Stella Morra
6. Quinto sigillo: la gentilezza, perché
Eccoci a riprendere il nostro percorso, con un tema singolarmente fuori tempo rispetto al momento che stiamo vivendo, perché il quinto sigillo, il quinto passo che avevamo pensato nella progressione del nostro percorso, era sul tema del potere come gentilezza. Quello che sta succedendo intorno a noi, quello che è successo ieri a Mosca, le guerre, tutta una serie di situazioni che stiamo vivendo, non ci fanno venire in mente la gentilezza, come prima sensazione o prima reazione. Però tant’è: da una parte può essere una buona occasione di valutare la potenza critica della Parola di Dio, anche rispetto al tempo che stiamo vivendo, e quindi vedere un altro punto di vista possibile in totale distonia e in qualche modo proseguire, comunque, la nostra riflessione sul potere.
Ricordando il nostro percorso, innanzitutto siamo partiti dal testo di Apocalisse che era il punto di arrivo dell’altra annata sul potere, l’idea di potere come qualcosa che fa vivere, che era il punto d’arrivo della nostra riflessione precedente. Però, appunto, il potere che fa vivere, che fa vivere altri, che crea possibilità, in qualche modo lasciava aperta tutta una riflessione che stiamo cercando di affrontare quest’anno su delle forme più concrete. Dunque, poi siamo passati al testo di 2 Samuele, l’episodio di Davide e Uria l’Hittita, con la comprensione di cosa succede quando si percepisce il potere come un’unica forma possibile: la forma della sopraffazione, del raggiungere il proprio desiderio senza calcolare i costi degli altri. Poi, abbiamo visto il testo di Matteo con i magi e il rapporto tra universalità e parzialità; la necessità del potere di pensarsi parziale per essere un potere che fa vivere. Poi, abbiamo visto il testo di Marco, la guarigione della figlia di Giairo e l’episodio dell’emorroissa mezzo incastonato (con queste due forme di uomini e di donne, due forme di richiedere ed esercitare un potere diverse) e il potere come una dimensione relazionale, cioè come una cosa che uno si dà da se stesso e agisce. Ma, agisce in una relazione che è sempre asimmetrica; necessariamente non può essere una relazione alla pari perché una relazione alla pari, non implicando una differenza, non implica quell’eccedenza necessaria che dà potere e mette in circolazione potere. E infine, la volta scorsa abbiamo visto il testo di 2 Corinzi, il testo di Paolo un po’ incazzato contro la comunità dei Corinti, e dunque il potere come forza. Il potere si dà quando una relazione asimmetrica viene vissuta in modo da essere generativa, da generare altro, da rendere possibile altro. E si dà proprio in questa differenza di tensione in cui c’è questa eccedenza e l’eccedenza ha innanzitutto la forma della forza.
Quindi, sta cominciando a emergere un profilo abbastanza determinato, però mancano un paio di tratti fondamentali, perché se il potere come abbiamo visto è un dato relazionale, cioè non è qualcosa di posseduto, ma è una tensione, una differenza di tensione che genera forze e contro forze, azioni e reazioni, ha bisogno di tensioni che lo equilibrino. Cioè: non si regola dando delle norme sulla singola questione, ma creando delle forze che comparano.
Dopo il carattere della forza bisogna in qualche modo comparare con il carattere della gentilezza. Non “servizio” e altro, perché sono parole lessicalmente usurate. Il potere come servizio è una roba che si trova scritto dappertutto e che dunque non vuol dire più niente. Tutti i poteri nella Chiesa dicono: il potere come servizio! Ok, cioè? Mentre, per esempio, gentilezza, che è una parola del linguaggio laico, ha per noi ancora un significato molto chiaro, e istintivamente siamo capaci di distinguere se un impiegato alla Posta è gentile o non è gentile, o se un negoziante è gentile o non lo è, o se noi stessi siamo gentili o non gentili in una situazione, qualsiasi essa sia, perché è un tema lessicalmente meno usurato. Poi, certo, si possono fare duemila considerazioni: si può essere gentili nella sostanza o solo nella forma, più o meno gentili, ecc. Va benissimo, però abbiamo una istintiva comprensione di cosa significa.
Tutto sommato, rispetto alla nostra riflessione, la questione del potere, come altre questioni chiave dell’esperienza cristiana, non è quella di essere eroici, ma di essere ordinariamente sbilanciati, cioè non di fare una cosa eccezionale, una tantum, ma di essere normalmente un po’ spostati rispetto all’asse normale. Per esempio: certo che il potere è servizio, il potere che Gesù ha sulla croce dove viene definito re, dunque il massimo dell’immagine del potere in un certo tipo di linguaggio, è il potere della croce come assoluta forma di servizio. Ma noi, non ci arriviamo mai! Se uno cominciasse a essere tutti i giorni gentile forse succederebbero già delle cose, ordinariamente sbilanciati.
Vorrei aggiungere una cosa: non sembra tipica di questi tempi questa parola, ci viene molto poco in mente di questi tempi, anzi, in genere, ci stupisce incontrare la gentilezza. L’esperienza comune, soprattutto nel dopo Covid, è quella di un grande rialzamento del livello di aggressività. Non so se questa è l’esperienza che si fa anche a Fossano, ma Roma è terribile questa cosa, anche nei minimi rapporti come pigliare l’autobus, fare la coda al mercato, alla bancarella che ci sono tre persone…E’ normale invece ad esempio che le persone a Roma viaggino con degli oggetti contundenti in macchina; ormai tutti hanno una barra, tanti, e da una parola in su, da un piccolo sgarbo automobilistico in su, cosa che a Roma succede ogni due per tre, qualcuno scende con la barra e spacca i vetri delle macchine o roba del genere. Ecco perché esattamente la gentilezza, in qualche modo, sembra una moneta fuori commercio, una moneta non più valida, anche perché la sensazione è che se non urli non esisti, cioè che se applichi gentilezza tutti ti passano sopra.
E su questo bisognerebbe un po’ riflettere, perché esattamente questo ci dice la relazione molto stretta tra gentilezza e potere: apparentemente la gentilezza è un cedimento di potere. Anche qui, cadiamo nella trappola dell’unica forma che funziona è urlare: nelle assemblee di condominio, nei consigli di classe, sui luoghi di lavoro, nei posti più ordinari dell’universo, pare che chi urla, anche se a torto, alla fine la spunta sempre, e se uno non urla, alla fine è sempre un po’ fregato. Questo ci richiama strutturalmente il “beati i miti” (su cui varrebbe la pena di fare due ragionamenti), dall’altra parte ci dice che appunto la gentilezza è uno degli elementi equilibratori nel sistema di relazioni che il potere ha, e che man mano che sparisce, o che diventa di secondo piano, rende più brutale il potere, cioè lo squilibra. Forse, ad esempio, una vera azione rivoluzionaria, al di là dei discorsi poetici, sarebbe una grande eruzione della gentilezza: rimettere in circolazione quintalate di gentilezza probabilmente riequilibrerebbe alcune logiche di potere alla lunga. Bisognerebbe un po’ ragionarci su questa cosa.
La lectio di oggi
Fatta questa lunga introduzione. vengo al testo di oggi: è un testo stra-conosciutissimo del capitolo 1 di Luca, il testo dell’annunciazione, ma un po’ allungato, che mi interessa non in una questione semplicemente di buona educazione borghese (premesso che la buona educazione non guasta, cioè se non riusciamo a arrivare alla gentilezza almeno la buona educazione sarebbe già cosa utile), però parliamo di gentilezza. Allora, la prima parte del capitolo 1 di Luca è dedicata al racconto che Luca fa dicendo: “Molti hanno scritto, anch’io voglio scrivere”, e racconta tutta una parte che gli altri sinottici non raccontano, quella relativa all’infanzia di Gesù. La prima parte del capitolo racconta la vicenda della nascita di Giovanni Battista o, meglio, le premesse della nascita di Giovanni Battista e lì il protagonista è Zaccaria, il padre, non Elisabetta, la madre. Zaccaria ha una visione mentre fa il servizio di sacerdote nel Tempio e l’angelo gli dice che, benché lui e la moglie siano vecchi, nascerà un figlio e preannuncia alcune cose. La cosa interessante è che Zaccaria rimane muto da questa visione, non è in grado, quando esce, di raccontare cosa è successo, fa una domanda. E tutti i commentatori classici dicono: “eh, ma è perché Zaccaria ha dubitato, ha chiesto come potrà mai accadere questo, io sono un vecchio e mia moglie è avanti negli anni, e così per punizione è diventato muto”. E poi leggi dopo e dici: Maria risponde allo stesso modo: come è possibile ciò? e i commentatori dicono: “ma questa è una grande prova di fede!” Non ho capito: il professore ha le preferenze per cui tratta bene Maria e tratta male Zaccaria e non si sa bene perché. Il sacrificio di Abele è accolto e quello di Caino no (che poi uno infatti dice: Caino vabbè l’ha fatta grossa, però pure lui poveraccio, senza motivo il suo sacrificio non è stato accettato) sono un po’ la stessa logica, e la Bibbia è piena di questa logica di disparità, perché il potere è asimmetrico. Cioè: avete presente quando i figli adolescenti, di fronte a una situazione (a un voto a scuola, all’altro figlio più grande che può rientrare più tardi e loro devono rientrare prima, di fronte alle mille cose della vita dei figli adolescenti) ti dicono: ma non è giusto! – e dicono giusto in un modo potentissimo – infatti la risposta è: non è giusto, non è proprio giusto perché il criterio dell’esistenza non è la giustizia, o se volete la correttezza o la coerenza, come amano dire i cristiani. Il mondo non è giusto, è vero, non è giusto perché, se no non avremo bisogno di potere: sarebbe il regno di Dio (e non avranno più bisogno di luce di lampada né di sole perché il Signore Dio li illuminerà). Il potere è una luce di lampada, di sole che serve quando il Signore Dio non ci illumina ancora, cioè durante la storia, quando il mondo non è giusto. Il potere è il modo in cui gestiamo l’ingiustizia, non la giustizia, perché la giustizia non si deve gestire, si può gioire.
Non so se la considerazione è chiara, però c’è un’oggettiva differenza e la cosa è indicata molto chiaramente nel testo, nei versetti di transito, 23- 25, la parte finale del racconto di Zaccaria. “Compiuti i giorni del suo servizio, tornò a casa. Dopo quei giorni, Elisabetta sua moglie concepì e si tenne nascosta per cinque mesi e diceva: ’Ecco che cosa ha fatto per me il Signore, nei giorni in cui si è degnato di togliere la mia vergogna fra gli uomini”. C’è un passaggio di protagonismo: Zaccaria esce ed entrano in scena Elisabetta e la sua capacità di generare vita. La differenza è che la simmetria del potere è fatta per generare vita, per questo, almeno in questo contesto, le donne sono simbolicamente, biologicamente, cioè da un punto di vista dell’esperienza antropologica sono l’immagine di una simmetria di potere che genera vita che rende possibile. Il passaggio è dalla figura di Zaccaria, che non viene reso sterile, viene reso muto, cioè incapace di generare comprensione negli altri. Stiamo parlando dell’incarnazione del Verbo, la parola è il corrispettivo del generare il Verbo, del mettere in gioco la vita con gli altri. E Zaccaria viene reso muto, cioè incapace nella impossibilità di generare.
Secondo me dovrebbe farci molto riflettere, perché trovo che questa preoccupazione ci abita troppo poco. Nella nostra vita quotidiana rimaniamo ossessionati, come nell’Ottocento, dal fatto che l’essere cristiani sia essere al riparo da una serie di peccati, errori, non fare questo, non fare quello; al massimo del massimo, quando siamo molto positivi, immaginiamo che essere cristiani sia un investimento sulla carità, cioè: non fare peccati stra-gravi possibilmente, e poi fare positivamente qualcosa per la giustizia, per i più poveri. Il problema è che l’essere cristiani ha al suo centro l’esperienza del generare. Generare Dio al mondo e generare il mondo a Dio. Che è un’operazione ben più profonda, ben più irradiata in ogni atteggiamento della nostra vita. E poi certo può trovare la sua forma privilegiata in gesti di carità, in gesti di parole, in mille cose, è ovvio, anche nell’evitare il male, evidentemente, il più possibile. Ma di per sé non è il discriminante. Il discriminante è in questa capacità generativa. Al versetto 26 comincia il testo su cui vorremmo riflettere.
Il testo: Lc 1, 26-56
1 26Al sesto mese, l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nàzaret, 27a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, di nome Giuseppe. La vergine si chiamava Maria. 28Entrando da lei, disse: «Rallégrati, piena di grazia: il Signore è con te».
29A queste parole ella fu molto turbata e si domandava che senso avesse un saluto come questo. 30L’angelo le disse: «Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. 31Ed ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. 32Sarà grande e verrà chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre 33e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine».
34Allora Maria disse all’angelo: «Come avverrà questo, poiché non conosco uomo?». 35Le rispose l’angelo: «Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra. Perciò colui che nascerà sarà santo e sarà chiamato Figlio di Dio. 36Ed ecco, Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia ha concepito anch’essa un figlio e questo è il sesto mese per lei, che era detta sterile: 37nulla è impossibile a Dio». 38Allora Maria disse: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola». E l’angelo si allontanò da lei.
39In quei giorni Maria si alzò e andò in fretta verso la regione montuosa, in una città di Giuda. 40Entrata nella casa di Zaccaria, salutò Elisabetta. 41Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino sussultò nel suo grembo. Elisabetta fu colmata di Spirito Santo 42ed esclamò a gran voce: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo! 43A che cosa devo che la madre del mio Signore venga da me? 44Ecco, appena il tuo saluto è giunto ai miei orecchi, il bambino ha sussultato di gioia nel mio grembo. 45E beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto».
46Allora Maria disse:
«L’anima mia magnifica il Signore
47e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore,
48perché ha guardato l’umiltà della sua serva.
D’ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata.
49Grandi cose ha fatto per me l’Onnipotente
e Santo è il suo nome;
50di generazione in generazione la sua misericordia
per quelli che lo temono.
51Ha spiegato la potenza del suo braccio,
ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore;
52ha rovesciato i potenti dai troni,
ha innalzato gli umili;
53ha ricolmato di beni gli affamati,
ha rimandato i ricchi a mani vuote.
54Ha soccorso Israele, suo servo,
ricordandosi della sua misericordia,
55come aveva detto ai nostri padri,
per Abramo e la sua discendenza, per sempre».
56Maria rimase con lei circa tre mesi, poi tornò a casa sua.
Commento:
26Al sesto mese l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea chiamata Nazareth a una vergine promessa sposa di un uomo della casa di Davide di nome Giuseppe la vergine si chiamava Maria.
Al sesto mese è il collegamento con il racconto di prima; al sesto mese di Elisabetta, che per cinque mesi si tiene nascosta, succede quest’altra cosa altrove. Relativamente vicino a Nazareth, ma l’angelo Gabriele viene mandato a Maria a Nazareth, fuori dagli occhi di Elisabetta. Cosa succede? Che l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea chiamata Nazareth. Allora qui io (forse potete dirmi che sono un po’ fuori di testa, non lo so) trovo che c’è il paradigma di ogni gentilezza possibile, perché è la gentilezza di Dio. Dio manda un angelo. È vero che dal punto di vista letterario questi capitoli di Luca sono a metà tra l’Antico e il Nuovo Testamento, sono ancora pieni di sogni e di angeli come l’AT. Giuseppe sogna, ci sono angeli che vanno e che vengono, è un po’ un genere letterario e quindi va bene. Ma mi sembra che l’inizio, dal punto di vista della storia, di questo prendere la nostra parte da parte di Dio, per mostrarci come abitare la simmetria di potere, comincia con un angelo.
La parola angelica è una parola molto studiata nella scrittura, ci sono dei testi bellissimi. Che cosa ci dice una parola degli angeli? Ci dice una parola in primo luogo passante, cioè una parola che non si può fissare, non è una dottrina, una legge. Gli angeli non danno mai legge, danno sempre notizie. E le notizie passano, arrivano d’altrove e vanno altrove. Soprattutto, sono una parola passante. Tutti gli studiosi definiscono così le parole angeliche nella scrittura. Ad esempio, per generare bisogna avere parole passanti, parole che non si capitalizzano. Le parole sapienti, le parole esatte… provate a mettere un po’ di aggettivi vicini al termine parola, provate a caratterizzare con degli aggettivi ciascuno il proprio modo di parlare. Siamo ormai tutti abbastanza grandi per aver riflettuto su come parliamo. Potremmo dire che usiamo parole passanti? Una delle esperienze più comuni di parole passanti è l’esperienza degli insegnanti, perché non sai mai dove butti, butti in un secchio bucato, e dopo un po’ ne sei consapevole – all’inizio sei molto convinto che devi fare attenzione a ogni parola perché chissà che traumi può generare, dopo un po’ sei abbastanza consapevole che semini, e poi magari dieci anni dopo, vent’anni dopo, un tuo ex studente ormai irriconoscibile, ti dice: “No perché prof quando lei ha detto…” e tu, tra te e te, ti chiedi: “Ma quando ho detto questa cosa? Io? Ma ti ricordi bene?” E invece no, non chiedete, perché il suo ricordo è vero, è una parola passante. Però, da questo punto di vista, è anche una parola molto frustrante. Gli insegnanti rischiano tutti permanentemente il burnout, perché esattamente non vedi mai l’esito. L’unico sempre bocciato, permanentemente, è l’insegnante, che resta sempre lì; i ragazzi vanno, proseguono, crescono, raggiungono tappe, poi magari tornano anche indietro a ringraziare, ed è bello; ma l’insegnante è sempre bocciato nella sua classe, lì rimane e la frustrazione cresce. Infatti, ogni tanto gli insegnanti esercitano degli abusi di potere notevoli, perché non riescono a reggere la frustrazione di una parola sempre passante.
La seconda caratteristica che tutti gli studiosi attribuiscono alla parola degli angeli nella Scrittura è che sono sempre parole parziali e determinate. L’angelo non parla mai di suo, non ha un’idea, non ha un’opinione, viene da parte di Dio, dice quello che ha da dire e poi son cavoli vostri (e di Dio, del caso). Cioè, ha una comprensione estremamente confinata della propria parola. Questa è un’altra cosa che è fondamentale per non usare la parola come un esercizio di potere violento: quello di confinare la propria parola. Per quanto cercarne l’utilizzo migliore, dirla nel modo migliore, cercare la comunicatività, investire sulla propria parola, ma confinarla, sapere che viene d’altrove e che andrà altrove. E quindi io posso aggiungere questo pezzo. Asterisco, nota fondo pagina. Per me personalmente 25 anni di questi incontri sulla scrittura stanno volendo dire (in qualche modo come uno dei frutti che posso raccogliere) una riflessione molto forte su questo aspetto, perché commentare la parola di Dio condividendola con altri per tanto tempo così è un’esperienza che richiede una certa disciplina, che non sempre sono in grado di avere, o sono stata in grado di avere, ma che è un buon esercizio da questo punto di vista, dalla parzialità.
Questo brano comincia con una parola angelica che nella scrittura ci viene raccontata come pronunciata da un angelo per dirci: è una parola così, è una parola generatrice, libera, passante, parziale, confinata, che giunge da altrove. E questa parola arriva in un posto che ha un nome, a due persone (a una persona ma di cui viene evocata anche che è promessa sposa a Giuseppe) che vengono evocati con i nomi da parte di un angelo, che ha un nome, e di questa persona si dice una vergine promessa sposa ad un uomo della casa di Davide. Più determinato di così nell’antichità sarebbe stato impossibile! È l’identificazione legale più precisa che si può dare. Ed è molto importante questo per Luca perché esattamente il confinamento della parola chiede un soggetto preciso, non è mai un universale, non è mai un astratto, è sempre un dato di realtà molto particolare che vale lì e non potrebbe essere rivolto a nessun altro così.
28Entrando da lei, disse: «Rallégrati, piena di grazia: il Signore è con te».
Tutti abbiamo questa frase nell’orecchio quindi ci sembra normale. Di per sé è una frase un po’ demente, nel senso che le stai facendo prendere un accidente, succede una roba strana, le stai per dare una notizia del cavolo, con la quale dovrà passarci quel momentino per adattarsi all’idea, capire cosa sta succedendo e gli dici: rallegrati? ma di che? Infatti:
29A queste parole ella fu molto turbata e si domandava che senso avesse un saluto come questo.
La reazione di Maria è assolutamente normale, lei dice: rallegrati, in che senso? Fermo, piano, per favore! Pensate al dialogo con la samaritana, pensate al dialogo con l’adultera: questi inizi un po’ disorganici al racconto sono un segnale letterario fondamentale. Esattamente qui c’è qualcuno che ha un potere ed è l’angelo, che ha un potere da parte di Dio e che si mette in posizione asimmetrica. Non si china per guardare Maria negli occhi venendo incontro alla sua posizione empaticamente, ma dà in qualche modo un comando, rallegrati. Cioè, mette in chiaro chi ha qualche cosa da dire e da dare e chi no. L’angelo gli dice:
30L’angelo le disse: «Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio.
E qui c’è l’altro grande tema: piena di grazia, hai trovato grazia. Siamo tutti un po’rovinati delle posizioni di Agostino che (sapientemente per la sua epoca, poiché aveva due o tre problemi davanti agli occhi e doveva intervenire) ha fatto alcuni ragionamenti sulla grazia un po’ discutibili, o perlomeno che, se assunti come universale assoluto, diventano discutibili. Erano probabilmente molto utili in quel tempo, ma il dibattito sulla grazia innescato da Agostino ci ha portato alla crisi con Lutero. Per dirla in breve, l’Occidente si è spaccato a causa dell’impostazione agostiniana e non a caso Lutero era un monaco agostiniano, cioè aveva studiato Agostino.
Bisogna che ricomprendiamo un po’ questo tema perché noi abbiamo una tendenza un po’ lessicalista e chiediamo: “Che cos’è la grazia? È l’amore di Dio per il mondo”. E giustamente tutti gli studenti del primo anno di teologia che fanno il corso sulla grazia alzano la manina e dicono: “E allora perché non diciamo l’amore di Dio per il mondo e lasciamo perdere questo termine grazia che ci causa un casino di problemi, che i protestanti non sono d’accordo, che Agostino non si capisce più? Diciamo l’amore di Dio per il mondo e basta così, quello si capisce”. E avrebbero ragione, se la questione fosse questa, evidentemente, se fosse semplicemente sinonimo. Ma il problema è che lo usiamo come sinonimo perché non sappiamo più bene cosa vuol dire e invece dietro c’è appunto che la grazia è l’amore potente (e nella sua potenza) di Dio per il mondo, che è un’altra cosa. E ciascuno di noi, mi auguro, visto l’età di tutti noi, ha almeno sperimentato una volta nella vita la differenza che c’è tra essere innamorati e esserlo in modo potente. Che non è la qualità del mio innamoramento, perché uno innamorato è innamorato. Innamorato in modo potente vuol dire che quel mio innamoramento ha delle conseguenze di tipo storico visibili, quelli che si direbbe un amore felice e un amore infelice. Allora, a 14 anni abbiamo tutti fatto collezioni di amori infelici che erano grandi innamoramenti, ma tutti impotenti, cioè che non andavano da nessuna parte rispetto alla realtà. Più uno cresce più fa l’esperienza di amori potenti – e spesso sbagliati – cioè, in cui si cambia la realtà e dopo un po’ dice: ”Oh, Gesù mio, era meglio se lasciavo perdere!”, non so se riesco a spiegarmi.
Adesso l’esempio è fatto un po’ così, però c’è una differenza. Quando noi diciamo grazia in teologia, diciamo l’amore potente di Dio, cioè quell’amore che trasforma la realtà, che fa la realtà, non l’amore in modo generico, ma un amore che ha un potere. Infatti, la grazia è quell’esperienza di me che io non avrei potuto fare senza di te, ma che riconosco solo quando mi raggiunge. È qualcosa che la presenza dell’altro sveglia in me e rende operativo; io divento in grado di essere quello, ma di per sé non era detto nelle premesse, io non mi stavo occupando di quello, non stavo costruendo quello. Nel momento in cui io ti incontro, questo che mi raggiunge lo riconosco come una verità di me che da sola non avevo visto. La cosa abbastanza tipica è ciò che si scatena tra una madre e un figlio appena nato, in cui il bisogno del figlio sveglia nella madre delle capacità, delle resistenze, delle attitudini, un modo di guardare, il riconoscere alcune cose che in genere, appena il figlio cresce, le passano, non ce le ha più. Eppure, sono sue, è lei, non è che le fa un altro posto suo, ma le fa nella misura in cui il bisogno del piccolo, che ancora non parla, che solo strilla, le chiama in vita. E lei le riconosce come sue e le agisce. Quando non c’è più questo bisogno, non le agisce più. Riesco un po’ a spiegarmi? La grazia è questa esperienza, è l’amore potente di Dio, che non è alternativo alla nostra libertà. Non è che Dio dice: “Io faccio questa cosa per te, tu non la vuoi ma non importa, io sono Dio quindi la faccio comunque per te”, che è il dibattito luterano. Ma è esattamente questo incontro in qualcosa che sveglia in me una potenzialità, una possibilità che io riconosco come mia a quel punto.
Una domanda: i cattolici hanno trasformato questo in un sacramento? Sì, più o meno sì. Cioè, i cattolici dicono che l’unico luogo certo della grazia di Dio sono i sacramenti e che poi ci sono altri luoghi della grazia di Dio, che però non sono classificati come certi. In questo senso i cattolici difendono i sacramenti, ma difendono anche la sacramentalità, cioè che la storia nel suo insieme è sacramento della grazia, sì. E appunto il dibattito con i protestanti passa, guarda caso, anche di lì, evidentemente. Allora, se la grazia è questo, dire “Maria piena di grazia” è effettivamente una grande buona notizia. Dio dice a Maria che riconosce in lei tutta la possibilità necessaria per generare il Figlio al mondo.
La buona notizia è per noi e anche per lei, nel senso che le buone notizie non sono mai l’happy end, non sono un regalo di compleanno. Le buone notizie nella vita, generando una possibilità, generano anche la sua responsabilità correlativa per tutti, per noi come per lei, però sono anche lo spessore del dare vita, del rendere la vita possibile.
31Ed ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. 32Sarà grande e verrà chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre 33e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine».
È chiaro che l’immagine del regno di Davide suo padre, regnare sulla casa di Giacobbe è il linguaggio letterario del potere. Non si dice: sarà buono, sarà amato, guarirà, farà miracoli (che pure sono cose che farà), si indica esattamente che avrà tutto il potere possibile. Cioè, che non solo Maria ha il potere di generare vita, ma che la vita che genererà sarà tutto il potere possibile. Quindi il potere di dare vita a tutto il mondo. Ecco la cosa interessante è che Maria dice:
34Allora Maria disse all’angelo: «Come avverrà questo, poiché non conosco uomo?».
Fa la stessa obiezione di Zaccaria: come? La domanda vera non è chi sei, che cosa, ma è sempre come, cioè: come può accadere? E non è interpretato come un’incertezza nella fede, ma viene detto:
35Le rispose l’angelo: «Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra. Perciò colui che nascerà sarà santo e sarà chiamato Figlio di Dio.
E ancora qui trovo un tratto meraviglioso, dopo la parola passante, di gentilezza. Non stiamo parlando di melensaggine da due soldi, stiamo parlando di cose vere, le cose vere hanno sempre doppie facce: il lato di ombra della vita, che è l’ombra dello Spirito, genera. C’è una disparità di potere tra noi e la vita. La vita è più potente di noi. Alla fine, ci caccia sempre in situazioni che forse non avremmo scelto. E la vita ha sempre una dimensione d’ombra. Ma se quell’ombra è l’ombra dello Spirito diventa generativa. È la nuvola che, come un tappeto, copre il cammino degli ebrei nel deserto. Nel tempo della storia ci fa ombra. Guardate che qui dietro c’è una riflessione antimoralistica geniale, cioè, è proprio il nostro luogo d’ombra che ci rende generativi. Un parroco direbbe forse che i nostri peccati sono anche le nostre migliori virtù, sono il luogo dove si può generare; non la nostra perfezione, ma la nostra umanità.
36Ed ecco, Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia ha concepito anch’essa un figlio e questo è il sesto mese per lei, che era detta sterile: 37nulla è impossibile a Dio».
38Allora Maria disse: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola». E l’angelo si allontanò da lei.
A fianco a questa non rassicurante considerazione sull’ombra dello Spirito, si mette un segno rassicurante. L’azione di Dio è potente, è un amore potente e dunque è già accaduto:
e questo è il sesto mese per lei, che era detta sterile:
Non ti devi fidare semplicemente.
37nulla è impossibile a Dio».
E qui si capisce perché i cristiani invocano Dio come “onnipotente”. Parola fastidiosa, un po’ patriarcale che non ci piace, che vorremmo forse cambiare, che in altre lingue si usa diversamente. Ogni tanto, a seconda di come viene usata e da chi, mi dà molto fastidio, e ogni tanto invece la trovo fondamentale. Sono molto rassicurata dall’idea che ogni potenza appartenga a Dio; sarei meno rassicurata se fosse troppo sparsa in mezzo ad altri specie ai suoi rappresentanti.
38Allora Maria disse: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola». E l’angelo si allontanò da lei.
39In quei giorni Maria si alzò e andò in fretta verso la regione montuosa, in una città di Giuda.
Dopo tutta questa mega operazione, su cui uno avrebbe anche un po’ il diritto di dire: “Ok, fammi raccogliere un attimo le idee, fammi celebrare un po’, fammi capire che cosa succederà”. Invece, Si alzò e andò in fretta. Da qui in poi nei Vangeli entra il tema della fretta, che arriverà fino alle donne che vanno in fretta al sepolcro. Fino a quest’azione potente, non erano ansiosi, hanno aspettato duemila anni. Da qui in poi diventano tutti ansiosi, hanno tutti fretta, perché cambia il ritmo del tempo, perché c’è una urgenza nel rimanere al passo di questo potere che genera e che fa generare. Non si può più rimandare, non si è più nella posizione di attendere che Dio compia le sue gesta, ma si è nella posizione di generare la potenza necessaria perché il mondo si orienti al regno di Dio. È un cambiamento radicale. In realtà l’AT finisce qua: si alzò e andò in fretta.
Bene, poi c’è la seconda parte la seconda parte di questo brano che è la visita di Maria ad Elisabetta col Magnificat che abbiamo più volte commentato, dunque non mi soffermo se non con un’osservazione finale. Tutta questa dinamica produce in Maria gentilezza, la capacità di andare ad aiutare la sua parente anziana. E produce non più domande come quelle dei magi, come quelle dell’AT, come quelle di Zaccaria e Maria, (come è possibile?), ma affermazioni. “Ha rovesciato i potenti dei troni, ha innalzato gli umili”, e la stessa Elisabetta dice: “il bambino ha sussultato in me”. Affermazioni e sussulti, cambiamenti, il ritmo è cambiato e la gentilezza diventa il criterio quotidiano. Maria va ad aiutare la sua parente anziana e da lì in poi proverà ad essere gentile, che non è il contrario di decisa, ma gentile.
Domanda: Don Flavio notava che Francesco, nella Fratelli Tutti, proprio dove della politica parla della gentilezza, proprio in collegamento al tema del potere. Francesco, ha la capacità di connettere parole non tradizionalmente legate a certi temi e connettendo delle parole inconsuete. In questo modo, ti fa vedere delle cose; altrimenti abbiamo talmente nelle orecchie certe frasi, che non le vediamo più. Mentre se tu metti una parola diversa improvvisamente diventano visibili. E quindi devo esattamente a questa riflessione di Francesco il collegamento tra gentilezza e potere.
Domanda: Non mi ha convinto la tua distinzione tra grazia e amore. Ovviamente sono due temi giganteschi e non si può spiegare in una battuta, ma di base anche l’amore è potente, generativo, cambia sé, cambia gli altri, cambia il mondo che ci circonda, come la grazia. Dov’è la differenza?
Domanda: E se dicessimo semplicemente “Spirito Santo”?
Una delle cose che mi fa impazzire personalmente è l’antipatia per il termine grazia per cui cerchiamo sempre di sostituirlo. Ma diciamo, la distinzione è un po’ più raffinata di quella che ho fatto io, ovviamente, però è la potenza nella relazione. L’amore è potente di per sé, ma ad esempio, l’amore può non essere corrisposto e si può amare in modo totalmente gratuito, come Dio fa con noi nel 90% dei casi. E questo è molto rilevante, ma di per sé non è ancora operativo nella relazione, perché finché noi non lo accogliamo (almeno un po’, almeno in parte) quello non cambia noi. La grazia è operativa nella relazione e, in questo senso è più vicino al termine Spirito Santo, nel senso che lo Spirito Santo caratterizza il dato relazionale, ha come punto forte il suo essere relazionale. Però la grazia è la parte della moneta vista da noi, vista dalla storia. Lo Spirito Santo è visto dalla Trinità. Nella Trinità l’amore del Padre e del Figlio diventa operativo nella relazione e nello Spirito Santo. Però questo qui è vero dal punto di vista di Dio. Fantastico, peccato che noi non siamo Dio. E quindi se diciamo solo questo, questa metà, diciamo solo quella parte, che funziona di sicuro perché riguarda Dio, solo che il mondo non funziona. Allora, se noi vediamo lo stesso problema, la stessa questione, ma dalla parte della Storia, dalla parte sotto della moneta, quello che vediamo è la grazia (e per questo ha ragione chi prima diceva che i cattolici hanno identificato questo nei sacramenti, che esattamente sono l’interfaccia con la storia, addirittura con la storia di ciascuno di noi – nascere, essere malato, diventare grande, fare una scelta di vita, sbagliare, cioè le cose della vita) quindi la grazia è il nome di quella dinamica vista dalla parte della storia e della relazione. Dovremmo, almeno noi teologi, ristudiare profondamente la grazia in tutti i dibattiti. Voi potete leggere volumi e volumi medievali e non solo, sulla grazia, con delle classificazioni da 200 aggettivi (la grazia elevante, la grazia creata, la grazia increata…), ma perché esattamente si erano applicati a studiare molto bene tutte le possibilità, anche se con un linguaggio, un approccio che oggi non ci parla più. Ma per essere cristiani o ci rendiamo conto della complessità di queste possibilità di un amore potente nella storia o, se diciamo solo l’amore potente che è lo Spirito Santo, andiamo a finire su una sorta di fondamentalismo o sentimentalismo, oppure diciamo delle cose carine che non significano niente: “Lo Spirito Santo ci accompagna”. E, cioè? Sono poi io che decido se fare o non fare il mutuo, mica lo Spirito Santo! Tutto il lavoro sulla grazia è il lavoro di articolazione di quella verità che, vista dalla parte di Dio, è limpida, ma, vista dalla nostra parte, è un casino.
Domanda: Grazia non traduce “hesed”, l’amore fedele di Dio?
No, nel senso che questa è un’altra semplificazione di tipo biblico per fare il ragionamento di rendere generico un tema di dibattito teologico, non sapendolo più spiegare, grazie proprio ad un dibattito concettuale. È lo sforzo di intellettuali credenti che provano a articolare perché, se no, dicendo hesed (viscere, amore, misericordia, altri sostantivi possibili) si rimaneva sulla narrativa biblica. Ma la teologia è un altro passaggio; il passaggio che dalla narrativa biblica fa un po’ di ragionamenti sulla concretezza storica anche intellettualmente compresa. Poi è chiaro che certe volte ci parla di più il linguaggio narrativo e certe volte quello concettuale. Magari questo è un tempo in cui il linguaggio concettuale è talmente incasinato che tutti torniamo al narrativo biblico, cioè ci sembra più toccabile, più tangibile. ma di per sé prima o poi dovremmo riorganizzare anche i pensieri perché noi siamo fatti di entrambe le cose, non solo di sentire.
Domanda: Tu dicevi che il mondo va da un’altra parte rispetto alla gentilezza, c’è sempre comunque la prevaricazione, la prepotenza. Mi veniva in mente una cosa che avevi raccontato, successa qualche anno fa quando ti avevano rubato lo zaino, col computer, tutta la roba dentro, e il carabiniere, quando hai dovuto fare la denuncia, ti aveva detto: “Ma signora, pure lei se fa così…” e tu avevi detto: “No, io preferisco vivere così e accettare che succeda una volta una cosa di questo genere”. Forse scegliere la gentilezza è accettare anche che ti facciano delle prepotenze, ma io per questo sto in questa posizione anche se so che succederà ogni tanto che mi va male.
Il dibattito teologico sulla grazia ragiona moltissimo su queste cose, se noi lo traduciamo dal linguaggio medievale. Tutta l’aggettivazione (grazia elevante, grazia santificante, grazia purificante eccetera) esamina tutti questi casi. Cioè: fino a che punto vale la pena di essere gentili? Fino al rischio di prendersela in un piede? Perché poi nella realtà quelli sono i problemi, Noi non abbiamo un problema teorico sulla gentilezza, abbiamo il problema: e poi che mi succede? Quante volte mi fregano lo zaino? Perché non posso farmi fregare tutti i giorni…
Domanda: Se poi lo portiamo a livello di rapporti tra stati… Esatto!
Domanda: La seconda cosa è invece legata alla grazia. Tu dici: nella relazione che ciascuno di noi ha con Dio, lui vede in te delle cose che manco tu vedi e ti mette in grado di metterle in azione è così?
Sì, infatti, è esattamente questo. Dio non solo genera il mondo, ma genera ciascuno di noi, non solo nel momento in cui nasciamo, ma in ogni giorno della nostra vita. E questo è il motivo per cui tanto spesso abbiamo parlato dell’allargare la propria casa interiore, perché è questo che Dio fa. Il miracolo di Dio è che ci rende più grandi, più spaziosi, con più cose, capacità, spazi, possibilità a nostra volta generative, di quanto noi stessi sappiamo di avere. E questo fa bene, questo salva, salva noi e salva gli altri, perché possiamo ospitare altri e, a nostra volta, aiutare che negli altri si generino aperture.
Domanda: Dopo questo passaggio Maria fa più domande, mette anche in moto la gentilezza e fa affermazioni, sussulti. Mi veniva in mente un altro suo atteggiamento: quando in realtà ancora continua a non capire, però conserva queste cose nel suo cuore. Quindi conservare è un altro modo di vivere la gentilezza? In realtà conserva sia quando è contenta per i pastori che lo lodano oppure quando non capisce cose che capitano rispetto a suo figlio e le conserva nel suo cuore. Non capisco, tengo; e poi chissà… Poi mi veniva in mente Dostoevskij: “La bellezza salverà il mondo”, cioè, quale bellezza? Effettivamente c’è quella bellezza gentile, forse si dovrebbe dire che bellezza è già molto potente. Però mi domandavo: la gentilezza ha anche questa forza invece di salvare il mondo accanto alla bellezza o a questo genere di vita.
Domanda: quindi gentilezza legata a potere non è forse tanto una questione di modo di essere perché, se non si accoglie il proprio potere, non c’è scopo, servizio, che poi a fine di ricostruzione non ha senso. Quindi gentilezza è questo: è il risultato, cioè la generatività. Quindi il problema non è tanto un ascolto, ma è creare o non creare generatività, lo spazio.
Assolutamente. Quello che ha detto Francesco è che la gentilezza non riguarda un dato di buona educazione generica, ma nemmeno semplicemente di creazione di consenso, perché il potere per la pura creazione di consenso, anche no, o comunque non è quella la questione. Certo il consenso serve perché, se no non funziona. Ma la questione è: per che cosa creo consenso e per che cosa dunque gestisco il potere? Se per ampliare, generando altra vita e altre possibilità, o no. Questa è la questione.
Domanda: E ha che fare con la bellezza?
Sì, su questo bisognerebbe riflettere un po’. Il rapporto tra gentilezza e bellezza, potere e bellezza, è una cosa che non ho messo nel percorso perché a me personalmente non è ancora del tutto chiara. Anche qui la famosa frase “la bellezza salverà il mondo” (che è sempre citata male perché in realtà Dostoevskij dice: “quale bellezza salverà il mondo?”, che è un po’ un’altra questione) mi sembra che crei un po’ di confusione. Personalmente non so maneggiare ancora granché questo tema quindi mi astengo.
Fossano, 23 marzo 2024 Testo non rivisto dall’autore
Lectio 2023/2024
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