Stella Morra
3. Secondo sigillo: l’universalità, solo una parte?
Prima di affrontare il testo di oggi, riprendo i primi passi compiuti. Il primo, dal testo di Apocalisse: aprire il libro e spezzare i sigilli; dove il potere di aprire il libro serve a rendere liberi gli altri, o meglio, serve al comune, a tutti, alla città che scende dal cielo, secondo la conclusione della storia che Apocalisse ci propone. Il secondo grande criterio – su cui ci siamo soffermati nella riflessione di vent’anni fa sul tema del potere – era il fatto che rende liberi perché prende le mosse dalla vulnerabilità, dalla debolezza, che è figura cristologica. Cristo crocifisso, re dell’universo, è un re crocifisso.
La volta scorsa ci siamo soffermati sul primo sigillo, il primo punto di fatica e di rottura, che ci è stato offerto dalla storia di Uria l’Ittita, in cui emerge un’unica forma possibile del potere. Credo che questo sia un tema molto attuale, concreto: il potere ha bisogno di essere riconosciuto per esistere, non basta che esista di per sé. È un dato relazionale: se non viene riconosciuto, non è effettivo, perché non è costituito soltanto da elementi di realtà materiale, ha una grande valenza simbolica che deve essere in qualche modo riconosciuta, in modo diretto, esplicito oppure indiretto, irrazionale. Una delle grandi questioni è che questo riconoscimento cambia molto lentamente, per cui il potere che viene riconosciuto come tale è normalmente inteso in modo univoco in una determinata cultura, in un determinato tempo storico, a seconda dei luoghi. La forma del potere tipica di questo tempo e del luogo in cui viviamo è la forma che ci giunge da lontano, dalla civiltà mediterranea, europea, occidentale. È un potere che si caratterizza per una struttura di tipo gerarchico.
In questi giorni credo abbiamo sentito tutti usare tanto la parola patriarcale. Il potere patriarcale è la forma più vistosa, più riconoscibile – a volte anche debole, perversa – ma anche l’unica forma del potere gerarchico maschile. E qui per maschile non intendo dei maschi, ma del valore simbolico di ciò che è inteso come maschilità. Abbiamo ragionato un po’ su questa questione, e Davide ci fa vedere bene che cosa comporta gestire il potere secondo quella forma e come quel potere non solo non genera libertà, ma genera morte. Anche nella storia di Davide, il potere viene gestito attraverso una donna, Bersabea, strumentale al suo esercizio del potere.
La lectio di oggi
Oggi, soffermandoci sul secondo sigillo, riflettiamo su un altro aspetto, a cui abbiamo dato il titolo “l’universalità o solo una parte?”. Il potere, per essere riconosciuto, deve necessariamente pensarsi universale, deve necessariamente pensare che prima di sé non c’era nulla, dopo di sé non ci sarà nulla, attorno a sé non c’è nulla. Un tale potere non può mai essere realmente collegiale.
Questa è la questione su cui vorrei concentrare con voi l’attenzione. Ho scelto per questo un testo del capitolo 2 del Vangelo di Matteo. È il testo dei Magi, adatto anche a questo tempo liturgico, ma vi pregherei di uscire dalla lettura presepio di questo testo. Nella liturgia questo testo è proposto per la festa dei Santi Martiri Innocenti, che si celebra nei giorni feriali tra Natale e Capodanno in cui pochi di noi vanno a Messa; quindi, normalmente non lo sentiamo nella liturgia. Ma vorrei proporvi una lettura trasversale. È un racconto molto inquietante, per di più è inserito nel Vangelo di Matteo, il più ebreo degli evangelisti, il più legato alla Legge, e che si rivolgeva a una comunità di cristiani provenienti dall’ebraismo. Infatti, anche in questo testo fa citazioni di quello che noi chiamiamo Antico Testamento, e che per le comunità ebraiche era La Scrittura, semplicemente, non ce n’erano altre. Matteo parla spesso del rapporto tra Gesù e la legge, perché si rivolge a una comunità che ha quella matrice culturale; quindi, utilizza quello che hanno in comune per spiegarsi.
È molto strano che questo racconto – sul riconoscimento di Gesù e del suo potere, simbolicamente molto diverso – sia tutta una faccenda tra stranieri, in modo molto provocatorio per una comunità ebraica. Erode e i sapienti dell’Oriente sono un mondo di stranieri; gli unici non stranieri sono i pastori, poveracci fuori dal gioco del potere. Vengono svegliati nella notte, vanno alla grotta, si sentono dire dall’angelo «Gloria in cielo, pace agli uomini di buona volontà», poi tornano alle loro greggi, chiedendosi cosa sia successo. In realtà, nell’intenzione di Matteo, rappresentano il popolo ebraico, che impiegherà molto tempo a capire. Dovrà vedere il Gesù adulto e i suoi miracoli, sentirne i discorsi, per chiedersi almeno chi sia Gesù: Elia? un profeta? Invece qui, proprio all’inizio, quando ancora non si vede niente, la questione si gioca tra stranieri.
Un buon punto di partenza, perché l’esistenza stessa di uno straniero è la fine di ogni universalità, è uno dei motivi per cui lo straniero, il diverso, l’altro, ci inquieta. È il motivo per cui la politica populista affronta gli stranieri dicendo che portano via il lavoro, non possono essere integrati, sono pericolosi, sono delinquenti, e via dicendo. Perché ogni straniero interrompe l’universalità. Questo è avvenuto drasticamente in Europa dal 1200 in poi, quando sono iniziati i grandi viaggi di scoperta. La grande maggioranza della gente non aveva mai incontrato uno straniero, ma in quel tempo si è cominciato a capire che esistevano altri mondi, a est con Marco Polo, ad ovest con Colombo e gli altri esploratori a seguire. Scoprire l’altro, organizzato in maniera diversa, ha mandato in crisi la rappresentazione del cosmo della società medievale, che era organizzata in modo rigidamente gerarchico. La potenza dello straniero sta nell’interruzione dell’universalità.
Non è un dato teorico, legato alla nostra buona volontà di fare spazio, accogliere: è un dato di realtà, un’esperienza che si fa o non si fa e bisogna creare le condizioni per farla, bisogna che l’auto-percezione di universalità venga di fatto spezzata. Nella Regola di San Benedetto si raccomanda l’attenzione ai novizi che entrano in monastero perché rompe gli equilibri della comunità, rompe le abitudini, non perché sia buono o cattivo, semplicemente perché è un altro. E questa attenzione è fondamentale, perché quell’ingresso interrompe l’auto-percezione di universalità di quella comunità. Siamo soliti pensare che uno che arriva nuovo in una classe, una comunità, vada accolto. La questione, invece, è che si dovrebbe lasciare che spacchi tutto.
Matteo, all’inizio del suo vangelo, narra una storia di stranieri; prima di raccontare ciò che sarà la vita di Gesù spacca il quadro, rompe l’universalità. In premessa, leggiamo alcuni versetti precedenti, per definire il quadro d’insieme.
Il testo: Mt 2, 1-23
2 1Nato Gesù a Betlemme di Giudea, al tempo del re Erode, ecco, alcuni Magi vennero da oriente a Gerusalemme 2e dicevano: “Dov’è colui che è nato, il re dei Giudei? Abbiamo visto spuntare la sua stella e siamo venuti ad adorarlo”. 3All’udire questo, il re Erode restò turbato e con lui tutta Gerusalemme. 4Riuniti tutti i capi dei sacerdoti e gli scribi del popolo, si informava da loro sul luogo in cui doveva nascere il Cristo. 5Gli risposero: “A Betlemme di Giudea, perché così è scritto per mezzo del profeta:
6E tu, Betlemme, terra di Giuda,
non sei davvero l’ultima delle città principali di Giuda:
da te infatti uscirà un capo
che sarà il pastore del mio popolo, Israele”.
7Allora Erode, chiamati segretamente i Magi, si fece dire da loro con esattezza il tempo in cui era apparsa la stella 8e li inviò a Betlemme dicendo: “Andate e informatevi accuratamente sul bambino e, quando l’avrete trovato, fatemelo sapere, perché anch’io venga ad adorarlo”.
9Udito il re, essi partirono. Ed ecco, la stella, che avevano visto spuntare, li precedeva, finché giunse e si fermò sopra il luogo dove si trovava il bambino. 10Al vedere la stella, provarono una gioia grandissima. 11Entrati nella casa, videro il bambino con Maria sua madre, si prostrarono e lo adorarono. Poi aprirono i loro scrigni e gli offrirono in dono oro, incenso e mirra. 12Avvertiti in sogno di non tornare da Erode, per un’altra strada fecero ritorno al loro paese.
13Essi erano appena partiti, quando un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe e gli disse: “Àlzati, prendi con te il bambino e sua madre, fuggi in Egitto e resta là finché non ti avvertirò: Erode infatti vuole cercare il bambino per ucciderlo”.
14Egli si alzò, nella notte, prese il bambino e sua madre e si rifugiò in Egitto, 15dove rimase fino alla morte di Erode, perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta:
Dall’Egitto ho chiamato mio figlio.
16Quando Erode si accorse che i Magi si erano presi gioco di lui, si infuriò e mandò a uccidere tutti i bambini che stavano a Betlemme e in tutto il suo territorio e che avevano da due anni in giù, secondo il tempo che aveva appreso con esattezza dai Magi. 17Allora si compì ciò che era stato detto per mezzo del profeta Geremia:
18Un grido è stato udito in Rama,
un pianto e un lamento grande:
Rachele piange i suoi figli
e non vuole essere consolata,
perché non sono più.
19Morto Erode, ecco, un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe in Egitto 20e gli disse: “Àlzati, prendi con te il bambino e sua madre e va’ nella terra d’Israele; sono morti infatti quelli che cercavano di uccidere il bambino”. 21Egli si alzò, prese il bambino e sua madre ed entrò nella terra d’Israele. 22Ma, quando venne a sapere che nella Giudea regnava Archelao al posto di suo padre Erode, ebbe paura di andarvi. Avvertito poi in sogno, si ritirò nella regione della Galilea 23e andò ad abitare in una città chiamata Nàzaret, perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo dei profeti: “Sarà chiamato Nazareno”.
Commento:
2 1Nato Gesù a Betlemme di Giudea, al tempo del re Erode, ecco, alcuni Magi vennero da oriente a Gerusalemme 2e dicevano: “Dov’è colui che è nato, il re dei Giudei? Abbiamo visto spuntare la sua stella e siamo venuti ad adorarlo”.
Amo moltissimo questo versetto, che è come dire: persone umanamente aperte osservano il cielo con attenzione e vedono spuntare una nuova stella, perciò si mettono in movimento – cioè sono disponibili a cambiare la loro esistenza, a convertirsi, diremmo noi – per buoni motivi, per adorare il Re che è nato. In altre parole, fanno tutto per bene e l’ottimo risultato di tutta la loro fatica è una domanda: «dov’è il Re dei Giudei?»
Dovremmo rassegnarci al fatto che questa è la logica dell’esistenza cristiana: svegli e attenti, mettersi in movimento per buoni motivi e sapere che ciò che si raccoglierà è una domanda. Il versetto seguente ci fa fare un passo avanti:
3All’udire questo, il re Erode restò turbato e con lui tutta Gerusalemme.
Questa è l’altra faccia del potere: si turba di fronte alla domanda e con lui tutta Gerusalemme. Ovviamente questa frase di Matteo non vuole essere realistica, perché non è che il fabbro di Gerusalemme si turba perché sa che i magi hanno fatto ad Erode quella domanda. Ma in una percezione di universalità, è che Erode è il tutto, e tutta Gerusalemme si turba con lui. Noi diremmo «tutta la Gerusalemme che conta», perché ormai siamo abituati a distinguere quelli che contano e quelli che non contano.
Questo è il punto di partenza: agire il potere secondo le nostre logiche, quando lo facciamo in buona coscienza, come i magi, produce una domanda. Se abbiamo una pretesa di universalità produce turbamento. Nessuno dei due casi produce un risultato.
4Riuniti tutti i capi dei sacerdoti e gli scribi del popolo, si informava da loro sul luogo in cui doveva nascere il Cristo. 5Gli risposero: “A Betlemme di Giudea, perché così è scritto per mezzo del profeta:
Erode fa quello che fanno i potenti: interroga i capi dei sacerdoti e gli scribi, cioè, sfrutta le competenze che ha a disposizione, coloro che sono al suo servizio. Questi gli rispondono: ‘a Betlemme di Giudea, perché così è scritto’. E Matteo, che ha il senso dell’ironia, cita il testo di Michea:
6E tu, Betlemme, terra di Giuda,
non sei davvero l’ultima delle città principali di Giuda:
da te infatti uscirà un capo
che sarà il pastore del mio popolo, Israele”.
Cioè, mette in contrapposizione le città potenti, la Gerusalemme che conta, e Betlemme, che non sappiamo esattamente com’era ai tempi di Gesù: doveva essere un piccolo villaggio, non così significativo, ma nemmeno inesistente.
Questa è la premessa, poi comincia il testo che vi propongo oggi, a partire dal versetto 7.
7Allora Erode, chiamati segretamente i Magi, si fece dire da loro con esattezza il tempo in cui era apparsa la stella 8e li inviò a Betlemme dicendo: “Andate e informatevi accuratamente sul bambino e, quando l’avrete trovato, fatemelo sapere, perché anch’io venga ad adorarlo”.
Erode introduce i due elementi fondamentali dell’universalità del potere, che valevano al tempo di Erode, e valgono ancora oggi, e questo, per me, è impressionante. Sono l’informazione e il tempo.
Erode chiama segretamente i magi, dice loro di informarsi e poi di fargli sapere il tempo in cui è nato il bambino, e fare tutto questo in fretta. Tempo e informazione sono le due facce del potere universale. E se penso anche solo a me stessa, che non faccio parte dei servizi segreti, che informazioni posso avere? Invece bisogna fare molta attenzione, perché questo è uno dei motivi per cui papa Francesco ci richiama spesso sul chiacchiericcio. Perché ha ben chiaro che l’informazione, la mancanza di informazione, la pretesa informazione, lo scambio di informazione sono una logica mafiosa, per dirla con una parola che capiamo tutti. Sono merce di scambio. Sono creatrici di legami, pessimi, ma pur sempre legami. «Io so che tu sai».
Questi due temi, informazione e tempo – avere il tempo che serve per, o non avere il tempo che serve per, calcolare il tempo, pretendere di calcolare il tempo – dipendono da me. Sono le due grandi tentazioni che riguardano chiunque, non solo i re o i potenti. Non è un caso che l’Evangelo ci dica «il vostro linguaggio sia sì sì, no no». E una delle grandi virtù cristiane è la parresia, il parlare schietto. Il tema dell’informazione è molto più complicato che ai tempi di Erode, perché sono cambiati gli strumenti a disposizione. Non si tratta più solo delle chiacchiere nel cortile.
9Udito il re, essi partirono. Ed ecco, la stella, che avevano visto spuntare, li precedeva, finché giunse e si fermò sopra il luogo dove si trovava il bambino. 10Al vedere la stella, provarono una gioia grandissima. 11Entrati nella casa, videro il bambino con Maria sua madre, si prostrarono e lo adorarono. Poi aprirono i loro scrigni e gli offrirono in dono oro, incenso e mirra. 12Avvertiti in sogno di non tornare da Erode, per un’altra strada fecero ritorno al loro paese.
Non so che effetto vi facciano questi versetti, molto noti, che fanno tanto presepio. Ma la chiave di questi versetti è tutta nell’ultimo: «avvertiti in sogno di non tornare da Erode, per un’altra strada fecero ritorno al loro paese». Sono uomini che scrutano le stelle e ascoltano i sogni. La profonda libertà di questi stranieri, maghi – così diversi al punto che nei nostri presepi uno è rappresentato nero – è che si fidano di ciò che non governano. È un sogno che gli salva la pelle. Poi ci mettono tutto ciò che sono: hanno guardato le stelle, hanno studiato, hanno interpretato, sono partiti… Ma si fidano di ciò che non governano, a cui riconoscono un potere, riconoscendo insieme la loro parzialità. Loro non sono universali, per cui possono dire che esiste un’altra strada, che non tutto è dominato da Erode, non riconoscono la sua universalità.
E dunque tornano per un’altra strada. Hanno fatto quello che dovevano, hanno visto il bambino, hanno dato i loro doni, hanno fatto la loro parte. Tornano più ricchi? meno ricchi? non lo sappiamo, probabilmente stanchi. Ma rivedono la stella e provano una grande gioia. Vedremo più avanti come la parzialità faccia nascere anche altri sentimenti meno piacevoli. Ma sicuramente prendere atto della propria parzialità produce gioia, una gioia che viene da altrove, da un dono gratuito, da una stella che non sono loro a comandare. Erano tristi per non averla più vista e gli viene di nuovo regalata. Riconoscono ciò che gli viene dato e provano una grande gioia.
E poi c’è la questione dei doni. Oro incenso e mirra: tutti abbiamo sentito migliaia di spiegazioni, in omelie e catechismi, sono il segno della regalità, della passione. La simbolica di questi oggetti è tutta vera, ma è chiaro che fare un dono è riconoscere un potere all’altro. Io faccio un dono per dire grazie o nella speranza di farti contento, che il dono ti faccia piacere. Tutti abbiamo bisogno del sorriso di un altro, perché non siamo universali, si fanno doni perché gli altri ci sorridano. Gli antropologi spiegano che la società occidentale si regge sulla struttura del dono, che si è trasformata nella struttura del mercato, e lì è cambiata la musica. Ma la struttura del dono è la struttura portante dell’esperienza della parzialità: io dipendo dal fatto che tu sia contento, sto meglio, io, se tu sei contento. Quando diciamo «ama il prossimo tuo come te stesso» diciamo questo, diciamo che siamo contenti se l’altro è contento e ci guarda sorridendo.
Questa è la più grande esperienza di parzialità che sia possibile fare nella propria vita, perché tutti attraversiamo un amore, per felice o infelice che sia. Si scopre che non si è più padroni della propria felicità, ed è uno dei motivi per cui tutti, da adolescenti ma anche da adulti, ci confondiamo sugli amori. Perché ci terrorizza l’idea di mettere noi stessi nelle mani di un altro, abbiamo paura di essere traditi, delusi e dunque di dover accettare la nostra parzialità, il fatto di non poterci assicurare da soli la felicità. Possiamo raccontarci che stiamo benissimo da soli, fare ragionamenti anche veri, almeno parzialmente. In realtà il problema è che in ogni relazione, ogni altro che rompe l’universalità, diventa un padrone – altro ragionamento sul patriarcato che andrebbe approfondito, perché la differenza tra la donazione di sé e l’espropriazione di sé è una linea sottile, e la perversione del rapporto è sempre in agguato. E dunque questo «avvertiti in sogno» apre la seconda metà del brano, pieno di sogni e di angeli, che sono gli altri confrontati con il potere universalista di Erode.
13Essi erano appena partiti, quando un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe e gli disse: “Àlzati, prendi con te il bambino e sua madre, fuggi in Egitto e resta là finché non ti avvertirò: Erode infatti vuole cercare il bambino per ucciderlo”.
Giuseppe raddoppia: non c’è solo un sogno, ci sono un sogno e un angelo. Il Giuseppe dell’Antico Testamento è l’interprete dei sogni del faraone che salva la vita a sé e poi a tutto il popolo di Israele. Il Giuseppe del Nuovo Testamento – non a caso si chiama anche lui Giuseppe – riprende quella figura, la evolve: come il primo ha custodito i suoi fratelli, lui custodisce il Figlio di Dio e Maria. Insieme a Giovanni Battista, Simeone e Anna, è l’ultima figura dell’Antico Testamento, perché sogna e vede angeli. Poi sparisce Giuseppe, spariscono gli angeli, i sogni e tutto il resto, cioè, finisce il tempo in cui l’espropriazione e il non governo di sé passano attraverso un racconto molto concreto, molto realistico. «Un angelo appare in sogno a Giuseppe» e gli dice di fuggire. Di fronte al potere, un potere violento, bisogna scappare? I versetti che seguono sono spaventosi se li leggiamo con la mentalità di oggi, senza troppa soggezione all’Evangelo.
14Egli si alzò, nella notte, prese il bambino e sua madre e si rifugiò in Egitto, 15dove rimase fino alla morte di Erode, perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta:
Dall’Egitto ho chiamato mio figlio.
16Quando Erode si accorse che i Magi si erano presi gioco di lui si infuriò e mandò a uccidere tutti i bambini che stavano a Betlemme e in tutto il suo territorio e che avevano da due anni in giù, secondo il tempo che aveva appreso con esattezza dai Magi – ma non lo aveva appreso da loro, non sono tornati a dirglielo.17Allora si compì ciò che era stato detto per mezzo del profeta Geremia:
18Un grido è stato udito in Rama,
un pianto e un lamento grande:
Rachele piange i suoi figli
e non vuole essere consolata,
perché non sono più.
Ho riletto molte volte questa citazione da Geremia in queste settimane di guerra, perché Rachele sicuramente non era israeliana perché non esisteva Israele. Forse non era nemmeno nata in quella che i palestinesi chiamano Palestina, perché era stata sposa di Giacobbe prima dei suoi spostamenti, magari era di chissà quale parte del Medio Oriente. È vissuta prima di tutte queste classificazioni, ma fa la stessa esperienza che fanno le madri che vivono in quel territorio oggi, qualsiasi sia la loro nazionalità. «Rachele piange i suoi figli e non vuole essere consolata, perché non sono più».
Perché dicevo che questi versetti sono spaventosi? Perché Giuseppe viene avvertito in sogno, fugge, va in Egitto. «Dall’Egitto ho chiamato mio figlio» significa che c’è un disegno su di lui, c’è una salvezza per questo bambino, e ci sembra normale, ne abbiamo fatto poesia in tanti dipinti, ma questa salvezza ha un costo altissimo. Tutti i bambini sotto i due anni di Betlemme e della regione, chissà quanti erano all’epoca – il 750 a.C. circa – forse nemmeno due milioni, vengono uccisi senza colpa e senza motivo, e «Rachele non vuole essere consolata». C’è una pretesa di universalità che produce morte. Erode usa soluzioni drastiche: se non trova il bambino, uccide tutti i bambini. L’eroe della storia, Giuseppe, con la donna e il bambino, vengono salvati, perché la storia deve continuare, non può morire il protagonista alla prima puntata. Ma il costo da pagare sono tutti questi bambini e queste madri che non vogliono essere consolate.
Questi versetti sono molto forti, molto poco natalizi, forse per questo vengono lasciati sempre un po’ in secondo piano. Ma la questione è molto seria. Un potere universale uccide, uccide sempre. E uccide i giusti, vittime innocenti. È come se Matteo ci dicesse che non è mai senza costi. Non si può dire «sono sensibile ai temi dell’informazione e del tempo, mi aggiusto un po’, bisogna fare parte di quelli che contano, non si può mica vivere ingenuamente, in modo puro». Questo produce morte. Sempre, e morte di innocenti.
Torno un attimo sulla questione dell’Egitto. È chiaro che il racconto di Giuseppe che, con la sua famigliola molto arcobaleno, finisce in Egitto è indicativa della doppia ambiguità della storia. È la ripetizione dell’Esodo. «Dall’Egitto ho chiamato mio figlio», è una citazione di Osea riferita all’Esodo. Il figlio e il popolo, tutto intero. Ma qui Matteo, da bravo rabbino, applica il riferimento a Gesù: Gesù viene fatto fuggire in Egitto perché si compia la profezia. Ma è l’ambiguità della storia, non tutte le partenze sono uguali. La partenza dei Magi è per tornare alla loro terra d’origine, per tornare a casa. Nel Vangelo tornare a casa diventerà sinonimo di mancanza di fede: «volete andarvene anche voi?». Gesù, appena nato, è un migrante, non torna a casa. Va ancora più lontano da casa sua. E anche quando tornerà, non tornerà a casa. Forse, in relazione a quello che sta succedendo intorno a noi e al tempo nuvoloso nei nostri cuori e nelle nostre menti, in questo Natale potremmo scegliere questo versetto come oggetto di meditazione. «Rachele non vuole essere consolata».
Mi sembra un elemento di grande verità rispetto all’esperienza che stiamo vivendo. È come se non volessimo essere consolati di molte situazioni di dolore e di guerra, ognuno di noi sempre più centrato nella propria universalità di potere che non è in grado nemmeno di tollerare di poter trovare una via di consolazione. Non è che quel versetto stia in un’aura poetica, mentre Israeliani e Palestinesi sono teste di cavolo con cui non si può ragionare se ciascuno si incaponisce sulle proprie posizioni: no, è la stessa cosa, lo stesso livello di percezione. Quando non vogliamo essere consolati, niente ci raggiunge, e non c’è una soluzione immaginabile. Perché il dolore ha un potere universale, e se non scopriamo la parzialità del nostro dolore non ci sarà mai modo di interromperne la spirale. La parzialità del dolore non significa né che non sia vero, né che non sia soggettivamente così serio, da invadere quasi tutta la mia vita. Ma lasciare che la propria ragione, il proprio torto, il proprio dolore, invada la totalità della vita è creare un potere universale che produce morte. E dunque, ecco la conclusione, che non è un happy end:
19Morto Erode, ecco, un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe in Egitto 20e gli disse: “Àlzati, prendi con te il bambino e sua madre e va’ nella terra d’Israele; – sono le stesse identiche parole del sogno precedente – sono morti infatti quelli che cercavano di uccidere il bambino”.
La morte è la parola definitiva contro l’universalità del potere, tutti muoiono, anche i potenti. Per questo i cristiani dei primi secoli hanno usato come disciplina spirituale la meditatio mortis. A noi sembra che fossero un po’ depressi oppure autoflagellanti. Invece, la meditatio mortis è una cosa molto seria per gli adulti. È ricordarsi che siamo parziali perché siamo mortali. Perché ci sarà un dopo di me senza di me. Il più tardi possibile, ma ci sarà, e il mondo andrà avanti lo stesso.
21Egli si alzò, prese il bambino e sua madre ed entrò nella terra d’Israele. 22Ma, quando venne a sapere che nella Giudea regnava Archelao al posto di suo padre Erode, ebbe paura di andarvi.
È interessante, Giuseppe ci mostra che cosa vuol dire non governare, che non significa lasciarsi andare alla passività totale. L’angelo ha detto vai, non c’è più problema. Lui continua a fare dei ragionamenti e si prende una responsabilità: «è vero, è morto Erode, sono morti altri che lo volevano uccidere. Ma qua c’è ancora Archelao suo figlio. Non sarà che rischiamo troppo?»
Avvertito poi in sogno, – l’angelo gli riconosce di aver pensato bene – si ritirò nella regione della Galilea 23e andò ad abitare in una città chiamata Nàzaret, perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo dei profeti: “Sarà chiamato Nazareno”.
Si torna a Nazareth dove in realtà non sono mai stati. Ricostruiscono un’altra casa. E con la collaborazione tra i sogni e la paura di Giuseppe – la parzialità alla seconda. Poi c’è questo gioco, sul Nazareno, su cui si potrebbe fare un lungo ragionamento. Il nazireato era una condizione religiosa, non geografica. Quella di Sansone, per capirci, che implicava il non tagliarsi mai i capelli, essere consacrato al Signore. Matteo gioca su questo, perché in ebraico non è la stessa parola, ma suona abbastanza simile, come per noi, ma noi non le accostiamo mai, anche se Gesù è un consacrato. Tra l’altro questo è il motivo per cui, pur essendosene persa la consapevolezza, fin dall’inizio Gesù viene rappresentato con i capelli lunghi. Quindi Matteo inserisce questo gioco fonetico, sul fatto che Gesù per geografia diventa un consacrato, non per la religione, per essere di famiglia sacerdotale, o come Sansone, per la sua forza eccezionale: è un nazireo perché è andato ad abitare a Nazareth. Ed è appunto la parzialità di un potere che diventerà liberatorio e che farà della morte, della propria morte, lo strumento maggiore del suo potere.
Fossano, 16 dicembre 2023
Testo non rivisto dall’autore
Lectio 2023/2024
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