto che guardando, almeno va bene così… Io credo che al di là del fatto storico e al di là del fatto che questo accadeva soprattutto quando il prete era di schiena e quindi non si vedeva niente di quello che lui trafficava; alzare significava alzare sopra la testa per far vedere a chi stava dietro di lui. Attualmente il problema tecnico è spostato, perché noi vediamo sull’altare che cosa fa il prete; questo per esempio è uno dei motivi per cui, quello che vediamo ci dà un sacco fastidio: perché spesso gli altari sono peggio della mia scrivania; c’è su di tutto, tutto caotico…   Mentre proprio perché noi vediamo l’altare, sull’altare dovrebbe esserci ciò che merita di esserci per essere visto. Cioè niente, prima, e poi il pane e il vino e nient’altro. Ma a parte questa polemica osservazione sugli altari…

Sempre di più le elevazioni si fanno, non più alzando sopra la testa, ma mostrando: giustamente, nel senso che uno sta di fronte e non c’è il caso di alzare sopra la testa, a meno che ci sia una platea di duemila persone.. quello che ho bisogno di fare è il gesto di mostrare, di far vedere…

Al di là di questa questione di far vedere, c’è una osservazione che potrebbe essere interessante per noi, e cioè: il ruolo del vedere nella liturgia. Cioè noi abbiamo ridotto la liturgia a un fatto di capire, come dicevo all’inizio, dunque di parole; già abbiamo dimezzato o ancora meno i gesti, la corporeità, la postura, tranne per quello che riteniamo obbligatorio che non si sa ben che cosa sarebbe… e ci siamo completamente giocati gli occhi, in questa faccenda; non guardiamo più niente, anzi supponiamo che un atteggiamento pio sia quello di colui che tiene la testa bassa e guarda i propri piedi. Mentre le chiese sono sempre state una testimonianza di arte, di pittura, di statue e di altre cose, di soffitti affrescati… per il semplice motivo che erano fatte per essere guardare. Noi riteniamo che se uno sta in chiesa con la testa in altro guardando le pitture, sarebbe distratto; invece, di per sé, le pitture sono fatte perché ti aiutano, sono un altro percorso per entrare nella stessa faccenda. Per questo non contengono i manifesti pubblicitari, ma contengono la cosiddetta pittura sacra. Ora il problema nostro è che le chiese moderne sono brutte e non c’è niente da guardare; anche nell’antichità facevano delle chiese brutte, perché è vero che sono rimaste quelle belle, quelle brutte le buttavano giù. Cosa che succederà anche alla nostra attualità: resteranno quelle belle. Ma quindi a noi, siccome sono rimaste solo le chiese belle, sembra che un tempo facessero solo le chiese belle, non è vero… Io faccio spesso l’esperienza di andare a pregare in una chiesa piccola di Roma, che si chiama San Claudio, che è una piccola dove c’è l’adorazione perpetua, c’è il santissimo sempre esposto: quella per esempio è una chiesta del Settecento, brutta che fa spavento, una cosa inguardabile, in cui il fondo della chiesa, l’abside (la chiesa è stata costruita proprio per l’esposizione perpetua del Santissimo) è costituita da un manto gigantesco, grande come il fondo di una chiesa, di pellicce di ermellino vere, con le codine; una cosa veramente assolutamente inguardabile; l’idea era che l’ermellino era simbolo del re e quindi il grande re di tutto l’universo meritava una pelliccia d’ermellino assolutamente gigantesca.

Se le chiese nostre fossero belle, sarebbe meglio…Ma siccome, a differenza dell’offertorio, non risulta possibile cambiarle in tempi veloci, giriamo il dato spirituale al contrario e teniamocelo: in questa chiesa di San Claudio, il vantaggio è che è talmente brutta che l’unica cosa che puoi guardare è l’eucaristia, e quindi non ti distrai. Mettiamola così: le nostre chiese, spesso, sono talmente brutte che l’unica cosa che puoi guardare è l’altare: guardiamolo! Non smettiamo di usare gli occhi solo perché non c’è niente da guardare, proviamo a trovare che cosa c’è da guardare. Spesso le nostre chiese moderne sono brutte e un po’ incasinate, ma ad esempio hanno dei bei crocifissi, mediamente; perché su questo, l’arte moderna si è invece concentrata. Bene, usiamo queste cose, usiamo gli occhi. Perché gli occhi nella liturgia sono un fatto fondamentale: non è una distrazione. L’idea ottocentesca che bisognava stare a capo chino, fa parte di quella stessa famiglia di idee per cui le donne non dovevano incrociare lo sguardo di quelli che incontravano, per cui di fronte all’autorità del proprio padre, si doveva guardare per terra… Bene, nessuno di noi si comporta così nella propria vita: Dio non è un preside e dunque non dobbiamo stare a capo chino… Non si capisce di che cosa ci sta rimproverando…

Dunque nell’offertorio c’è una piccola elevazione, una falsa elevazione. Perché ci viene detto: non è tanto “benedetto sei tu Signore”, facendolo vedere a Dio che è presbite e non ci vede… Ma viene mostrato a noi, ciò che è raccolto: perché ognuno sa che cosa dà lui, ma siccome non sa o sarebbe meglio che sapesse o si impicciasse di quanto ha dato l’altro, uno alza gli occhi e gli viene mostrato quello che è il dono di tutti. E questo è il senso. Su questo tempo c’è la pessima abitudine di fare un canto, che in genere è legata al fatto che siccome il prete fa una serie di cose che impiegano più di 35 secondi, in cui noi non dobbiamo rispondere, ed essendoci questa paura del silenzio, uno ci piazza un canto e noi cantiamo tutto il tempo…

Questa cosa, ossia i canti come funziona sostitutiva di tutto ciò che ci fa spavento di lasciare com’è, perché se no, ci distraiamo… è orribile: questo tempo non ha mai previsto preghiere e formule, se non la preghiera di benedizione (“Benedetto sei tu, Signore…” che ci hai dato queste cose, che noi ti rendiamo). Tutto molto semplice, si capisce: Tu ci hai dato, nella nostra vita, la possibilità di lavorare, di fare e di essere… noi lo portiamo qui, perché tu ce lo hai dato; quindi Tu sii benedetto.  Però ci sono molti gesti: il prete si lava le mani, vengono portate le offerte… c’è tutta una serie di gestualità che è inutile azzerare con un canto; e se uno guarda per aria, guarda il crocifisso, chi c’è intorno, chi c’è quella mattina a messa… va benissimo, perché, per esempio, accorgersi di chi c’è quella mattina a messa è un modo per offrire la presenza degli altri, perché no?

Il canone della liturgia eucaristica

E poi entriamo nella grande questione, che normalmente viene considerata centrale, che è quella del canone della liturgia eucaristica. Qui si potrebbe andare avanti per ore…

Ci sono alcune questioni fondamentali. In seguito alla Riforma protestante, noi abbiamo ficcato nella testa, che la questione centrale della messa è la consacrazione. Questo è un errore di prospettiva, in polemica anti-protestante: siccome i protestanti non consacrano, perché vivono in un altro modo tutto questa faccenda (fanno il ricordo dell’Ultima Cena, ma senza valore epicletico, ossia senza consacrazione, senza credere che il pane e il vino si trasformano in Corpo e Sangue del Signore) i Cattolici…

Questa roba qui ha per noi un’aura di mistero: della serie, che uno deve stare in ginocchio, con la testa bassa, non guardare cosa succede sull’altare… perché che cosa potrebbe succedere? La consacrazione è un momento decisivo, centrale, evidentemente; perché noi siamo lì condotti…

Tutto quello che ho detto fino ad adesso (ricordate l’immagine della ruota e dei raggi?) è percorrere il raggio fino al centro: la consacrazione è questa esperienza di stare sulle ginocchia di Dio. È chiaro che è decisiva. Ma non decisiva nel senso che esce un fulmine e ci brucia: decisiva nel senso che uno si gode questo momento, il che è il motivo per cui ha poco da dire, poco da fare, in cui uno dovrebbe stare fermo e tranquillo. L’unico che si deve agitare e non deve sbagliare è il prete, gli altri possono stare fermi.

Perché quello che c’è da fare lì è prendere atto di questo amore immenso che ci ha salvati, che anche oggi non ci farà mancare la salvezza, e che ci dà tutto quello che è necessario per vivere. E questo avviene con una memoria che dice: non c’è amore più grande di quello di chi dà la propria vita per i propri fratelli; si fa memoria della morte del Signore.

C’è un problema di libri liturgici di questo genere. Il testo latino era molto unitario: c’erano quattro preghiere eucaristiche, ossia quattro modo diversi di celebrare questo momento, che erano legati a una piccola scelta di alcuni passi. La prima fase della riforma liturgica è stata la traduzione del messale in latino nelle lingue nazionali: quindi noi abbiamo avuto, in ogni lingua, le quattro preghiere eucaristiche. Dopo il 1975, ossia la cosiddetta seconda fase della riforma liturgica, si è detto: il problema non è prendere il latino e tradurlo nelle lingue nazionali, ma è pensare nella lingua nazionale tutta la struttura della preghiera eucaristica. Perché li si tratta di dire l’amore di Dio per noi, in ogni domenica, in ogni storia… bisogna trovare il modo di dirlo in modo comprensibile. Per esempio: Dio Onnipotente, è chiaro in tutti i paesi occidentali, di cultura neolatina filosofica, per cui l’attributo della divinità è la potenza; in Africa, Dio Onnipotente è tradotto come Dio degli Antenati e dei Tempi, che non è la traduzione letterale, ma che dice la stessa cosa che Dio Onnipotente in latino. Si trattava di fare questa seconda fase che è stata complicata. Per l’italiano è andato tutto abbastanza bene, perché l’italiano non è solo linguisticamente molto vicino al latino, ma il nostro mondo mentale è un mondo latino; per cui si tratta di aggiornare alcune questioni, ma non poi tanto. Più ci si allontanava dal cuore latino del mondo, più è stato complesso ed è complesso.

In seguito a questo, in italiano, si è fatta una revisione, per cui, oltre a una seconda traduzione riveduta delle quattro preghiere eucaristiche classiche, si sono scritte e pensate in italiano, una serie di altre preghiere (la V, la Va, Vb.. la VI eccetera) che seguivano degli andamenti leggermente diversi. E poi si sono scritte, un uso che era valido fino alla Riforma protestante, ma che poi era caduto, delle messe, cosiddette speciali, ossia dei canoni propri: per messe dei fanciulli, per la messa del sacramento del matrimonio… Ossia per alcune celebrazioni eucaristiche che chiedono di avere un tono particolare. Mentre spiegare la struttura e la forma dei quattro canoni classici era relativamente facile, perché quelli erano fatti in modo molto unitario, spiegarla oggi è molto diverso, perché ogni lingua nazionale ha un numero relativamente più ampio di canoni. Ma anche nella lingua italiana non c’è più un criterio totalmente unitario.

Dunque, in seguito a tutto questo, quello che vi dirò non corrisponde a nessuna delle preghiere eucaristiche, ma vi dico gli elementi fondamentali che sono identici in tutte, perché sono quelli richiesti; ognuna le articola secondo una serie di criteri che sono diversi, perché se no, non si farebbero tante preghiere diverse!

Il primo elemento fondamentale è il Prefazio. Cioè,  prima del “santo”, c’è una preghiera (quella che inizia: “È veramente cosa buona e giusta…”). Il Prefazio ha forme molto diverse. Qual è la sua logica? Questa preghiera ha una duplice funzione: ricordate, ho detto che c’è l’ingresso, poi c’è la Colletta, che sarebbe quando ci arriviamo con la testa; poi c’è tutto il tempo: letture, omelia, credo, in cui la nostra testa che è arrivata comincia a funzionare un po’; poi c’è l’aggancio della preghiera universale in cui si dice: tutto il mondo qua con noi; poi c’è il Prefazio, che ha esattamente la stessa funzione della Colletta, ma un passo più avanti. È come se si dicesse: un momento, vi siete accordi di cosa ci stiamo occupando? Qui non siete più voi: sta per arrivare Dio. Sta per esserci il passaggio: qui siamo arrivati, abbiamo detto i convenevoli di casa, le due parole di circostanza, ci siamo un po’ raccontati alcune cose… Adesso arriva il bello: la cena è servita, si va a tavola. Siamo tutti lì, anche il grande padrone di casa sta per fare il suo ingresso. Quindi la prima funziona del Prefazio è quella di dire: siamo arrivati qui e sta arrivando il padrone di casa. E questo viene fatto collocando l’arrivo di Dio nel momento liturgico: cioè, come la Colletta, ci dice: “in questo tempo di Quaresima…” oppure: “in questo tempo di purificazione che ci avviamo…”. Cioè ci ridice dove siamo, perché siamo andati lì, qual è l’occasione. Ma lo fa in modo stupendo: il Prefazio quando viene bene letterariamente è molto bello. Spesso non ci abbiamo mai fatto molta attenzione: lo fa riassumendo tutta la storia della salvezza in poche righe. Questa è la sua seconda funzione: questo è un momento specifico, particolare, ma attenzione, questo momento specifico è dentro una storia che è così.

È come quando uno, in una storia tra due persone, cerca di mettere in piedi un momento speciale. In genere facciamo dei grandi equilibrismi verbali, linguistici, organizzativi, di regali, cene, ambientazioni… per dire fondamentalmente: voglio farti gli auguri per il compleanno, in questo modo e mi è importante farteli, ma non perché sia così fondamentale il tuo compleanno, ma per quello che io e te siamo, per tutta questa storia, per i tanti compleanni passati insieme, per quelli che vorrei ancora passare insieme… Cioè noi diciamo: c’è questa occasione, questo è il luogo, questo è il motivo, però quello che vorrei dire è che questo motivo è così importante perché sta dentro una storia. Questo è il motivo per cui, con gli amici, diciamo: festeggiamo un “non compleanno”, cioè creiamo un’occasione particolare per dirci che questa storia, questa vicenda… cerchiamo un’occasione qualsiasi per festeggiare, perché ciò che stiamo festeggiando è la nostra amicizia, la storia che ci unisce, che certo ha in quel luogo specifico…

Ecco il Prefazio funziona così: da una parte ci dice che siamo tutti arrivati e che sta arrivando il padrone di casa, dall’altra parte ci dice che c’è un tempo particolare, questa domenica, nella liturgia della Chiesa, ma anche nella tua vita: non è una domenica qualsiasi. Questa domenica sta dentro questa storia che è iniziata prima dell’inizio dell’umanità e finirà solo nell’ultimo giorno.

A questo segue il Santo, che è l’altro momento qualificante, è la versione latina del Kyrie. C’è questa costruzione proprio strutturalmente carina, fatta per essere cantata, quindi il Santo recitato dovrebbe essere l’extrema ratio. Questa è una delle pochissime parti della messa in cui, salvo rare eccezioni, si dovrebbe cantare sempre.

Poi, dopo il Santo, c’è un passaggio, una preghiera, che si chiama ancora con il suo nome latino: Nunc Igitur. Fa semplicemente da connessione tra questo nostro dire: il Santo riprende il racconto di Gesù a Gerusalemme, quindi è la nostra risposta al prefazio. Noi, come la gente di Gerusalemme, davanti all’annuncio dell’arrivo del padrone di casa (Prefazio) ci mostriamo contenti di questo arrivo. Tra questo momento responsoriale e la Preghiera Eucaristica vera e propria, c’è questa preghiera di passaggio che dà un tono, dice in forma umana, l’attesa e il desiderio di ciò che sta accadendo. Soprattutto nelle nuove preghiere eucaristiche, non nella traduzione delle prime quattro, questa parte è molto bella. Per esempio, la V o VI, che è costruita sullo schema dell’incontro dei discepoli di Emmanus: ha tutto il tema della strada, che è la nostra esistenza, facciamo una sosta, le parole che abbiamo ascoltato ci hanno scaldato il cuore, come i discepoli di Emmanus desideriamo riconoscerti nel momento in cui spezzerai il pane… Ricostruisce l’ambientazione.

Poi ci sono due punti fondamentali, che si chiamano con nome tecnico: l’epiclesi e l’anamnesi.

Epiclesi significa far scendere, tirar giù, chiamare per far venir giù. Tutte le epiclesi richiedono sempre l’imposizione delle mani. Sarebbe, concretamente, quando, durante la consacrazione, il prete stende le mani sul calice e sul pane, e se ci sono dei concelebranti allungano le mani. L’idea è antichissime ed è che l’imposizione delle mani trasmette, impone, chiama lo Spirito Santo. L’epiclesi è il momento in cui… è il cuore del cuore della struttura sacramentale.

Perché i cristiani celebrano i sacramenti? Noi abbiamo molto l’idea che noi celebriamo i sacramenti per dire: io mi impegno a…. Che però è la negazione della struttura sacramentale. Per questo basta firmare un contratto, non un sacramento. Io mi impegno a: è l’idea dell’antica alleanza, Gesù Cristo non c’entra niente. In cui si dice: Dio ti ha dato questo, tu che cosa vuoi fare? Questa via o l’altra? Per esempio Gs 24: Giosuè piantò 12 pietre sul guado del fiume, a testimonianza perenne… Queste pietre sono testimoni… Se non seguire ciò che il Signore vi ha detto… Tutto questo con i sacramenti, dopo la morte di Cristo, non c’entra nulla: l’idea del sacramento è esattamente l’opposto. È che di fronte a qualcosa della mia vita (i sacramenti, guarda caso, sono sette e sono intorno alle questioni simboliche della nostra esistenza: nascere, mangiare…), ciascuno di noi ha la percezione, che è la percezione ordinaria, che il nostro desiderio, le nostre possibilità non sono della stessa misura. Cioè: quando io dico a qualcuno, ti amerò per sempre, sono assolutamente sincero, ma sto dicendo una cosa falsa; perché io non ho potere su “per sempre”, perché possono succedere tantissime cose… Io ho veramente il desiderio che sia così, “ti amerò per sempre”, ma la realtà non ha questa misura: la realtà è che non ho la potenza di dire “per sempre”. Questo vale di fronte a un figlio che nasce: avrò cura di te per sempre. È il grande desiderio dei genitori: io ti metterò sulle tue gambe perché tu possa andare sicuro. Sincero, ma fasullo, come dimostrano le storie dei figli. Di fronte a questo, ossia che il nostro desiderio non è commisurato alle nostre possibilità, ci sono varie possibilità, la gente fa le più varie cose: rimuove il problemi, fa finta di non sapere, si affida ai maghi… I cristiani hanno compreso nella storia dell’esperienza credente di fronte alla vita, quando sperimentano che il desiderio non è alla misura delle loro possibilità, pongono il loro desiderio nelle mani di Dio. Perché Dio, che è padrone del “per sempre”, che l’unico che può dire potentemente “sì”, dica effettivamente “sì” e compia il desiderio, in genere nelle sue forme misteriose che non sono così immediatamente comprensibili… ma compia quel desiderio, dato che Lui può farlo. Questo è esattamente il contrario dell’io mi impegno a… Perché per “Io mi impegno a…”, bastavano i matrimoni pagani, non serviva il sacramento. Il sacramento serve esattamente a dire: il mio desiderio, la mia sincerità dice che questo amore è la cosa più bella che mi è successa; e vorrei che ogni minuto della mia vita, d’ora in avanti, fosse giocato qui dentro; dato che so che questo mio desiderio ha una fragilità spaventosa, lo metto nelle mani di Dio, perché Dio ponga il suo sigillo, la sua potenza su questa cosa.

L’epiclesi, quindi, sarebbe questo momento qui: noi abbiamo portato qui le cose, ci siamo tolti dalle tasche tutto quello che avevamo (il pezzo di corda, il sassolino…), abbiamo tolto tutto quello che era in nostro possesso e lo abbiamo messo lì. Sarà poco, ma è tutta la nostra vita: di altro da vivere non abbiamo. A noi piacerebbe che questi pezzetti della nostra vita fossero carine, perché di per sé ci farebbe piacere che andassero bene. Lo diciamo nell’Offertorio, lo ridiremo dopo l’anamnesi, quando si prega per i vivi, per i morti, per la salute, per la pace. Noi di vita abbiamo solo questo: se stanno bene i vivi, se sentiamo vicini i morti, se stanno contenti quelli che amiamo, se la Chiesa sta in pace, se il mondo sta in pace, se viene assicurato il buon tempo e i frutti della terra… noi saremmo più contenti. L’epiclesi è il momento in cui, la potenza dello Spirito Santo scende a trasformare il pane e il vino nel sacrificio di Cristo, cioè nell’unica vita pienamente compiuta secondo il desiderio.

Non è che noi celebriamo il sacrificio di Cristo perché abbiamo un gusto un po’ sadico di vedere il sangue tutte le domeniche: noi celebriamo il sacrifico di Cristo perché sappiamo che il compimento del desiderio della vita è in quel mistero di croce e risurrezione, che è la vita compiuta, che colma il desiderio. E dunque l’epiclesi è l’invocazione dello Spirito Santo perché trasformi il pane e il vino e, insieme al pane e il vino, di straforo, la nostra vita che mettiamo lì vicino, perché compia il desiderio per le possibilità che non abbiamo.

Annosa questione tecnica: ci si inginocchia alla consacrazione o no? Perché tradizionalmente, il consiglio rubricale sarebbe di inginocchiarsi all’epiclesi, cioè quando il sacerdote impone le mani, e di alzarsi al “mistero della fede”. Qui ci sono varie scuole di pensiero, nel senso che si può pensare quello che si vuole, non è così fondamentale. La mia riflessione è solo sulla partecipazione del corpo a ciò che si sta celebrando e non tanto alla norma. Il gesto dell’inginocchiarsi è un gesto totalmente estraneo: nella nostra vita quotidiana noi non ci inginocchiamo mai. Raramente ci alziamo in piedi: giusto quelli più ben educati tra noi, sono stati educati ad alzarsi in piedi quando arriva un altro, tra amici in genere noi non lo facciamo; noi stiamo, in genere, stravaccati o seduti a un tavolo a lavorare. Quindi la nostra gestualità non è più la stessa di quella in cui è stata concepita la gestualità della messa, che era: in piedi è l’atteggiamento del figlio che sta in piedi di fronte la padre, in ginocchio è l’atteggiamento del suddito che sta di fronte al re, seduto è l’atteggiamento del pari che sta…

Questa distinzione nella nostra testa e nei nostri corpi non è più iscritta. Noi, per esempio, abbiamo la distinzione che è: composto e scomposto. Per cui stiamo composti nei luoghi e nelle occasioni un po’ importanti, stravaccati nelle altre.

Faccio ancora una parentesi. Una delle cose più odiose nella messa è che i chierichetti che stanno a fronte a noi, stanno sempre scomposti, perché sono bambini. Il problema non è che loro sono scomposti, ma che noi percepiamo ancora la messa come uno dei pochi posti in cui ci si dovrebbe stare composti: quindi ci danno fastidio i ragazzini che stanno stravaccati sull’altare. E lì si apre un’annosa questione… Io ho questa teoria, che vi ho già detto altre volte: la spontaneità nella messa è la stessa della buona educazione dove si svolge. Nessuno permetterebbe ai propri figli di vomitare, saltare con i piedi sulla tavola della zia. Il fatto che un bambino piccolo si senta autorizzato, a casa della zia, a prendere i vasi di cristallo e a buttarli per terra… non fa parte della nostra cultura. Nessuno lo tiene impalato come un bimbo ottocentesco, ma ci sono alcuni limiti, che percepiamo e che sono quelli della buona educazione. Dunque, un bimbo può essere spontaneo fino ai limiti della buona educazione; e la buona educazione dipende strettamente dalla famigliarità del luogo dove andiamo. Per cui se si va a trovare l’amichetto e il bimbo si toglie le scarpe, va bene; se si va a trovare qualcuno di importante e si sta un quarto d’ora, non ci si toglie le scarpe. Per la messa vale lo stesso criterio: i limiti di buona educazione di un posto in cui siamo in tanti e quindi bisogna tenersi in limiti accettabili. Per quanto riguarda la questione dei chierichetti, c’è una cosa che funzionerebbe anche in termini educativi per i ragazzini di 7/10 anni, che è una cosa che rischiamo di non avere neppure noi: a messa è uno dei pochi posti in cui rischiamo di essere visti. E noi culturalmente non abbiamo più il criterio di essere visti; abbiamo il criterio di sentirci a posto e mai di essere visti, ossia di chiedere a quello che ci guarda, che effetto facciamo. Forse dovremmo iniziare a dirci che una situazione comunitaria è una situazione in cui uno è visto: quindi il suo modo di essere non è solo un’espressione di lui, ma deve essere anche un qualcosa di guardabile per gli altri. Per esempio: eccessiva formalità è brutta da guardare, eccessiva informalità è altrettanto brutta da guardare; tanto ci dà fastidio uno che sembra finto, tanto ci dà fastidio uno che sta sbracato.

Rispetto al fatto di inginocchiarsi alla consacrazione, c’è un canone del concilio di Calcedonia, mai abolito, che sostiene che è proibito ai cristiani di inginocchiarsi, perché non hanno più un re sulla Terra, perché solo il Signore è il Signore, dunque non ci si inginocchia più, mai. Lì si usava la gestualità orientale dell’inchino: anche l’inchino è fuori dalle nostre abitudini, mentre sta tornando un po’ di moda nell’abito liturgico.

Qui mi sembra che la questione non sia inginocchiarsi/inchinarsi oppure no, ma sia ridorare che siamo guardati: facciamo l’esperienza di un luogo in cui il nostro corpo non esprime solo noi, ma deve essere anche guardabile da tutto il resto della comunità. Mi sembra un criterio interessante.

L’anamnesi, viene sempre dal greco, vuol dire memoria. È l’unico pezzo della messa in cui si usa il passato: la messa, come tutta la liturgia, usa sempre il presente, che si chiama “presente liturgico”. Cioè: “oggi eravamo schiavi in Egitto e oggi Dio ci ha liberati…”. Nell’anamnesi, il racconto (“nella notte in cui fu tradito, prese il pane…”) usa il passato perché deve esserci chiaro che quella faccenda è già avvenuta, cioè che la nostra salvezza, una vita di desiderio colmata, è già compiuta. Noi stiamo chiedendo a Dio un miracolo, tutte le volte che celebriamo la messa: si usa il passato perché quel miracolo non sarà compiuto, ma è già compiuto. Il passato dice anche che funziona anche se noi ci distraiamo: dato che è già accaduto, se mi distraggo, funziona uguale. Non è che se più tutti si concentrano, più Gesù viene giù. È la celebrazione di una realtà accaduta che si ripete quel giorno per noi, che si ripeterà fino all’ultimo giorno, che si ripete in ogni luogo della Terra, in cui non possiamo farci nulla: non riusciremo più né a danneggiarla né a interromperla.

Io uso sempre, per me, per aiutarmi, due testi della Scrittura e uno della letteratura, che di fronte a questo racconto dell’Ultima Cena, che ho troppo nelle orecchie per vederlo, mi danno il colore di quella faccenda.

Il primo testo è un paio di versetti del capitolo 62 di Isaia:

6 …Voi, che rammentate le promesse al Signore,
non prendetevi mai riposo
7 e neppure a lui date riposo,
finché non abbia ristabilito Gerusalemme
e finché non l’abbia resa il vanto della terra.
8 Il Signore ha giurato con la sua destra
e con il suo braccio potente:
«Mai più darò il tuo grano in cibo ai tuoi nemici,
mai più gli stranieri berranno il vino
per il quale tu hai faticato.

Io li trovo tra i versetti più belli e consolanti della Scrittura. E mi sembrano il segno del perché, tutti i giorni, in ogni parte del mondo, in ogni buco, in una chiesa piccola e in una cattedrale, con una comunità viva e con una comunità insesitente… c’è sempre una messa: perché noi crediamo in quelle parole di Isaia, e noi, che ricordiamo le promesse del Signore, non ci prendiamo mai riposo. Lo prenderemo per stanchezza, gli ricordiamo la fedeltà alle sue promesse. E gli diciamo: ci hai promesso, nel tuo Figlio, che saremmo stati salvati, devi essere fedele alla tua parola. E non gli daremo riposo, fino a che non sia ristabilita Gerusalemme. E questa è una roba che, quando tu senti per la milionesima volta nella tua vita, le parole della consacrazione, o sono la nenia che non ti accorgi più, oppure ti ricordi che stiamo ricordando a Dio la sua promessa in Gesù Cristo e la sua fedeltà; e non ci prenderemo riposo, non ci stancheremo di ricordarglielo, e non gli daremo pace finché non abbia ristabilito Gerusalemme.

Il secondo testo che uso spesso è al primo libro dei Re, al capitolo 19, dove c’è la vicenda di Elia che, chi mi conosce sa, io amo moltissimo; vicenda complicata, mi riferisco in particolare al pezzo in cui Elia non ne può più, e dice: “Ora basta Signore..”:

4 Egli si inoltrò nel deserto una giornata di cammino e andò a sedersi sotto un ginepro. Desideroso di morire, disse: «Ora basta, Signore! Prendi la mia vita, perché io non sono migliore dei miei padri». 5 Si coricò e si addormentò sotto il ginepro. Allora, ecco un angelo lo toccò e gli disse: «Alzati e mangia!». 6 Egli guardò e vide vicino alla sua testa una focaccia cotta su pietre roventi e un orcio d’acqua. Mangiò e bevve, quindi tornò a coricarsi. 7 Venne di nuovo l’angelo del Signore, lo toccò e gli disse: «Su mangia, perché è troppo lungo per te il cammino». 8 Si alzò, mangiò e bevve. Con la forza datagli da quel cibo, camminò per quaranta giorni e quaranta notti fino al monte di Dio, l’Oreb.

Su questo passo, si dice che Dio ascoltò la sua preghiera: perché ti aspetti che nel versetto dopo ci sia scritto che Elia morì, stecchito, sul momento, perché se ascolta la sua preghiera e la sua preghiera è di morire, dunque… Ascolta la sua preghiera, fece scendere su di lui un grande sonno, poi compare un angelo che lo sveglia, gli dà un pane e gli dice: “mangia uomo di Dio”. Per tre volte lui si addormenta, viene svegliato dall’angelo che gli dà il pane. All’ultima volta, l’angelo gli dice: “mangia perché lunga è la strada verso il monte di Dio, l’Horeb”. E poi dice:

 8 … Con la forza datagli da quel cibo, camminò per quaranta giorni e quaranta notti fino al monte di Dio, l’Oreb.

L’altra faccia del rammentare le promesse a Dio, è: ci si stanca. Ci si stanca di rammentare a Dio le sue promesse, ma ci si stanca anche a vivere, banalmente. E dobbiamo prendere sul serio la nostra stanchezza. L’eucaristia ci dice, almeno una volta la settimana (perché se ci andiamo meno, non basta alla nostra stanchezza), che uno può dire a Dio: adesso basta, fammi dormire e fammi mangiare, perché la strada per camminare quaranta giorni, anzi solo fino a domani mattina… non ho più fiato. Quindi: testardi nel ricordare le promesse di Dio, onesti nel riconoscere le nostre stanchezze.

La cosa che mi fa molto ridere quando la penso, soprattutto quando sono molto arrabbiata con il prete che celebra, è che questo testo di Elia viene rappresentato, nelle icone orientali, con un corvo, il corvo di Elia, al posto dell’angelo, che ha nel becco il pane che porta ad Elia. Non so se la spiegazione sia questa, ma è la mia spiegazione: come a dirci che non sempre gli angeli non sempre hanno la faccia da angeli, a volte hanno la faccia di corvi. Quando c’è un prete che vi fa molto arrabbiare per come celebra, ricordatevi che ogni tanto gli angeli hanno la faccia di corvo. Sono venuti così, ma quello che portano nel becco è lo stesso cibo che danno gli angeli.

Il terzo testo che io considero sempre rispetto al pezzo dell’anamnesi, è un racconto ebraico che viene riporatato da Elia Wiesel, in un libro che si chiama “Celebrazione Hassidica. Ritratti e leggende” (Spirali Editore, 1987), che dice così:

il bisnonno, del trisnonno, del trisnonno, abitava in un villaggio di Ebrei in Polonia, dove c’era un rabbino considerato molto potente che ogni volta che c’era un pericolo per la comunità, prendeva, andava in una radura e raccoglieva della legna, accedeva un fuoco, recitava una preghiera e il pericolo si allontanava. Suo nipote non viveva più in quel villaggio e quindi non poteva più andare nella radura; allora andava nel proprio cortile accendeva un fuoco, recitava una preghiera e il pericolo veniva allontanato. E poi suo nipote non aveva più un cortile, viveva in città, allora accendeva il fuoco nel camino, recitava la preghiera e il pericolo si allontanava. Ma poi, suo nipote, non aveva neppure più neppure il camino, recitava la preghiera e il pericolo veniva allontanato. Ma poi, suo nipote si era dimenticato la preghiera, e allora raccoglieva i piccoli e raccontava questa storia e il pericolo veniva allontanato.

E il brano finisce dicendo, che è una considerazione di Wiesel questo autore ebreo: nell’avvicinarsi della Shoa, dell’Olocausto, forse il problema è che nessuno ha più saputo di raccontare la storia e il pericolo non è stato allontanato.

Io penso sempre a questo raccontino perché mi sembra che una delle grandi consolazioni è che la Chiesa ha messo per iscritto, nei libri liturgici, la storia da raccontare: forse non avremo fuochi, non sapremo più niente, non saremo in grado di dire perché, ma come bambini piccoli abbiamo tutti nelle orecchie questa storia: “La notte prima della sua passione…prese il pane… lo spezzo”. Finché riusciremo a raccontare questa storia, il pericolo sarà allontanato. Questo è un altro pensiero che mi fa una grande compagnia di fronte al sentire sempre la stessa storia.

Fossano, 16 marzo 2002

Testo non rivisto dal relatore

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