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6 Aprile 2024
Stella Morra

7. Sesto sigillo: le possibilità, per chi

Commento a: Eb 11, 1-3.8-16.32-40


Siamo quasi alla fine del percorso in cui ci ha accompagnati la metafora dei sette sigilli del libro dell’Apocalisse. Siamo arrivati al sesto, il penultimo, e fin qui abbiamo cercato di comporre un profilo del potere; a questo punto dovrebbe essere abbastanza chiaro che le forme del potere sono plurime, dipendono dalle condizioni storiche, ma rispondono – o dovrebbero rispondere – ad alcune forme fondamentali per essere un potere che fa vivere, costruttivo non distruttivo.

Siamo partiti dal testo di Davide, in cui abbiamo visto che se il potere assume una sola forma, è sempre una forma violenta, non costruisce relazioni ma si impone.  Abbiamo letto, la volta successiva, il testo del vangelo di Matteo: cosa vuol dire mantenere la percezione della propria parzialità nel momento in cui si esercita un potere. Poi il brano di Marco con gli episodi della figlia di Giairo e dell’emorroissa e le tre forme di potere narrate: Giairo che dice «io, quando do un ordine ai miei, sono sicuro che venga eseguito». La donna, che impone la sua richiesta con un tocco, senza nemmeno dire una parola; infine Gesù, che dice «ho sentito un potere uscire da me».  Tre forme diverse di potere, caratterizzate dall’essere una maschile, una femminile e una di Gesù…  cioè come?  Poi abbiamo affrontato San Paolo, nella seconda lettera ai Corinti, da cui emerge il tema della forza.  Abbiamo infine parlato della gentilezza come forma del potere e cosa questo significhi, riflettendo sul tema della grazia. Abbiamo provato a riflettere su che cosa significhi la grazia, che mantiene nel nostro linguaggio comune soprattutto l’idea di gratuità: ricevere la grazia, ricevere una grazia, significa non meritare ciò che si riceve.  Invece il movimento della grazia dal punto di vista di Dio è più complesso: l’abbiamo visto con il racconto dell’annunciazione e dell’incontro tra Maria ed Elisabetta.

 

La lectio di oggi

Oggi ci confrontiamo con un testo arduo, tratto dalla lettera agli Ebrei, testo complicato – non si sa chi l’abbia scritto, ci sono mille manoscritti, tutti diversi. Detto in parole semplici, non per esegeti, la questione che sta sotto è che a un certo punto i cristiani delle prime generazioni sentono profondamente di essere diversi e uguali agli ebrei: di essere ebrei, da un lato – almeno alcuni di loro – di avere una storia che non possono abbandonare, perché è la storia che li ha condotti fino lì, condivisa con le loro famiglie, con le persone con cui vivono. Dall’altra parte sono consapevoli di non riconoscersi più totalmente in quella storia, di essere in una situazione di rottura rispetto a quella tradizione. Quindi – detto con parole che loro certamente non userebbero – si chiedono fino a che punto si può cambiare? E se cambiamo oltre certi limiti siamo gli stessi o diventiamo diversi? Dopo i tanti secoli passati, a noi sembra abbastanza chiaro chi sono gli ebrei, chi siamo noi cristiani; ma ci è chiaro perché per venti secoli questa questione è stata elaborata, anche se nella realtà il rapporto tra ebrei e cristiani è talmente poco chiaro che non è mai stato così pacifico e sereno. Ma è sempre stato piuttosto complesso, perché il rapporto di continuità e discontinuità è il più difficile da elaborare.

Ciò che viene da culture completamente diverse può essere difficile da capire, ma non ci ferisce a livello identitario. Le culture orientali, per esempio, possono essere faticose da capire, ci possono apparire estranee, oppure sentirle molto vicine, ma non hanno su di noi una ricaduta identitaria. Il rapporto tra cristiani ed ebrei ha inevitabilmente una ricaduta identitaria molto forte. Da un certo punto di vista è la domanda che ogni adolescente si trova ad affrontare: «se divento adulto, se accetto la sfida di crescere, sarò ancora quello che sono o diventerò un altro che non si piace più?» Sappiamo tutti che prima che un adolescente riesca a formularla bene questa domanda – e quindi a farci la pace – intorno a lui tutti faticano un bel po’, essendo un’operazione non proprio lineare e indolore. Anche noi abbiamo questo problema rispetto agli ebrei.  Gli ebrei sanno chi sono, per loro noi siamo sbagliati, punto. Noi cristiani non vogliamo essere definiti sbagliati, ma ridurre tutto alla vecchia formula «gli ebrei ancora aspettano la venuta del Messia perché non hanno riconosciuto Gesù» lascia il tempo che trova. La lettera agli Ebrei cerca di spiegare ai cristiani dei primi secoli, ad un cristianesimo adolescente, perché si è contemporaneamente in continuità ma anche in discontinuità. Una rottura che rimette in gioco, che mantiene uguali ma contemporaneamente rende molto diversi è faccenda complicata, esattamente come il diventare adulto e tenere insieme il se stesso di prima e quello del dopo.

Come detto prima, intorno alla lettera agli Ebrei c’è una grande discussione e c’è una tradizione testuale non così unitaria. Per esempio, la lettera ai Romani, una delle fonti di distinzione tra luterani e cattolici romani, ha una storia molto più lineare, viene attribuita subito a San Paolo, anche se poi, secoli dopo, le interpretazioni divergono. Ma di per sé è una lettera dal linguaggio unitario, cosa che non è per quanto riguarda la lettera agli Ebrei.  È stata per un certo tempo attribuita all’Apostolo Paolo, ma non è sua: il linguaggio differisce molto da quello paolino, è difficile, molto vetero testamentario, con molti esempi tratti dal mondo ebraico. Perché istintivamente l’ho scelta? Perché ci porta al cuore della riflessione che stiamo facendo, che è difficile proprio perché è di quelle inevitabili con cui a un certo punto bisogna fare i conti. Noi diremmo che è una questione di fede, un punto in cui si deve decidere se accettare una rottura, oppure no. E su questa rottura ci si può muovere, scommettendo che sia creatrice, oppure – rispetto al potere – non muoversi, anche se si cerca di essere il più onesto possibile e non lo si usa in modo spregiudicato, ma si rimane dentro la logica del potere. Come dicono i miei studenti, c’è un punto in cui devi decidere se stai dentro la scatola o se esci dalla scatola, e se esci dalla scatola si gioca un altro gioco. La lettera agli Ebrei rompe il sesto sigillo perché ci dice questo: dentro o fuori la scatola.  Io ho scelto qualche brano, ma vi consiglio di leggere il capitolo 11 per intero, perché pone esattamente questa questione.

 

Il testo: Eb 11,1-3.8-16.32-40

11 1La fede è fondamento delle cose che si sperano e prova di quelle che non si vedono. 2Permezzo di questa fede gli antichi ricevettero buona testimonianza. 3Per fede, noi sappiamo che i mondi furono formati dalla parola di Dio, sicché da cose non visibili ha preso origine quello che si vede. (…)

8Per fede, Abramo, chiamato da Dio, obbedì partendo per un luogo che doveva ricevere in eredità, e partì senza sapere dove andava.

9Per fede, egli soggiornò nella terra promessa come in una regione straniera, abitando sotto le tende, come anche Isacco e Giacobbe, coeredi della medesima promessa. 10Egli aspettava infatti la città dalle salde fondamenta, il cui architetto e costruttore è Dio stesso.

11Per fede, anche Sara, sebbene fuori dell’età, ricevette la possibilità di diventare madre, perché ritenne degno di fede colui che glielo aveva promesso. 12Per questo da un uomo solo, e inoltre già segnato dalla morte, nacque una discendenza numerosa come le stelle del cielo e come la sabbia che si trova lungo la spiaggia del mare e non si può contare.

13Nella fede morirono tutti costoro, senza aver ottenuto i beni promessi, ma avendoli solo veduti e salutati di lontano, dichiarando di essere stranieri e pellegrini sopra la terra. 14Chi dice così, infatti, dimostra di essere alla ricerca di una patria. 15Se avessero pensato a quella da cui erano usciti, avrebbero avuto possibilità di ritornarvi; 16ora invece essi aspirano a una migliore, cioè a quella celeste. Per questo Dio non disdegna di chiamarsi loro Dio. Ha preparato infatti per loro una città. (…)

31Per fede, Raab, la prostituta, non perì con gli increduli, perché aveva accolto con benevolenza gli esploratori.

32E che dirò ancora? Mi mancherebbe il tempo se volessi narrare di Gedeone, di Barak, di Sansone, di Iefte, di Davide, di Samuele e dei profeti; 33i quali per fede, conquistarono regni, esercitarono la giustizia, conseguirono le promesse, chiusero le fauci dei leoni, 34spensero la violenza del fuoco, scamparono al taglio della spada, trovarono forza dalla loro debolezza, divennero forti in guerra, respinsero invasioni di stranieri. 35Alcune donne riacquistarono, per risurrezione, i loro morti. Altri, poi, furono torturati, non accettando la liberazione loro offerta, per ottenere una migliore risurrezione. 36Altri, infine, subirono scherni e flagelli, catene e prigionia. 37Furono lapidati, torturati, segati, furono uccisi di spada, andarono in giro coperti di pelli di pecora e di capra, bisognosi, tribolati, maltrattati – 38di loro il mondo non era degno! -, vaganti per i deserti, sui monti, tra le caverne e le spelonche della terra.

39Tutti costoro, pur essendo stati approvati a causa della loro fede, non ottennero ciò che era stato loro promesso: 40Dio infatti, per noi aveva predisposto qualcosa di meglio, affinché essi non ottenessero la perfezione senza di noi.

 

Commento:

  1La fede è fondamento delle cose che si sperano e prova di quelle che non si vedono. 2Permezzo di questa fede gli antichi ricevettero buona testimonianza.

In questi due versetti c’è già una base fondamentale, si costruisce una correlazione: la fede è fondamento delle cose che si sperano e prova di quelle che non si vedono. Queste due cose per noi sono un po’ strane perché la fede non può essere una prova, la fede nella nostra testa è una scelta; però la lettera agli Ebrei ci dice un’altra cosa, ci dice che l’esperienza della fede è fondamento e prova, cioè la mette da un’altra parte rispetto all’idea che ne abbiamo noi, figli del Novecento, cultori della centralità del soggetto, «scelgo di credere», «scelgo di non credere» e così via.  Dietro la lettera agli Ebrei c’è la mentalità ebraica: essere ebreo non è una scelta, è una condizione etnica, si è ebrei per sangue, non per scelta.

Qui si dice che la fede è condizione in cui siamo nati e per questo è fondamento e prova. Non è un’opzione, non c’è scelta, è il nostro carattere di base. Noi abbiamo perso totalmente questa dimensione, perché ci siamo spostati su un altro versante interpretativo, nella logica della scelta individuale. Infatti, alcune cose ci danno un po’ fastidio; fatichiamo a capire cosa significa – ad esempio – che alcuni sacramenti conferiscono il carattere, espressione medievale che non capiamo più. Col battesimo si diventa figli di Dio. Che tu sia un buono o cattivo figlio di Dio dipende da te, ma questo non toglie che sei figlio di Dio, perché tu sei quello. Puoi scegliere di essere il figlio con meno senso filiale dell’universo, ma quello sei. Come tutti sappiamo, questa è una cosa difficilissima da far capire agli adolescenti che in genere a questo tipo di ragionamento dicono «non è giusto, perché io devo essere libero, avete sbagliato a battezzarmi da bambino perché io non potevo scegliere!» Però questa è anche una delle prese d’atto dell’adultità: non scegliamo tutto. Soprattutto non scegliamo alcune cose fondamentali: chi siamo, la parte del mondo in cui siamo nati, per esempio. Se fossimo nati in Yemen non saremmo qui a deliziarci con la Parola di Dio; se fossimo nati in un paese povero forse saremmo morti entro i tre anni. Sulla “Repubblica” di oggi mi ha fatto grande tristezza la vignetta in cui una bimba diceva «nonna, perché sei così vecchia?» e la risposta della nonna: «perché una volta esisteva il servizio sanitario nazionale». Ed è vero che la mia generazione campa di più e in migliore salute, con una migliore qualità di vita, perché ci è stato dato in sorte di essere nati in un certo tempo e con alcune condizioni di esistenza.

Che cosa scegliamo davvero? E piuttosto ciò che siamo non è fondamento e prova? E l’essere figli di Dio – identificato con la fede, non con lo “sforzarsi di…” ma l’essere figli di Dio non è forse fondamento delle cose che si sperano e prova di quelle che non si vedono? Anche qui ci sarebbe da ragionare su cosa significa sperare e cosa significa non vedere.  La cosa interessante però è il versetto 2: per mezzo di questa fede – di questa idea di fede – gli antichi (che nella lettera agli ebrei sono i soggetti della prima alleanza), hanno ricevuto… il premio? La salvezza? La soluzione ai loro desideri? No, ricevettero buona testimonianza. Il frutto della fede è buona testimonianza, non quella che fa chi crede, ma la buona testimonianza ricevuta, occhi buoni per vedere ciò che accade, per vedere quello che si spera e quello che non si vede. La grazia, di cui parlavamo la volta scorsa.

3Per fede, noi sappiamo che i mondi furono formati dalla parola di Dio, sicché da cose non visibili ha preso origine quello che si vede.

Qui forse le orecchie post-moderne si congiungono alle orecchie degli antichi per sentire alcune cose che tutto il tempo intermedio forse ci ha impedito di sentire. I mondi furono formati dalla parola di Dio: sia la luce e la luce fu. Noi oggi, da buoni postmoderni, sappiamo della potenza della parola, della narrazione, sappiamo che è qualcosa che cambia la storia, perché dalle cose non visibili prende origine quello che si vede. La parola è non visibile, e la grande frattura è la Parola che prende carne.

Seguono alcuni versetti in cui si percorre la storia di Genesi da Abele fino ad Abramo, si racconta la storia di questa fede, di una fede non intesa come scelta; questi non sono esempi di fede – come spesso dicono i parroci – ma sono esempi della buona testimonianza di ciò che accade di fronte a fedi che hanno tutte le caratteristiche delle nostre lectio precedenti: parziali, pluriformi, inclusive, per vivere, per grazia. Se li leggete ritrovate tutti gli elementi di questo profilo che siamo andati costruendo, è il potere della fede.

8Per fede, Abramo, chiamato da Dio, obbedì partendo per un luogo che doveva ricevere in eredità, e partì senza sapere dove andava.

9Per fede, egli soggiornò nella terra promessa come in una regione straniera, abitando sotto le tende, come anche Isacco e Giacobbe, coeredi della medesima promessa. 10Egli aspettava infatti la città dalle salde fondamenta, il cui architetto e costruttore è Dio stesso.

11Per fede, anche Sara, sebbene fuori dell’età, ricevette la possibilità di diventare madre, perché ritenne degno di fede colui che glielo aveva promesso. 12Per questo da un uomo solo, e inoltre già segnato dalla morte, nacque una discendenza numerosa come le stelle del cielo e come la sabbia che si trova lungo la spiaggia del mare e non si può contare.

I versetti che ho scelto di leggere sono di nuovo versetti teorici come i primi tre, e sono inclusi nella storia di Abramo. La narrazione procede da Abele, con l’inizio «per fede» fino alla nascita di Isacco; seguono i versetti che leggeremo insieme, poi si riprende «per fede» dal sacrificio di Isacco.  In questa inclusione si dice:

13Nella fede morirono tutti costoro, senza aver ottenuto i beni promessi, ma avendoli solo veduti e salutati di lontano, dichiarando di essere stranieri e pellegrini sopra la terra. 14Chi dice così, infatti, dimostra di essere alla ricerca di una patria. 15Se avessero pensato a quella da cui erano usciti, avrebbero avuto possibilità di ritornarvi; 16ora invece essi aspirano a una migliore, cioè a quella celeste. Per questo Dio non disdegna di chiamarsi loro Dio. Ha preparato infatti per loro una città. (…)

La narrazione dice che nella fede morirono tutti costoro; a Roma si direbbe «cornuti e mazziati», nel senso che per fede sono usciti, sono andati, si sono fidati, hanno fatto tutte le scelte apparentemente giuste e poi muoiono come tutti… dunque qual è il guadagno? Pur non avendo conseguito i beni promessi, ma avendoli solo veduti e salutati da lontano dichiarando di essere stranieri e pellegrini sopra la terra. Questa è la condizione fondamentale: se uno è figlio ha una casa, e quella casa rimane la sua casa; non è una casa all’indietro, è una casa in avanti. Per questo Dio non disdegna di chiamarsi loro Dio e ha preparato per loro una città.

Qui il cerchio si chiude con il primo testo di Apocalisse che abbiamo affrontato, la Gerusalemme celeste che scende dal cielo, la città preparata che contiene anche il paradiso terrestre. Come abbiamo detto più volte scherzando, l’essere figli è una condizione faticosa perché abbiamo un’anima extra large in una vita small e questo ci rende incapaci di stare tutti lì dove siamo, di considerarci arrivati. Essere figli in fondo, per dirla con il linguaggio del Novecento, custodisce un desiderio, annuncia la relatività di tutti i poteri: del potere bisogna occuparsi, va coltivato secondo profili generativi, ma non va mai preso troppo sul serio perché è relativo rispetto alla fede e questa è forse la cosa più difficile di fronte a cui siamo posti.

I versetti successivi riprendono le storie di Abramo, Isacco, Giacobbe, Giuseppe, fino a Mosè e tutta la sua vicenda, il Mar Rosso, le mura di Gerico. L’ultimo esempio di fede è Raab la prostituta:

31Per fede, Raab, la prostituta, non perì con gli increduli, avendo accolto con benevolenza gli esploratori.

Un gesto di accoglienza sigilla tutte queste storie, che cominciano dal sacrificio di Abele e finiscono con la figura di Raab che, poiché ha accolto gli esploratori non muore nella caduta di Sodoma.

32E che dirò ancora? Mi mancherebbe il tempo se volessi narrare di Gedeone, di Barak, di Sansone, di Iefte, di Davide, di Samuele e dei profeti…

Questo racconto è impressionante, pieno di immagini per dire tutto il bene possibile, la potenza, la capacità, la soluzione dei problemi, dalle fauci dei leoni alle battaglie, la risoluzione e insieme il fallimento, perseguitati, scherniti, segati… Il massimo della forza e il massimo della debolezza.  Nella scrittura si legge spesso che manca il tempo di narrare le “mirabilia dei”. Ma qui non si tratta delle “mirabilia dei”, qui sono le mirabilia ma anche i disastri, hominum. Gli uomini e le donne hanno fatto cose bellissime e cose orrende gli uni agli altri.

Forza e debolezza stanno in una impossibilità di riassumere tutto perché gli uomini e le donne hanno un potere, che può essere generativo o distruttivo e questa è questione nostra, è la questione delle opere e dei giorni della storia, delle cose che accadono per fede. Per fede non si ottiene solo il bene, per fede si può anche subire il male, entrambi fanno parte della stessa dinamica. Il potere di raggiungere il bene non è il criterio discriminante, e qui risuona il testo paolino «Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Sarà forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada?» In altre parole, l’irrilevanza di ciò che accade rispetto all’identità, a ciò che si è. E la conclusione è:

39Tutti costoro, pur avendo ricevuto per la loro fede una buona testimonianza, non conseguirono la promessa: 40Dio aveva in vista qualcosa di meglio per noi, perché essi non ottenessero la perfezione senza di noi.

È molto interessante: ci sta la lettura secondo cui gli ebrei aspettano ancora il messia perché non hanno riconosciuto Cristo, quindi non vedranno il compimento delle promesse senza di noi, che abbiamo capito tutto. Oppure c’è una lettura un po’ più seria: ciò che hanno ricevuto per la loro fede è una buona testimonianza – non il compimento delle promesse. Pensate a ciò che dice Bonhoeffer, «Dio non porta a compimento tutti i nostri desideri, bensì tutte le sue promesse» che è un po’ diverso. Cioè: che cosa ci aspettiamo? Il potere per fare che cosa? Per vivere? Per far vivere? Qual è la buona testimonianza che abbiamo ricevuto?

40Dio infatti, per noi aveva predisposto qualcosa di meglio, affinché essi non ottenessero la perfezione senza di noi.

La differenza non è tanto nel riconoscere a parole Cristo figlio di Dio, ma è nel tempo che ancora ci è dato in questa storia che continua. Quella in cui c’è da chiudere le fauci dei leoni, spegnere la violenza del fuoco, scampare al taglio della spada, trovare forza nella debolezza, diventare forti in guerra, respingere invasioni di stranieri e insieme essere torturati, subire scherni e flagelli e tutto il resto che ne consegue. Questa è la perfezione che essi non hanno ottenuto senza di noi, senza che anche la nostra storia avesse il tempo di poter essere scritta in questo lungo elenco di mirabilia degli uomini. Perché senza il tempo che abbiamo ancora non arriverà il regno di Dio. Senza la nostra storia, in cui usare un potere generativo e possibilmente non distruttivo, sapendo che, da un certo punto di vista, non è così rilevante.

Questo testo è molto complesso ma anche molto bello, perché ci costringe a rifarci le domande di sempre: cos’è la nostra fede? Di che cosa parliamo quando diciamo che abbiamo fede o che non abbiamo fede? Ci riferiamo al compiere alcuni precetti, seguire alcune norme, sentirci identificati in una comunità – che sempre meno ci fa sentire identificati? Che cosa significa avere fede? È una scelta, per cui ci sembra di aver fatto tutti i compiti, quindi ci meritiamo un buon voto? Qual è l’esperienza in cui riceviamo buona testimonianza? E qual è la buona testimonianza che riceviamo? Io credo che questa sia una bella domanda su cui vale la pena di riflettere ancora.

Fossano, 6 aprile 2024

Testo non rivisto dall’autore

 

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