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17 Novembre 2003
Stella Morra

1. L’a priori, una grazia (o una disgrazia?)

Commento a: Es 1, 8-2,10


Premessa

L’anno scorso abbiamo fatto un percorso sulla Parola di Dio sul tema del conflitto.

Dai riscontri che ho avuto, mi pare sia stato interessante verificare alcuni brani un po’ più duri, quelli che spesso lasciamo da parte perché ci inquietano, e tentare di misurare i nostri conflitti.

Il conflitto è presente nella nostra esperienza, nella grande storia, così come nelle nostre storie e fatiche quotidiane. Certo è un tema un po’ sgradevole, di quelli che si fatica a mettere insieme con l’essere cristiani, se non con sensi di colpa che spesso non ci aiutano ad andare avanti.

Ci è sembrato di aver fatto un percorso fecondo, ricco, che non ci ha dato tutte le risposte: sappiamo bene che la Parola di Dio non è un libro di ricette che indica come comportarsi nelle varie situazioni.

Sicuramente abbiamo scoperto uno spessore nuovo, una rilevanza che in generale la parola di Dio sembra non avere sulla realtà, di fronte alle situazioni più dure, meno scontate, meno immediate.

Anche quest’anno abbiamo pensato di affrontare un tema un po’ difficile, a doppia faccia.

Ci pare valga la pena insistere un po’ su temi duri della nostra esperienza umana e credente.

Sono temi – ribadisco – non facilmente compatibili con la fede cristiana, e realmente difficili per noi, anche solo per vivere una vita di cui non doversi  troppo vergognare.

Abbiamo scelto il tema del potere perché ci sembra una delle questioni più difficili di questo tempo storico.

E’ un’arma a doppio taglio, ci coinvolge sempre, ci sentiamo tutti condizionati e limitati da un potere talmente grande che non ha più faccia, nome; non è combattibile in nessun modo, non si può governare, non dipende da noi. E’ il potere della politica, delle leggi, della televisione, dei giornali. E’ tutto così enorme che non ci resta che brontolare. E tutti variamente brontoliamo, su una cosa o su un’altra, a seconda delle idee e delle posizioni.

Quando poi ci troviamo noi stessi in situazioni in cui possiamo o dobbiamo decidere, ci sembra di non avere potere sufficiente per fare o scegliere le cose. E’ un tema che ci paralizza: da una parte è troppo grande, dall’altra troppo piccolo. E noi stiamo in mezzo, con la sensazione che non c’entriamo mai niente, che … ‘non è mai colpa mia’, … ‘non è mai merito mio’, … ‘io sono sempre in qualche modo irrilevante’.

Ci pare un tema a tante facce. Già il titolo: poter fare, poter dire, poter essere voleva significare questo.

Noi usiamo potere come verbo servile, che si accompagna ad un altro verbo, ma la nostra attenzione è sul secondo verbo: la cosa importante è fare, dire, essere più che …potere!

Quando lo usiamo come sostantivo ‘il potere’, sembra un’altra parola, ha tutto un altro suono.

Forse però il potere è l’insieme di poter fare, poter dire, poter essere e allora bisogna smontare questo termine per capire che non è necessario paralizzarsi.

Il percorso lo vedremo mano a mano.

Due parole sui testi scelti. Io non ho molta sicurezza. Questi itinerari sono sì pensati e preparati da me, ma sono anche realmente un’esperienza fatta insieme a voi. La scelta dei testi è fatta all’inizio, poi la strada è segnata anche dai commenti che mi arrivano in varie forme.

 

Introduzione

Ecco la logica con cui ho scelto i testi.

I primi tre sono tratti dall’Esodo e riguardano Mosè. Per una volta non faremo un campionario di tanti testi, scegliendoli qua e là, ma per tre incontri seguiremo la figura di Mosè. Sono tre testi in cui vedere come si concretizzano alcuni passaggi fondamentali di questa esperienza del potere nel racconto di una biografia, quella di Mosè.

Mi è sembrato un buon percorso per  scoprire qualcosa circa il potere e superare l’idea che il potere sia comunque una cosa brutta, e scoprire nello stesso tempo le difficoltà che ci sono.

In seguito avremo due testi dai titoli evocativi: Potere dei desideri e  Poteri che si vedono e quelli che non si vedono.

Nei Vangeli è molto chiaro che Gesù è colui che ha ogni potere, ma poi succedono tante cose strane quando colui che ha ogni potere incontra le persone con le loro storie concrete, le domande, i desideri, i bisogni, le malattie, le difficoltà…

Gli ultimi due testi saranno uno dalla Lettera agli Ebrei e uno dall’Apocalisse per cogliere di più due questioni del potere riguardo a noi stessi, al modo in cui ciascuno di noi vive dentro di sé il potere, e sono: Potere e paura e La verità del potere.

Il testo di oggi è facile, molto conosciuto, racconta l’inizio della vicenda della liberazione degli ebrei, la nascita di Mosè.

Questa narrazione è piana, semplice, ma se lo guardiamo con un po’ più di attenzione ci sono alcuni elementi che vale la pena di analizzare.

Primo: è tutta una faccenda di donne: le levatrici, la madre, la sorella, la figlia del faraone…e al centro c’è il parto.

Secondo: c’è molta ambiguità. Tutti raccontano bugie, fanno scena, recitano. Per prime le levatrici, che in più vengono beneficate da Dio, poi la sorella di Mosè….

I buoni non sono quelli che dicono la verità, bensì quelli che mentono. Il faraone dice la verità, ma è il cattivo, mentre le donne, che dicono una gran quantità di bugie, sono i buoni della storia.

Non conoscersi

“Allora sorse sull’Egitto un nuovo re, che non aveva conosciuto Giuseppe”. Questo è il punto di partenza.

E’ come se tutto ciò che ne seguirà, le disgrazie e le grazie – la liberazione dall’Egitto, la costituzione del popolo come popolo,  l’affermazione della discendenza che porterà a Maria, donna ebrea, e poi a Gesù, tutta questa grande storia, che ha inizio in Genesi con la creazione – avesse una strettoia in questo passo. Qui  sembra che tutta la storia dipenda dal fatto che il nuovo faraone non aveva conosciuto Giuseppe: una mancanza di presentazione avrebbe causato tutta questa vicenda!

E’ come se ci fosse detto che, quando ci si conosce, la storia ha un altro ritmo.

Questo lo sappiamo bene: anche per noi è difficile odiare qualcuno di cui conosciamo il nome, la storia. Più i nostri rapporti con gli altri sono impersonali, più ci sopportiamo male, mentre se ci conosciamo personalmente, scopriamo sì cose fastidiose, ma sappiamo che è possibile perdonarle; con coloro a cui vogliamo bene possiamo arrabbiarci, ma in genere non odiarli. Sta nella fatica di un rapporto per cui dell’altro mi irritano i gesti, le parole, non in un’ideologia dello sterminio, non è mai una teorizzazione.

La grande teorizzazione che il faraone fa sembra  nascere dal fatto che non conosce.

Prima domanda che potremmo porci: Forse il potere a volte ci risulta così malvagio, un’idea così brutta, cattiva, perché non conosciamo i meccanismi stessi del potere?

Uso violento del potere

“Ecco che il popolo dei figli di Israele è  più numeroso e più forte di noi. Prendiamo provvedimenti nei suoi riguardi per impedire che aumenti, altrimenti in caso di guerra, si unirà ai nostri avversari, combatterà contro di noi e poi partirà dal paese”. 

La molla di un uso violento del potere nasce da una paura di qualcosa che potrebbe accadere, non di fronte ad una realtà! ‘Se ci fosse una guerra, e se in caso di guerra questi si mettessero contro di noi…allora sarebbe un problema!!’.

C’è un gioco all’anticipo, che è l’altra faccia del non conoscersi: non conosco, dunque tento di prevedere, sposto in avanti, esamino le possibilità e, normalmente, mi misuro sulla possibilità più negativa.

Anche questo è un elemento interessante perché la conclusione è: “combatterà contro di noi e poi partirà dal paese!”… ed è quello che succederà realmente dopo tutto il caos.

La grande paura è sì una realtà, ma una realtà che ha un segno completamente diverso.

Vennero imposti dei sovrintendenti ai lavori forzati per opprimerli”.

In questo inizio ci sono tutte le coordinate base di questa dinamica: il tema del conoscere o non conoscere, il tema della paura che genera l’ideologia del potere, e il tema del potere che si moltiplica, della distribuzione dei privilegi per tirare dalla propria parte.

Prima di tutto si moltiplica il potere, il controllo cooptando sovrintendenti perché saranno fedeli al faraone  invece che agli ebrei. E’ un meccanismo antico come il mondo.

Secondo me questa situazione è molto attuale, concreta, e mi sembra molto pericolosa. Spesso di fronte alle difficoltà e alle paure abbiamo questo atteggiamento: moltiplichiamo e cooptiamo, tiriamo dalla nostra parte, tentiamo di dividere e di disseminare dei privilegi perché chi li ha ricevuti possa stare dalla nostra parte… in caso di…

Ecco come emergono tutte le radici di ciò che noi normalmente pensiamo rispetto a questo tema.

Libertà della realtà

“Ma quanto più opprimevano il popolo, tanto più si moltiplicava e cresceva oltre misura”

Emerge la grande libertà della realtà, che funziona secondo una logica propria.

Il faraone fa un ragionamento su una possibilità: “potrebbe accadere che…” e ottiene esattamente l’effetto opposto: più il popolo è oppresso,  più si moltiplica. E la paura del faraone era proprio che fossero troppo numerosi!

La realtà ha una sua vitalità propria che provvede a smentirci quanto basta, a rimandarci un effetto indesiderato.

A questo tema potremmo dedicare un po’ di riflessione nel tempo che ci prepara al Natale: la paura è uno dei nostri più quotidiani compagni, fa parte della nostra esperienza.

Molte delle nostre energie sono spesso spese a tenere a bada ciò che potrebbe accadere, ma l’effetto di ragionare sul possibile invece che sul reale, è che poi, nel novanta per cento dei casi, otteniamo l’effetto opposto, avendo per di più sprecato un sacco di energie, essendoci spremuti in questo ragionamento per tenere  a bada, per governare tutto ciò che potrebbe accadere.

Il potere dei sogni

“Si cominciò a sentire come un incubo la presenza dei figli di Israele”.

Questa è una frase molto plastica, mi sembra molto visibile, reale, concreta, vorrei che la sentissimo per come è scritta.

Noi sottovalutiamo tantissimo il potere dei sogni e degli incubi, di ciò che sentiamo come buono o cattivo per noi e del fatto che questo alla fine cambia davvero la realtà.

A questo proposito ho qui una copia del discorso sulla pace fatto dal Papa Paolo VI alle Nazioni Unite il 4 ottobre 1965. Ad un certo punto dice:

“Se volete essere fratelli lasciate cadere le armi dalle vostre mani… le armi, quelle terribili, specialmente, che la scienza moderna vi ha dato, ancor prima che produrre vittime e rovine, generano cattivi sogni, alimentano sentimenti cattivi, creano incubi, diffidenze e propositi tristi”.

Credo che dovremmo riflettere sulla potenza che hanno i sogni cattivi.

A forza di pensare che quell’altro è malvagio, che mi fa paura, a forza di mettere energie nell’evitare, riusciamo a generare il male di cui abbiamo paura, a livello di singoli, ma non solo!… Mi conforta che il Papa lo riconosceva a livello delle nazioni!

Il faraone ha come incubo gli ebrei e gli ebrei diventeranno il suo incubo. Diventerà reale l’incubo che lui ha di fronte a sé.

“Per questo gli Egiziani fecero lavorare i figli d’Israele trattandoli duramente. Resero loro amara la vita costringendoli a fabbricare mattoni di argilla e con ogni sorta di lavoro nei campi: e a tutti questi lavori li obbligarono con durezza”.

E’ come se tutta la storia di Israele, avesse qui la strettoia di una disgrazia, come se tutto fosse legato a questa specie di disgrazia originaria: “resero loro amara la vita”.

E’ un altro versetto che credo tutti capiamo bene. Non dice faticosa, dolorosa, impossibile, parole che usiamo noi, ma dice resero loro amara la loro vita.

Ognuno di noi sa che la vita può essere amara, il che è peggio che non faticosa, dolorosa, impossibile. Un po’ di eroicità in una situazione estrema più o meno siamo tutti in grado di inventarcela. Non si può stare tutta la vita in una situazione estrema: prima o poi anche una situazione estrema da qualche parte sblocca, ma l’amarezza che può avere una vita normale, è la cosa più pesante da sopportare in assoluto, credo.

C’è questa sorta di disgrazia originaria, di una vita diventata amara  da cui parte tutta la storia di salvezza che passerà attraverso il popolo ebraico: la sua liberazione, la sua alleanza con questo Dio potente.

 

Le donne

Su questa amarezza entrano in gioco le donne. Fin’ora si è parlato di maschi, dal versetto 15 alla fine del brano si parla solo di donne.

Prima di tutto sono le levatrici degli ebrei. A loro viene dato un ordine:

“Quando assistete al parto delle donne ebree,… se è un maschio lo farete morire; se è una femmina, potrà vivere. Ma le levatrici temettero Dio: non fecero come aveva loro ordinato il re d’Egitto e lasciarono vivere i bambini…..  Dio beneficò le levatrici. Il popolo aumentò e divenne molto forte. E poiché le levatrici avevano temuto Dio,  egli diede loro una numerosa famiglia”.

E’ interessante che il punto di svolta della vita amara sono della donne che si occupano di nascite. Quando si dice donne, non si intende una collocazione, una descrizione di ordine sessuale all’interno della storia, per cui ci siano delle cose riservate alle donne e non ai maschi, ma ci si riferisce alla parte femminile di tutti noi, che funziona in un modo proprio.

La figura delle donne nella scrittura spesso è l’immagine di alcune dimensioni dell’umanità che, al tempo in cui questi testi sono composti, venivano più legati alle donne. Qui è chiaro che sono le donne, perché sono quelle intorno al mistero della nascita, le levatrici, coloro che affrontano la difficoltà reale di una nascita reale, non un possibile incubo, ma il problema che c’è e di fronte al quale danno una mano.

Le levatrici e la loro menzogna sembrano essere la grazia originaria. A fronte della disgrazia originaria di una vita resa amara, c’è una grazia originaria: far nascere e far nascere mentendo. Le gesta eroiche – gesta maschili, di potere esercitato – che vedremo compiere da Mosè quando uccide l’egiziano, provocano disastri!

Questo gesto di menzogna mascherato – gesto compiuto rispetto alla vita – non provoca disastri, anzi viene benedetto da Dio!

Bisognerebbe aprire una grande riflessione su come e quanto noi normalmente identifichiamo come buone alcune cose e cattive altre, facendoci troppo velocemente ingannare da una griglia di interpretazione per cui mentire è sbagliato, intercedere per chi sta male è giusto, indipendentemente da tutto.

Qui invece mentire è giusto, intercedere è sbagliato: c’è un rimescolamento dei termini e c’è l’atteggiamento femminile, che ha come criterio la vita che nasce, dovrà essere nutrita, accolta e curata. La grande grazia originaria è la cura della vita.

In questo racconto il criterio di un cattivo uso del potere è la paura, l’immaginazione, mentre il criterio di un buon uso del potere, è la cura di una  vita che nasce, cresce, va nutrita e coltivata.

Queste due linee ci fanno pensare: se tutte le volte che io posso decidere qualcosa che riguarda me e gli altri, mi chiedessi se sto decidendo sulla paura di ciò che potrebbe essere, o se sto facendo la levatrice ad un pezzo di vita, sarebbe una buona domanda e mi darebbe un criterio concreto con cui muovermi.

Nascita di Mosè

“Allora il faraone diede quest’ordine a tutto il suo popolo: ‘Ogni figlio maschio che nascerà agli Ebrei, lo getterete nel Nilo, ma lascerete vivere ogni figlia’”.

Prima dà alle levatrici l’ordine di uccidere, ma non funziona, allora dà l’ordine a tutto il popolo. 

La vicenda della violenza non si può fermare. Le donne ci provano. Accudiscono il pezzo di vita che le riguarda là dove sono. Non riescono a fermare la disgrazia originaria, ma cominciano a mettere in moto il meccanismo di una grazia originaria.

la donna concepì e partorì un figlio; vide che era bello e lo tenne nascosto per tre mesi”.

Come se ci fosse una madre che può vedere “non bello” il proprio figlio!! Come se fosse questo un buon motivo per tenerlo nascosto!

Questo racconto sembra scontatissimo, ma se lo leggiamo con un po’ di attenzione, scopriamo come tutti i motivi e i ragionamenti spostino il quadro, non siano mai quelli istintivi. La madre non dice che era suo figlio e voleva salvarlo, il motivo pare essere solo che era bello; se fosse stato brutto, pazienza, si poteva buttarlo!

E’ come se noi volessimo e potessimo inventarci i modi di soluzione solo per ciò che riusciamo a vedere bello!  Metà delle volte diciamo che non possiamo fare niente, perché in fondo non vediamo abbastanza bello ciò che è importante da salvare per noi.

Questo lo sappiamo molto bene: quando qualcosa per noi è assolutamente fondamentale, ci inventiamo delle energie, dei metodi che non avremmo mai immaginato di poter mettere in movimento.

E’ molto sapiente questa situazione: vede che è bello, dunque si inventa un modo per salvarlo.

Il nostro atteggiamento rispetto a tante situazioni in cui diciamo: ‘mi piacerebbe, ma non posso’; ‘ci terrei proprio, ma…’ usa la stessa logica. Quando diciamo: ‘ci terrei proprio…’ c’è sempre un ‘virgola però’ che in realtà vuol dire: no, non ci tengo abbastanza …

Anche qui c’è un gioco di occhi: il potere forse dipende molto da quanto vediamo bello ciò di cui vogliamo occuparci.

E’ sempre parente degli incubi e dei sogni: non si può veder una cosa bella, sognarla grande e cresciuta e non fare niente perché così possa accadere.

“…Depose il bambino fra i giunchi sulla riva del Nilo. La sorella del bambino si pose ad osservare da lontano che cosa gli sarebbe accaduto”.

Nel rapporto delle donne con il bambino c’è un gioco di osservazioni, di controllo con lo sguardo: la madre vede che è bello, la sorella guarda da lontano… Le donne hanno un gioco di controllo con lo sguardo, con una distanza.

Nel primo capitolo c’è il faraone, un maschio, che vuole controllare il numero degli ebrei: mette i sovrintendenti, dà lavoro, ordina alle levatrici di uccidere… è un gioco di controllo con la violenza.

Distanze e vicinanze: equilibrio precario

Quali sono le cose concrete della nostra vita che noi controlliamo come il faraone? Quante energie sprechiamo nel tentare di controllare come il faraone per poi ottenere gli effetti contrari?  Quanto siamo capaci di controllare con lo sguardo?

Penso che questo si veda molto bene rispetto ai figli: sappiamo che ci vuole molto tempo per passare dal controllo potente che si ha quando i figli sono piccoli, al controllo con lo sguardo quando sono cresciuti. In genere questa distanza non soddisfa molto il genitore, non ne è contento, ma, siccome l’alternativa è tagliare i ponti, è meglio accontentarsi!

Questo passaggio è sempre molto doloroso e mediamente lo si accetta, ma ci vogliono poi molti anni per arrivare ad esserne anche contenti, prima si accetta il meno peggio: piuttosto di non saperne più niente, meglio stare qualche passo indietro e almeno qualcosa si sa.

Non è solo un problema rispetto ai figli, riguarda tre quarti della nostra esistenza.

C’è il controllo che il faraone vuole esercitare e il controllo femminile della madre, che vede che è bello, e della sorella che guarda da lontano.

Le componenti sono due: bisogna vedere che è bello e accettare di guardare da lontano. Sembrano due cose in contraddizione, perché se una cosa è bella non la voglio guardare da lontano, la voglio avere vicino. Se una cosa la posso pacificamente guardare da lontano, vuol dire che in fondo non la vedo tanto bella: bisogna mettere insieme due cose impossibili.

L’esempio dei figli è plateale, ma nella nostra vita funzionano così tutte le relazioni con l’altro: vicinanza e distanza da misurare con coloro che amiamo, con gli amici, con i genitori. Passiamo la vita a misurare le vicinanze e le distanze, a correggere eventuali sbilanciamenti, poi, ogni volta che troviamo un equilibrio, succede qualcosa, tipo i genitori invecchiano, e si deve rimisurare tutto. L’equilibrio di vicinanza e distanza che andava bene fino ad ora, improvvisamente non va più bene e si ricomincia a misurare distanze e vicinanze per ristabilire altri equilibri.

Questo gioco di distanza e vicinanza, di vedere una cosa bella e di saperla guardare da lontano, “dai giunchi del Nilo” mentre vive la sua vita, questo tipo di equilibrio è il primo grande nucleo interiore del fare i conti con se stessi rispetto al tema del potere.

In fondo ciascuno di noi resta, nel più profondo di sé, un pupo piccolo che ha un grande sogno originario: perché le distanze? Solo vicinanze e cioè, attaccato a  quelli che amo, tutti i cattivi via!

In fondo abbiamo il sogno che il grande dono, la grande positività sarebbe poter essere tutti vicini. Se siamo anche cristiani possiamo imparare a stare vicino anche a quelli che in realtà non amiamo tanto, che infastidiscono un po’.

Ma qui dalla scrittura viene posto un altro problema: l’equilibrio tra vicinanza e distanza. La cura di una vita al femminile che sa guardare da lontano. Credo che ognuno di noi possa trovare molti esempi nella sua esistenza.

Il brutto di questa faccenda è che, siccome noi cresciamo e gli altri crescono, passa il tempo, invecchiamo, i giorni e gli anni passano, distanza e vicinanza non possono essere misurate una volta per tutte. Ogni volta che uno si è spostato un po’, ha cambiato tutto l’equilibrio di questi elastici di distanze e vicinanze, che in genere ci ha messo molto a strutturare.

“La sorella del bambino si pose ad osservare da lontano che cosa gli sarebbe accaduto. Ora la figlia del faraone scese al Nilo per fare il bagno… vide il cestello fra i giunchi, mandò la sua schiava a prenderlo. L’aprì e vide il bambino che piangeva. Ne ebbe compassione e disse: ‘E’ un bambino degli Ebrei”.

Le donne, la parte femminile, custodiscono la vita, mentono, hanno questo equilibrio di vedere bello e guardare da lontano, e sono anche sveglie.

Nel racconto la contrapposizione è molto netta: la figlia del faraone mette insieme gli elementi di realtà, apre, guarda, vede un bimbo e dice: “E’ un figlio degli Ebrei”.

Il faraone dice ”potrebbe accadere che.. se ci fosse una guerra…!

E’ tutto un altro ritmo rispetto alla vita, un’altra cosa.

La sorella del bambino guarda da lontano, si offre di andare a cercare una nutrice, l’elastico molla la lontananza, e la figlia del faraone, invece di pensare a un possibile raggiro, le offre un salario!

Il risultato del ‘forse…, potrebbe…, se c’è una guerra…’ è che più opprimevano gli Ebrei, più aumentavano. Il risultato della distanza è: il bambino viene lasciato dalla madre, le viene riportato, fa esattamente quello che voleva fare, cioè nutrirlo e crescerlo, e prende pure un salario.

E’ un po’ paradossale, ma questa è la logica del racconto.

“La donna prese il bambino, lo allattò. Quando il bambino fu cresciuto, lo condusse alla figlia del faraone”… la madre è capace di un’altra distanza, sa stare in questo gioco di vicinanze e di distanze.

“Egli divenne un figlio per lei ed ella lo chiamò Mosè dicendo: ‘Io  l’ho salvato dalle acque!’”.

La figlia del faraone parla ebraico: un nome egiziano, che ha un suono simile ad una parola ebraica, lo spiega in modo ebraico. E’ un tipico giochetto letterario di questi testi.

La menzogna

Abbiamo visto vari elementi sulle donne, sulla femminilità rispetto alla grazia o disgrazia originaria.

Ci sono molte questioni che ci fanno riflettere sulla menzogna e sull’ambiguità. 

Innanzitutto non è chiaro se questo punto, questa strettoia da cui ha origine tutto, sia una strettoia benedetta o maledetta.

Non è chiaro se è una grazia o una disgrazia. Per noi, molte migliaia di anni dopo, è facile pensare che le cose sono andate bene, ma nel frattempo per il popolo ebraico non era così semplice: avevano una vita amara.

All’origine dei nostri movimenti di rapporto con la realtà, con noi stessi e con Dio, ci sono sempre dei luoghi ambigui che sono grazia e disgrazia insieme. 

Bisognerebbe imparare il gioco dell’elastico, delle distanze e vicinanze, che è il gioco dell’oscillare tra grazia e disgrazia, tra riconoscere la realtà della situazione, che può essere estremamente faticosa, e provare a guardare lontano, se questa cosa diventerà una grazia, una benedizione.

Forse il tempo della storia, come ci diranno i Vangeli, (parabola della rete in cui ci sono pesci buoni e cattivi, il grano e la zizzania…) è proprio così: è un tempo di ambiguità, di misura, non un tempo di bianchi e di neri, di giusto e di sbagliato, ma un tempo de’… ‘il più giusto possibile, il meno sbagliato possibile’.  E’ un tempo in cui il peso di una disgrazia può diventare la maggior grazia possibile…

Dall’altra parte c’è l’altro aspetto del tema dell’ambiguità: la somma di menzogne, di recita teatrale. Il racconto dà l’impressione di essere una storiella, ma una storiella in cui tutti i personaggi giocano a recitare, come se ognuno facesse una parte sapendo che è una parte.

Questo brano ci aiuta ragionare su come funzioniamo. Ognuno di noi sa che non può prendersi troppo di petto. Ci sono alcune cose che, prese di fronte, diventano insormontabili e bisogna aggirare un po’ se stessi, inventarsi dei trucchi…. per raccontare delle bugie a se stesso, che consentono di andare avanti.

C’è un testo di Italo Calvino, che riporta il racconto mitologico della lotta di Perseo con la medusa, mostro rappresentato con i capelli di serpente, che impietriva con lo sguardo e dunque nessun grande guerriero riusciva ad ucciderla, perché guardandola per colpirla diventavano statue.

Perseo attua un trucco: lucida lo  scudo e, avanzando di spalle, guarda l’immagine riflessa nello scudo e colpisce la Medusa senza guardarla.

Mi sembra che, per ragionare sulla nostra storia, sul nostro poter fare, poter dire, poter essere, dovremmo cominciare da qui, dal riapprezzare l’arte di guardare un’immagine riflessa, del non prendere di punta per non rischiare di rimanere impietriti, paralizzati, nell’impossibilità di fare, dire o pensare qualsiasi cosa perché troppo grande o troppo piccola.

Qui c’è la grande arte del guardare in uno specchio, del girare intorno al problema e riuscire ad avere un potere perché imparando una distanza, guardando l’immagine riflessa, una disgrazia diventa una grazia, una lontananza diventa una vicinanza, un risultato positivo…

Questa è un’arte, non si improvvisa. Nessuno di noi ha nell’anima questa capacità istintiva, perché istintivamente, vedendo una cosa, la si affronta direttamente.

Quest’arte ha molti rischi, bisogna imparare la misura, perché può diventare ipocrisia, menzogna fine a se stessa …uno può raccontarsi delle bugie, ma se esagera, raccontandosi troppe bugie sulla sua esistenza,  questo diventa un problema.

Bisogna imparare la misura, l’ambiguità: …fino a che punto … e da che punto non più …!

Questo è il quadro. La prossima volta continueremo con la storia di Mosè, proveremo a mettere i presupposti antropologici, cioè la descrizione che la scrittura ci fa di come siamo fatti noi. 

I brani del Vangelo, di Ebrei e di Apocalisse ci porteranno ad avere uno sguardo ulteriore su questi problemi.

Fossano, 17 novembre 2003

(Testo non rivisto dal relatore)

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