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13 Dicembre 2003
Stella Morra

2. Uscire dal castello incantato

Commento a: Es 2, 11-22


Premessa

Abbiamo iniziato quest’anno il percorso sul tema del potere, con la storia di Mosè, che seguiremo ancora per questo ed il prossimo incontro.

Sarebbe interessante leggere sulla Bibbia tutta la storia di Mosè, come un romanzo, la biografia di un personaggio: è una storia affascinante, con tanti particolari che ci riguardano molto da vicino.

Abbiamo visto la volta scorsa la nascita di Mosè, sottolineando alcuni temi:

  • grazia, o disgrazia?
  • la schiavitù, la salvezza dalle acque come una grazia previa, ma anche la disgrazia che questo fatto costruisce, la fatica che questa realtà mette in scena;
  • la questione delle donne e del loro ruolo rispetto alla situazione di difficoltà;
  • infine il tema della menzogna, dell’ambiguità e del fatto che le cose sono sempre diverse da quelle che sembrano.

All’inizio di questa storia tutti mentono.

Noi avremmo la pretesa che le cose nel tempo in cui viviamo fossero già come sono nella mente di Dio: chiare, aperte e che ad ogni cosa corrispondesse una parola che esattamente la dice.

Questo è ciò che viene detto di Dio, quando si dice che è Onnipotente: Dio disse: sia la luce, e la luce fu!

Noi pensiamo a ciò come ad una specie di cartone animato in cui c’è una magia, ma è un po’ più serio: l’onnipotenza di Dio sta nel fatto che le cose esistenti, la realtà tutta, per Dio ha un nome, uno solo, che corrisponde a questa realtà. Se Lui dice: sia la luce, quello che accade è la luce, non un’altra cosa.

La nostra non onnipotenza (= essere creature), invece, sta nel fatto che, per noi, le cose non sono mai solo il nome che hanno: ci sono tanti nomi per dire la stessa cosa, tanti nomi che sembrano non indicare quella cosa ed invece la indicano…

Questo è un primo tema molto forte legato al potere, non dipende dalla nostra decisione.

Noi non possiamo essere creatori come Dio, non possiamo dire: questo problema sia risolto ed il problema si risolve! Oppure: Questa persona sia felice e la persona sarà felice!

Non ci riesce, non funziona così, per quanto ci applichiamo!

Non è solo segno che siamo un po’ poco dotati come maghi, ma è segno di qualcosa che quotidianamente accade, a cui non facciamo molto caso: la nostra fatica a mettere insieme le parole e la realtà come trasparenti, limpidi!

Le nostre parole sono sempre un po’ menzognere, non solo quando diciamo bugie, ma anche quando diciamo: ti amerò per sempre! Non è in nostro potere quello che accadrà dopo, non possediamo tutto il tempo. Non siamo in grado di dire: ti amerò per sempre! Facciamo se mai una promessa, esprimiamo un desiderio, non prendiamo un impegno.

Quello che realmente stiamo dicendo è: mi piacerebbe ‘potere’ amarti per sempre! E’ già molto, ma non affermiamo una realtà, non prendiamo un impegno, perché non è in nostro potere prenderlo.

La prima riflessione ci ha portati a ragionare su questa prima dimensione del potere: il rapporto incompleto, incompiuto, tradito tra le parole e la realtà per come noi la sperimentiamo.

La menzogna non è solo un dato morale, ma quello che tecnicamente si chiama un dato ontologico: non abbiamo la possibilità di dire con una parola chiara e definitiva la realtà per come è. E dunque non possiamo abitarla con delle parole chiare, trasparenti, che funzionino.

Si aprirebbero tante riflessioni, ma una la vorrei sottolineare perché oggi è il tredici dicembre, siamo ormai vicini al Natale…

Quando diciamo che in Gesù Cristo la Parola di Dio si è fatta carne, diciamo che Dio, quando dice sé, diventa persona. C’è un’assoluta trasparenza e coincidenza tra Dio come è e Gesù che nasce nella carne.

Ciò che noi incontriamo in Gesù che viene è esattamente Dio, non un’altra cosa, è esattamente Lui, il suo desiderio di incontrarci, di amarci e di salvarci! Gesù è la Parola di Dio.

Potremmo augurarci per il Natale che le nostre parole trovino l’umiltà, ma anche il desiderio di essere come la Parola di Dio: trasparenti, pur nell’umiltà di sapere che non è così.

Le decisioni

Oggi vediamo pochi versetti del capitolo 2, in cui continua la storia di Mosè.

L’episodio è abbastanza conosciuto, specialmente il fatto di Mosè che uccide l’egiziano.

Il testo parla di una questione che per noi è molto significativa: la decisione.

Per molti motivi abbiamo un po’ l’ossessione culturale delle scelte. Abbiamo la sensazione che dobbiamo scegliere: l’importante è scegliere; ho scelto questo o quello, devo fare la scelta giusta, scegliere secondo criteri, valori, giudizi…

In tutti noi c’è un momento dell’esistenza, che spesso coincide con una sorta di mezza età variamente intesa, in cui cominciamo ad essere vagamente depressi perché abbiamo la sensazione che non possiamo, non siamo più in grado di fare le scelte, non ci sono più possibili tutte le scelte.

Più o meno corrisponde a quella fase della vita in cui si dice: beh, sai com’è la vita…!

E vorrebbe dire: ho un tale bagaglio di cose già scelte, che anche se non ne sono più tanto convinto, se mi piacerebbe fare questo o quell’altro, … la vita crea delle difficoltà, delle responsabilità…

C’è un punto nell’esistenza in cui si dice: ah, se potessi, come sarebbe bello se…

Ma non è vero! Perché se uno vuole fare veramente delle cose, in genere le fa, prima o poi…

Se non le fa, vuol dire che in realtà non le vuole fare davvero, non ha un desiderio così pressante! Oppure, molto più semplicemente, ha paura! Cosa umanissima!

Questo dello scegliere, del decidere mi pare un tema inquietante, sul quale noi, da un lato investiamo tantissimo, abbiamo sempre l’idea di aver scelto, aver deciso, ma d’altro lato investiamo pochissimo, come se le cose belle che facciamo le avessimo scelte…, mentre quelle frustranti, beh, è la vita…

Uscire dal castello incantato

Nel racconto il castello incantato è la casa della figlia del faraone dove Mosè viveva.

Quando esce vede la sofferenza dei suoi fratelli.

Per noi uscire dal castello incantato è anche uscire dalla proiezione adolescenziale, da questa idea per cui siamo un po’ onnipotenti e le nostre parole sono in grado di nominare, capire la storia, dirla e farla con decisione. Come se bastasse mettersi a tavolino, valutare, scegliere…

Uno dei motivi culturali per cui noi siamo molto legati a questa impostazione è che nella nostra esistenza tutto ormai funziona secondo la logica con cui funzionano le merci: io valuto, decido e faccio. Ma ciò vale solo rispetto alle merci: quando devo comprare valuto i pro e i contro, i prezzi, la disponibilità di denaro, poi decido e compro. E’ il meccanismo mercantile, ma è un aspetto della nostra esistenza, vale solo per il nostro rapporto con le cose.

Nella cultura in cui viviamo oggi abbiamo applicato questo metro ad ogni dimensione della nostra esistenza, gli affetti, i desideri, il potere e pensiamo che funzioni tutto con questa regola: valuto, decido e quindi scelgo.

Non è né giusto né sbagliato, semplicemente non è così!

Ad esempio negli amori, con i figli, non funziona così!

Bisogna dunque uscire dal castello incantato dove tutto funziona come con le cose, gli oggetti, le merci, dove la scelta, la decisione è totalmente nelle mie mani e il risultato è garantito.

Non è detto che sia un risultato buono, semplicemente mi dà ciò che io ho deciso, poi magari ho deciso male e sarà una delusione, ma intanto l’ho deciso io.

Nella vita molto spesso io decido una cosa e ciò che mi ritrovo come risultato è un’altra cosa. Magari funziona anche meglio di ciò che avevo deciso io, – gli amori, gli affetti, le amicizie spesso sono migliori di come siamo in grado di immaginarli, ma spesso sono un’altra cosa rispetto a ciò che avevamo deciso. Poi, forse, dopo un po’ non torneremmo più indietro, però… è proprio un’altra logica!

Il meccanismo della decisione è un meccanismo complesso perché si esercita sull’ambiguità, sulla menzogna della storia, sul fatto che le cose, le persone, le relazioni, in profondità, non sono mai ciò che sembrano in prima battuta e questo racconto, in modo molto semplice, lo mostra benissimo.

Mosè non ne imbrocca una: fa tre cose e ognuna non è quella che sembrava, non funziona come lui l’aveva pensata.

La crescita

“In quei giorni, Mosè, cresciuto in età”

Ci viene specificato che era diventato grande. Letterariamente è solo per sottolineare che sono passati un certo numero di anni. 

Il sentimento di onnipotenza, per cui noi staremmo meglio quando di ogni cosa possiamo scegliere e decidere, porta con sé un privilegio incredibile dell’età giovanile.

Le pubblicità, oggi, funzionano perché dicono che alcune cose fanno sembrare o restare giovani. Peggio di tutto è sembrare giovani: una cosa che ti fa sembrare giovane, apertamente ti dice che sei vecchio, è la perversione del ragionamento!

Ogni volta che sento una pubblicità di questo genere mi chiedo: chi ha detto che è un buon affare? Perché un volto senza rughe è meglio di un volto con le rughe? Chi l’ha detto? Qual è il criterio?

Il mito del restare giovani è profondamente legato al mito di tutte le possibilità, cioè del tempo in cui uno sarebbe libero di decidere, fare, smontare. Sappiamo però che ognuno di noi, dai trent’anni in poi, ha accuratamente rimosso quanto è stato infelice a venti: il sentimento di insicurezza, la paura di non riuscire a capire che cosa volevamo…

E ci ricordiamo che non avevamo legami, responsabilità, potevamo andare e venire liberamente… C’è questo mito dell’età giovanile, legato al mito della scelta e della decisione.

Bisognerebbe cominciare a ragionarci un po’ su, non perché l’età giovanile non sia una bella età, ma perché ogni tempo ha la sua potenzialità e la sua capacità di essere non depresso, di sentirsi in grado di fare la propria esistenza, anche se non ha più un delirio di onnipotenza! 

La vicenda delle delusioni di Mosè comincia dicendo che è cresciuto in età!

I fratelli

“… si recò dai suoi fratelli e notò i lavori pesanti da cui erano oppressi.”

E’ come se li vedesse per la prima volta, come se improvvisamente si rendesse conto che c’è qualcosa che non va.

In questo brano si usa moltissimo la parola fratelli. Già l’anno scorso abbiamo ragionato un po’ sulla relazione dei fratelli nella Bibbia.

Noi abbiamo l’idea che essere fratelli corrisponda ad una situazione dolce, bella; in realtà, poi, ognuno di noi ha la sua esperienza di avere fratelli e sorelle; sono esperienze intense, con legami forti, non necessariamente semplici, anzi di solito abbastanza complessi.

Di solito i rapporti sono semplici e lisci solo con le persone che ti stanno abbastanza distanti: non ti pesti mai i piedi!

Più il legame è forte, più i rapporti sono complicati, si tende ad occupare lo stesso spazio: da una parte c’è un legame profondo, una solidarietà, ma dall’altra c’è una capacità di farsi male reciproco che raramente si raggiunge con altre persone.

Il tema della fraternità nell’Antico Testamento dà l’immagine dell’inevitabilità: essere fratelli è un legame che non scegli!

Puoi anche non parlarti più, non vederti più, scegliere di ignorarti, ma non è cancellabile! Puoi non vivere da fratello con un altro, ma ciò non toglie che rimani suo fratello! E’ una situazione che non dipende da te, tu puoi solo non percorrerla… I fratelli ti sono dati in dote ‘con il tuo patrimonio genetico’ e sono rapporti non cancellabili.

La Bibbia ci parla spesso di rapporti tra fratelli molto conflittuali e in genere sceglie sempre il più piccolo dei due. Il primogenito a cui spetterebbe tutto, di solito viene ucciso o castigato, fa la parte del cattivo, mentre il secondogenito, a cui non spetterebbe niente, in realtà è quello buono che ‘viene fuori’.

Gesù ha detto di noi, dei suoi discepoli, che siamo fratelli, non ha detto che siamo amici!

Dunque litighiamo molto, abbiamo ire ed invidie discrete, ma siamo fratelli, stiamo vicini, siamo inevitabili gli uni per gli altri, con tutte le fatiche, le gioie, la solidarietà, la compagnia che questa relazione comporta…

Mosè “…si recò dai suoi fratelli, vide un Egiziano che colpiva un ebreo, uno dei suoi fratelli, … perché percuoti tuo fratello…. “.

Ritorna molto spesso questa parola: c’è l’inevitabilità, l’incomprensione, che è un dato tipico tra fratelli!

La scrittura testimonia che tra fratelli ci si può anche voler bene, ma capirsi è una grazia assolutamente speciale, è rarissimo. Ed i fratelli generalmente sono l’esperienza che ci si può amare senza capirsi.

L’esperienza della fraternità è decisiva da questo punto di vista: disgiunge capirsi, avere un’affinità elettiva ed amarsi.

Gli amici li amiamo perché ci scegliamo a vicenda, c’è un’affinità elettiva, ci capiscono e li capiamo, stiamo bene insieme.

I fratelli ce li troviamo, abbiamo un legame inevitabile, spesso è un legame di grandissimo affetto, ma molto spesso è un legame di assoluta incomprensione.

I fratelli sono la misura della distanza e della vicinanza. Un fratello troppo vicino mi ruba spazio, un fratello troppo lontano… che fratello è?

Dunque passiamo la vita a misurare vicinanze e distanze con i fratelli.

Intorno al nucleo della fraternità facciamo almeno queste tre grandi esperienze: l’inevitabilità, l’incomprensione possibile e il tema della vicinanza e della distanza.

Fuori dal castello incantato

Mosè esce dal suo castello: per prima cosa si rende conto che è invecchiato, poi scopre di avere dei fratelli, cioè rapporti inevitabili, legami di affetti incomprensibili e su cui serve trovare una vicinanza e una distanza accettabili.

Di fronte a questa situazione Mosè prende una decisione.

“Vide un Egiziano che colpiva un Ebreo, uno dei suoi fratelli, voltatosi attorno e visto che non c’èra nessuno, colpì a morte l’Egiziano e lo seppellì nella sabbia”.

Decisione generosa, scelta giusta, con un campanello d’allarme che il testo ci mette: Mosè lo fa perché ‘vide che intorno non c’era nessuno’.

Per tradurlo in linguaggio moderno, si potrebbe dire… ‘l’ho scelto io, non devo rendere conto a te, in fondo è una scelta personale’. Cioè: io decido, vorrei che la mia parola corrispondesse alla realtà, dunque vorrei essere Dio, e, nel privato di me, scelgo e mi sento anche un po’ eroe!

Primo passo, Mosè esce dal castello incantato, scopre di essere invecchiato, scopre di avere dei fratelli: una cosa su di sé ed una dell’esterno in quanto a sé e decide di uccidere l’Egiziano, perché cerca di fare la cosa giusta, lo fa come una scelta privata.

“Il giorno dopo, uscì di nuovo e, vedendo due Ebrei che stavano rissando, disse a quello che aveva torto: ‘Perché percuoti il tuo fratello?’ Quegli rispose: ‘Chi ti ha costituito capo e giudice su di noi? Pensi forse di uccidermi, come hai ucciso l’Egiziano?”

Reazione: non il riconoscimento della scelta eroica, giusta – “Bravo, hai rischiato per noi”.

Non ciò che ognuno si aspetterebbe di fronte ad una propria scelta: riconoscete la perfezione del mio gesto. La reazione invece è: ’Ma chi ti credi di essere?’”Chi ti ha costituito giudice su di noi?”.

La delusione è doppia: uno sceglie, si sente eroe, fa una cosa per cui rischia di dover anche pagare un prezzo, lo fa gratis … e il suo gesto non solo non produce la realtà che lui si aspettava, ma i suoi fratelli non si concentrano sull’intenzione, bensì sulla distanza o vicinanza che questa scelta ha creato rispetto a loro, cioè pensano a sé, non a lui!

Questa è la matrice delle delusioni che scendono da tutte le nostre decisioni buone.

Noi scegliamo, ci pare che ci sacrifichiamo in un’azione anche rischiosa. Ma che poi, di fronte a questa decisione, non venga messa in evidenza la buona intenzione, anzi sia evidente che tutti gli altri hanno come problema se stessi e non chi ha agito, questo ci fa veramente incavolare!!

Questo è un nucleo decisivo, profondamente liberante: se ogni volta che decidiamo ci rendessimo conto che, in ciò che succede, tutti gli altri hanno come problema se stessi e non me, credo che avremmo molta meno ansia nel decidere!

A volte io penso che una cosa andrà bene o male in base al mio comportamento. Ma se riuscissi a pensare che la cosa andrà bene o male quanto a sé, e che io posso scegliere in un modo o in un altro (ed è una scelta quanto a me), forse potrei scegliere con maggior calma!

Perché non è detto che gli altri, di fronte a quella cosa, decidano secondo la mia intenzione; decideranno e valuteranno secondo se stessi; e, poiché io non sono Dio, non sono in grado di sapere come gli altri valuteranno rispetto a se stessi! Se noi imparassimo a scegliere e a decidere su di noi e non sugli altri, sarebbe già una buona idea.

La paura

“Allora Mosè ebbe paura e pensò: ‘Certamente la cosa si è risaputa’.

La cosa buffa o forse un po’ triste è che se mettiamo in moto questo meccanismo di decisione onnipotente, in genere l’unico risultato che raccogliamo è la nostra paura, la nostra ansia. Paradossalmente c’è tutto questo caos, ma nella condizione di schiavitù degli egiziani non cambierà niente fino al passaggio dell’Esodo. E sarà tutta un’altra storia, in cui Mosè avrà un ruolo, ma del tutto diverso da quello che aveva deciso!

Sarà tutta un’altra cosa, ma il risultato in questa logica onnipotente di decisione è che Mosè ebbe paura.

Potremmo forse capire la salvezza, oggi, con le nostre parole, come la buona notizia che ci viene da parte di Dio che noi non siamo ‘tutti lì’!

Per quanto io oggi sappia di me, per quanto faccia o disfaccia, pensi e ripensi, c’è una buona notizia da parte di Dio: tutte queste cose che sono la nostra vita, le opere, i giorni, le persone che incontriamo, non sono il tutto di noi… noi non siamo tutti lì!

Ci sarà un passaggio dell’Esodo che verrà da altrove. E, come si augurano gli ebrei per la Pasqua, anche quest’anno passeremo all’asciutto, come una storia che nasce da un luogo che non mi appartiene!

Questa è davvero una buona notizia!

Se riuscissimo a pensare che questa è la buona notizia dell’evangelo, staremmo più tranquilli, se non altro avremmo meno paura! Perché possiamo divertirci a stare nelle cose che ci appartengono, pensando: ma intanto io non sono tutto qui!

Ci sarà un passaggio all’asciutto che verrà da un’altra parte. E’ come giocare con una riserva, in termine tecnico si dice ‘riserva escatologica’, che non è in mano mia, ma che al momento giusto verrà calata perché ‘io possa essere più di ciò che so, che decido, che vivo oggi di me’!

Fino a questo punto della sua vita, l’unica cosa che Mosè raccoglie è la paura!

“Poi il faraone sentì parlare di questo fatto e cercò di mettere a morte Mosè.”

Questi cinque libri del Pentateuco nascono dalla fusione di libri diversi, vari pezzi che nascono da tribù diverse, con formulazioni diverse e che progressivamente vengono messi insieme. Il risultato è che, almeno in alcuni passaggi, questi libri hanno giunture non proprio logiche: spesso si trova prima ciò che dovrebbe star dopo!

Mosè dice: “certamente la cosa si è risaputa” e la riga dopo si dice: “Poi il faraone sentì parlare di questo fatto…”. Di per sé dovrebbe essere il contrario.

Queste inversioni sono anche interessanti perché stanno dentro la Parola di Dio e ci offrono un’occasione per pensare.

Io penso, per esempio, che questo è il meccanismo tipico della paura: anticipa la realtà!

Ci si preoccupa prima di ciò che non è ancora accaduto. Ogni tanto è vero che poi accadrà ciò di cui ci si è preoccupati, ma altre volte non accadrà per niente, per cui sprechiamo una buona preoccupazione per nulla: uno si angoscia ben bene e poi succede tutta un’altra cosa!

La passività

“Allora Mosè si allontanò dal faraone e si stabilì nel paese di Madian e sedette presso il pozzo”.

Mosè prima ha scelto, ha fatto un ‘casino’, poi sembra che l’unica cosa che fa sia sedersi presso un pozzo, sta lì, è l’immagine della passività. La scrittura ci sta dicendo che ora Mosè non ha scelto, non ha deciso, è costretto da ciò che è accaduto, non ha niente di proprio da fare, non ha una parola potente da pronunciare, un gesto che secondo lui cambierebbe la realtà.

Guarda caso, seduto a quel pozzo, succede un’altra vita, nasce un’altra cosa, c’è quella salvezza per cui lui non era tutto lì: viene fuori quel pezzo che lui non era e dunque lui non poteva decidere.

“Ora il sacerdote di Madian aveva sette figlie. Esse vennero ad attingere acqua per riempire gli abbeveratoi e far bere il gregge del padre. Ma arrivarono alcuni pastori e le scacciarono. Allora Mosè si levò a difenderle e fece bere il loro bestiame.”

Con questo gesto in difesa delle ragazze, arriva un matrimonio, che nell’Antico Testamento, con la nascita di figli, è sempre segno della benedizione divina. Dio lo benedisse, gli diede fecondità, vita.

Mosè sposa Zippora, “Ella gli partorì un figlio ed egli lo chiamò Gherson, perché diceva: ‘Sono un emigrato in terra straniera’”.

Il finale è amaro, il nome che Mosè dà al figlio è il massimo del non riconoscimento. Chiama suo figlio straniero.

Le figlie di Reuel l’avevano chiamato un egiziano. Ricomincia il gioco della menzogna, del non riconoscimento. Tutte le volte che c’è una vita, le parole e le cose non hanno più una sintonia. Mosè vive la sua estraneità al punto di chiamare straniero suo figlio, la carne della propria carne.

La storia era cominciata con la prima uscita di Mosè, quella dalla casa del Faraone.

Poi  Mosè esce dalla terra d’Egitto e va nella terra di Madian.  Infine, nell’Esodo, Mosè esce dal paese d’Egitto con tutto il popolo.

Le tre uscite rappresentano altrettante modalità in cui, secondo la scrittura, possono accadere le cose. O decido io, o decide per me la sorte, o è il braccio potente di Dio che guida. Noi usiamo spesso questa espressione: lasciarsi guidare da Dio, ma il problema è: che cosa vuol dire?

L’inizio è: scelgo io! E sopporto già a fatica che poi ci sia la vita, la realtà, la storia (= il faraone che cerca di uccidere Mosè), che alcune cose siano più grandi di me e io non riesca a cambiarle neppure con tutto il delirio di onnipotenza possibile.

Delle tre categorie: la prima ci è chiara, la seconda la sopportiamo a fatica e culturalmente cerchiamo di ridurla al massimo per cui non accettiamo più niente delle dinamiche ordinarie della vita, dalla malattia all’invecchiamento. Al massimo arriviamo a dire: bisogna scegliere di vivere la malattia bene.

Infine c’è Dio che dirige la storia, ed è ancora più difficile per noi non soltanto rinunciare alla nostra onnipotenza, ma affidarci ad un altro che – lui sì – è Onnipotente. Queste tre cose sono molto diverse tra di loro, nella loro sostanza. E sono tre cose che fanno la differenza.

La domanda “come faccio a lasciar condurre la storia da Dio?”, è molto seria e implica dei modi di stare al mondo; ma dobbiamo stare attenti a non far entrare tutto nella prima categoria: scelgo io!

Vicino al pozzo Mosè continua ad avere la mania di fare il grande difensore, ma non difende più dei fratelli. Difende delle sconosciute, di cui una diventerà sua sposa.

La differenza di rapporti è abbastanza indicativa: quando scelgo io, scelgo sui rapporti inevitabili ed in genere conflittuali. Quando sceglie la storia comincio ad entrare nella possibilità di rapporti gratuiti. Solo quando lascio condurre la scelta da Dio si spalanca la possibilità di rapporti totalmente gratuiti; se continuo a scegliere io, i rapporti rimangono sempre nell’ordine dell’inevitabile.

Gli ultimi versetti introducono un tema molto grande, quello dell’essere riconosciuti.

Mentre leggevo mi veniva in mente l’episodio dell’apparizione di Gesù risorto a Maria Maddalena.

Maria ha un grande desiderio, non fa una scelta: piange sulla tomba vuota e chiede a tutti: “Dove avete messo il corpo del mio Signore?”. Non decide niente, ha solo un grande desiderio. Poi vede uno che ha l’aria di essere il giardiniere e gli dice: “Se sei tu che l’hai portato via, dimmi dove l’hai messo”, e costui, che è Gesù risorto, si gira e le dice: “Maria!”. La chiama con il suo nome, le restituisce il suo nome.

Qui le figlie di Reuel dicono: un egiziano ci ha liberate e Mosè chiama il proprio figlio straniero. C’è una bella distanza tra queste due immagini!

L’altra storia

Aggiungo infine una breve riflessione sui tre versetti che fanno da passaggio al seguito della storia.

“Nel lungo corso di quegli anni, il re d’Egitto morì. Gli Israeliti gemettero per la loro schiavitù, alzarono grida di lamento e il loro grido dalla schiavitù salì a Dio. Allora Dio ascoltò il loro lamento, si ricordò della sua alleanza con Abramo e Giacobbe. Dio guardò la condizione degli Israeliti e se ne prese pensiero”.

Dopo questi versetti riprende la narrazione della storia di Mosè, che sta ancora nel deserto, seduto al pozzo, a fare niente di particolare, con ha un figlio che chiama straniero…

Ma Dio ha una parola potente, cioè quando dice una cosa quella accade. Dio si prende pensiero della povertà del suo popolo e dunque il brano che segue sarà il roveto ardente: Dio appare a Mosè e gli chiede di fare delle cose. E questa storia condurrà fino all’uscita dall’Egitto, anzi fino al Sinai, le Tavole della Legge, l’Alleanza con Dio, un patto con questo Dio che si è preso pensiero della povertà.

Ma è veramente un’altra storia, che va a raccogliere Mosè in un deserto, lo mette di fronte ad un roveto che brucia e non consuma, gli chiede di parlare quando lui è balbuziente, in una situazione in cui Mosè non può permettersi di fare l’eroe mai.

In gennaio vedremo ancora un pezzetto della storia di Mosè, la sfida ai maghi d’Egitto: sarà la visibilità di questa altra storia che comincia.

Fossano, 13 dicembre 2003

(Testo non rivisto dal relatore)

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