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11 Marzo 2006
Stella Morra

5. MADRI DI UN VIAGGIO

Commento a: Lc 1, 39-56


Premessa

Continuiamo la riflessione sul tema del viaggio con una lectio consolante.

Nei primi tre brani, tratti dall’antico testamento, abbiamo visto la fenomenologia umana del viaggio, alcuni aspetti dei movimenti profondi che un viaggio mette in gioco. La volta scorsa, fermandoci sugli strani viaggi dei Magi e di Giuseppe, abbiamo iniziato la seconda metà del percorso e cerchiamo di entrare in una riflessione cristiana più specifica a partire sempre dal tema del viaggio, ma del viaggio nel suo valore di esperienza alla sequela del Signore Gesù, della sua incarnazione, della sua morte e Resurrezione. Oggi leggeremo la seconda metà del capitolo primo di Luca, un racconto molto noto: la visitazione e il Magnificat.

Come spesso accade, nei testi contano anche i pretesti, sia nel senso di occasione, sia nel senso di ciò che è prima del testo, pre-testo.

Questo brano riguarda due donne: Maria ed Elisabetta ed il loro due figli, certo non due figli qualsiasi, Giovanni Battista e Gesù il Cristo. Lo sguardo, però, si ferma sulle donne; i figli non ci sono ancora, sono di là da venire. Fermarsi sulle due donne non è un dato casuale. Sappiamo che, nella cultura che ha prodotto i vangeli, le donne non avevano un ruolo pubblico, di primo piano, dunque non si narrava di donne se non per motivi particolari. Nella Bibbia troviamo figure di donne, ma sempre connesse ad un significato preciso, perché non sono protagoniste nella cultura.

Negli studi esegetici degli ultimi vent’anni è cresciuta molto l’attenzione alle donne, e delle donne;  c’è stato un periodo in cui tutte le donne studiavano solo le donne e nient’altro, quindi c’è una gran quantità di testi che riguardano le figure femminili nella Bibbia e vi si  trova un po’ di tutto: cose interessanti e convincenti, altre esagerate…

Quelli di Luca e Giovanni sono i due vangeli che hanno una maggior attenzione ed una maggior presenza delle donne. In Giovanni è abbastanza chiaro: per lui, le donne sono l’altra metà della fede. La fede ha due facce, due caratteristiche: una più istituzionale, che in genere serve, ma non capisce, ed è rappresentata dai discepoli; l’altra, la parte non riconosciuta, non istituzionale, che non ha un volto pubblico, ma è l’aspetto vitale della fede, è rappresentata in modo specifico dalle donne, poi dai peccatori e dagli stranieri, da tutti quelli che non c’entrano. La situazione classica è che, in tutti gli incontri, i discepoli non capiscono e le donne sì. Alla Risurrezione, nel racconto di Giovanni, arrivano prima le donne…

In Luca, invece, il testo che leggiamo oggi, è un po’ diverso: ci sono delle donne, ma soprattutto c’è l’imponente figura di Maria, la donna. Quasi tutto ciò che sappiamo di Maria viene dal vangelo di Luca, che ha grande attenzione al vangelo dell’infanzia. La figura di Maria, da questo punto di vista, è un po’ ingombrante; è vero che è una donna, ma è anche vero che, per come è stata accolta e riconosciuta da tutta la tradizione credente, diventa quasi una semidea, non tanto una donna normale, ha una serie di privilegi. E’ come se il suo essere madre di Dio andasse a scapito del suo essere donna.  E’ più importante il fatto che sia questa donna così splendente, particolare, che non il fatto che sia una donna!

Madre

Oggi dovremo fare lo sforzo di ascoltare il testo come se fosse la prima volta, lasciando da parte la risonanza che abbiamo nelle orecchie. Qui si tratta di una donna, Maria, e di sua cugina, Elisabetta, che sono innanzitutto delle donne, e delle donne in un passaggio complesso della loro vita: quello di una maternità. Maria ha appena ricevuto l’Annunciazione, Elisabetta è già avanti nella sua gravidanza. E queste due madri si incontrano.

Mi sembra che, leggendo questo brano, potremmo chiederci che viaggio bisogna fare per diventare da donne, madri; ma anche da maschi, a madri! Qual è il viaggio per diventare da esseri con un corpo, sessuati, che hanno un nome di identità su se stessi, a esseri che hanno un nome di identità in relazione ad un altro? ‘Donna’ è un termine che si regge da solo, ma ‘madre’ deve essere in relazione a qualcuno.

E’ un tema serio e delicato. Per molto tempo ci è stato detto che essere madre è una cosa naturale, legata semplicemente ad un fattore biologico. Le donne diventano madri, hanno il desiderio e l’istinto di maternità; i maschi non diventano madri; al massimo diventano padri perché si assumono una responsabilità… E sembrava naturale. Per molto tempo abbiamo semplicemente incamerato questa questione; se la donna non diventava madre, era lei stessa che aveva qualche disfunzione, qualche problema. Forse proprio questo testo già da tempo doveva mettere nell’avviso che la questione non è così come sembra,  solo un fatto biologico. C’è un viaggio da compiere, ci sono molti modi di essere madri. C’è una maternità, forse quella decisiva, che non ha quasi niente a che fare con la biologia. Una maternità che, certo, consente anche di essere buone madri e padri biologici, ma di cui, l’essere buoni padri e madri biologici, è solo il sacramento…il vero viaggio si compie da un’altra parte!

Vi chiederei di ascoltare questo testo con una domanda non tanto su Maria e le sue doti, ma su che viaggio si compie dall’avere un nome che si definisce in se stesso, all’avere un nome che si definisce in relazione con qualche cosa che si è generato. Qual è il viaggio che unisce questi due passaggi?

In quei giorni… in viaggio… in fretta

Ai miei orecchi questo testo è bello. Innanzitutto è molto semplice, un racconto piano, senza costruzioni complesse, colpi di scena o grandi effetti. Come si può notare dai testi scelti per il percorso di quest’anno, il mio percorso personale mi sta portando da testi complessi, articolati, intellettuali, a testi sempre più semplici, a racconti per bambini; forse tornerò a cose complicate, non lo so.  Mi piace molto questo tono in cui le cose profonde, serie dell’esistenza sono raccontate con la stessa voce con cui si direbbe una cosa banale, quotidiana.

Nel primo versetto troviamo una specie di riassunto di tutta la strada che abbiamo fatto fino qui.

“In quei giorni Maria si mise in viaggio verso la montagna e raggiunse in fretta una città di Giuda”.

In quei giorni…” vuol dire: proprio allora, in un determinato momento; un viaggio non è un dato generico, non ci si mette in viaggio in teoria, ma c’è un momento preciso che è la partenza. Fino ad un momento prima eri fermo, poi ti metti in movimento. Bisogna sapere quali sono i nostri giorni, qual è il giorno in cui bisogna mettersi in viaggio. Ci si può organizzare, pensare, prepararsi, ma poi c’è il momento concreto della partenza.

“…Maria si mise in viaggio…” Mettersi in viaggio…bella espressione! Uno si mette nella condizione di…Prende se stesso e si mette in viaggio.

“…verso la montagna…” guarda caso c’è sempre una montagna da scalare! Non si può viaggiare in discesa; i viaggi sono sempre verso la montagna, perché il viaggio è una condizione in salita, faticosa, precaria.

“…e raggiunse in fretta…”  si potrebbe leggere tutta la scrittura sottolineando tutte le volte che c’è scritto la parola fretta. La fretta è l’etichetta, il segnale della salvezza che passa. In tutta la scrittura, ogni volta che c’è una fretta c’è una salvezza. La salvezza prende sempre alla sprovvista; per quanto uno lo abbia desiderato, sperato, invocato, costruito, quello che succede davvero, arriva quando meno te lo aspetti. Succede come per gli amori: arriva da altrove, da un altro tempo, da un altro luogo. Tu lo riconosci, sai che era quello, però… ‘proprio adesso?!’… ti coglie sempre alla sprovvista.

La cena di Pasqua, secondo la prescrizione di Esodo, si mangia con i piedi calzati, il vestito cinto, il bastone in mano, pronti alla partenza; si deve mangiare pane azzimo perché non c’è stato il tempo per farlo lievitare, e da quattromila anni non si è mai avuto tempo! Non c’è il tempo! Non ci sarà un viaggio in cui non sia mancata una settimana per prepararsi!….. La salvezza funziona così, arriva da altrove. Fortunatamente la salvezza non è nel governo della nostra programmazione.

Credo che su questo tema bisognerebbe ragionare con grande forza, perché la potenza culturale del nostro programmare è molto forte. Siamo tutte persone con la previdenza sociale, la pensione, l’assicurazione… E’ giusto, è un atto di responsabilità rispetto al futuro e a se stessi, ma ce l’abbiamo anche nella testa e non solo nelle cose; abbiamo l’idea che ognuno può comunque assicurare se stesso. La salvezza, invece, sta sotto il segno della fretta e allora, probabilmente, bisogna avere la capacità di lasciare uno spazio in cui la fretta possa agire, perché se ci si organizza troppo, poi non c’è proprio più spazio! Se tutto è organizzato, pianificato, non c’è più spazio per l’inatteso. Questo versetto è il riassunto del percorso fatto fin qui, sotto questo tono meraviglioso della fretta. Noi non abbiamo più la fretta della salvezza, perché tutto è pianificato, ma abbiamo l’impazienza!

Dono del padre, dono della madre

“Entrata nella casa di Zaccaria, salutò Elisabetta”.

E’ carino! La casa è di Zaccaria, ma la persona che Maria saluta è Elisabetta!

Qui c’è tutta la differenza tra patri-monio e matri-monio. ‘Monio’ viene da munus, dovere, compito. Allora patrimonio è il compito del padre e matrimonio è il compito della madre. Guarda caso, in italiano sono due belle parole! Raramente  le abbiamo messe insieme, ma hanno la stessa struttura. Qui c’è tutto il patrimonio e il matrimonio: la casa è di Zaccaria, ma la persona che si incontra è Elisabetta!

Attenzione: tutte e due le cose, patrimoni e matrimoni, sono necessarie a vivere. E ciascuno di noi è un po’ padre e un po’ madre. E, tra l’altro, – non vorrei esagerare con il gioco delle parole – ma il dono delle cose è dono del padre, il dono della vita custodita è dono della madre. E stabiliscono ognuno di noi già in uno stato di relazione. Non è il dono dell’uomo, e il dono della donna; è il dono del padre e quello della madre.

Ognuno di noi è padre per una parte, perché ha nella sua vita un patrimonio, cioè cose, lavoro, produttività; ognuno di noi è madre perché ha comunque un’intimità, degli affetti, una vita da custodire; e queste due attività non sono solitarie, sono già nomi di relazione. Noi abbiamo una relazione con le cose nel nostro patrimonio, con la casa, il denaro, il lavoro, la produttività, il possesso…che ci è data non come ‘io e le mie cose’, ma come ‘io e le mie cose per generare vita, per essere padri’. E la relazione con le cose nel matrimonio  non come ‘io e i miei affetti’, ma ‘io e i miei affetti per generare vita, per essere madri’.

Sussulto di gioia

“Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino le sussultò nel grembo”.

Non so  che effetto faccia a voi il suono di questo versetto. Sta un po’ tra il racconto per bambini – appena il principe baciò la principessa, lei si svegliò dal lungo sonno… – e il tono un po’ magico…Un racconto a metà tra la fiaba e il tempo eccezionale, che è nel Vangelo… Ovviamente non funziona così. Il Vangelo non è una cosa un po’ strampalata, in cui succedevano cose strane. Al di là del genere letterario, rappresenta la nostra storia, narra la vita così com’è, guardata attraverso la trasparenza, essendo padri e madri in relazione con una vita più grande di noi, non essendo semplicemente appiccicati alle cose, nemmeno alla  nostra intelligenza, al nostro cercare di capire.

“Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino le sussultò nel grembo”…

Se uno dicesse queste cose con un altro genere letterario, improvvisamente vedremmo ciò che significa.

“Appena una parola è scambiata sul serio e ci tocca il cuore, la vita che siamo in grado di generare comincia a nascere”.

Il saluto di Maria, udito da Elisabetta, è lo spazio di una parola scambiata; di una parola vera, non di una chiacchiera. Una parola vera non vuol dire necessariamente una parola pia. La nostra vita ha sussultato tutte le volte che ci è capitato di sentirci profondamente ascoltati, e di sentire che il pezzo di verità che faticosamente stavamo cercando di dire di noi, era colto dall’altro in libertà, con affetto, senza giudizio.

Maria ed Elisabetta fanno questo piccolo miracolo, riassunto nel genere letterario di un saluto scambiato. E’ chiaro, qui succede prima della psicanalisi. Luca non poteva scrivere: ‘appena la seduta di autocoscienza tra le due donne raggiunse il suo livello di tranfert…’ Non era possibile, non c’entra niente.

Per poter capire che cosa significa un saluto scambiato, perchè non sembri solo un gesto magico, noi abbiamo bisogno di qualche parola in più. E’ veramente lo spazio che si instaura nella parola scambiata.

Pensate nella scrittura quante volte c’è una parola scambiata che dà origine ad altro. Il caso classico sono i due di Emmaus. “Di che cosa andate discorrendo tra voi?” Se i due discepoli fossero stati zitti, il viandante silenzioso, che poi si rivelerà essere Gesù, non avrebbe avuto niente da chiedere loro. I due parlano, e poi scambiano la parola con lui; e viene loro restituita la spiegazione delle scritture, e il cuore scaldato.

Pensate, per esempio, alla parola scambiata tra Gesù e il buon ladrone. Solo perché quello ha fiato per dire all’altro ladrone di stare zitto, e per invocare la situazione estrema: ‘ricordati di me’…, per lanciare questo ponte, questo sbilanciamento, uscita da sé che è una parola scambiata! – Secondo la nostra cultura dovremmo dire: una parola scambiata dovrebbe sempre essere l’uscita dal proprio narcisismo. Ma spesso non sappiamo più parlare, e le nostre parole sono chiacchiere, perché sovente le nostre parole sono un esercizio di narcisismo proiettato. Proiettiamo su schermo panoramico invece di lasciare  l’umano narcisismo dove sta e fare un salto fuori.

Nella scrittura la parola scambiata apre sempre uno spazio. E in questo spazio il bambino sussulta in grembo. C’è forse un’altra immagine, per dire quello che tutti noi vorremmo continuamente: che la nostra vita più profonda avesse un sussulto? Che questa vita segreta, quella che non ha  ancora gambe e braccia, ma neanche autonomia; quella che è ancora tutta nostra, che è la nostra vita del desiderio profondo, la vita che sta tutta contenuta in noi, la nostra verità più profonda, avesse una botta di vita, una voglia di muoversi, di essere altro?

Tutti, in fondo, passiamo tutta la nostra esistenza nella lunga gravidanza di noi stessi, a concepire noi stessi; e ci raccontiamo un sacco di storie con i nostri patrimoni e matrimoni per cercare di non essere condotti al doloroso momento del parto. Per cui cominciamo a definirci la moglie di qualcuno, il marito di qualcuno, il professore, piuttosto che l’avvocato, il dottore, il medico; ci mettiamo un sacco di sostantivi per darci un nome: la madre o il padre di qualcuno, per non essere costretti ad ascoltare questa vita segreta che è la nostra più profonda… e che abbiamo paura di non farcela a generare!

Dono da altrove, l’inatteso

“Elisabetta fu piena di Spirito Santo”.

Fino qui, fino al sussulto della nostra vita in grembo, stiamo ancora parlando di qualcosa che è l’esperienza comune della vita umana quando è profondamente vissuta, che può essere il frutto di una vita buona. Poi c’è un salto di qualità, c’è qualcosa che viene da altrove, c’è questo Spirito Santo, che nei primi capitoli di Luca ha molto da fare.

Anche noi abbiamo un bel po’ confusione da toglierci dalla testa. Questo Spirito Santo è un po’ strano: una colomba, la terza persona della Santissima Trinità, l’amore che unisce il Padre al Figlio?!Sì! Tutte bellissime definizioni. Ma… che cos’è? Quanto al Padre, la potenza di Dio creatore, uno riesce ad avere nella testa un luogo dove collocare Dio Padre. Gesù è più facile; il Cristo, il Salvatore, morto in croce, la sua vita umana. Sì, va bene. Ma lo Spirito Santo, che cos’è?… Credo che questo sia uno dei motivi per cui spesso fatichiamo così tanto nella nostra vita di fede, perché non abbiamo proprio un posto nella testa, nell’immaginario, dove mettere questo Spirito Santo, e non tanto in termini intellettuali, ma vitali, rispetto alla nostra vita di fede. Che cos’è, come si muove?

Qui, credo, sta la differenza tra credenti e non credenti. Per dirla in modo banale, qui sta uno dei pochi luoghi  in cui fa differenza se uno crede in Dio, Padre di Gesù Cristo e nel suo Spirito, rispetto a non credere.

Lo Spirito Santo è il dono che viene da altrove, l’inatteso che viene chiamato fuori da me come una possessione – uso volutamente questo termine perché noi abbiamo in testa solo la possessione demoniaca, l’essere indemoniati. Lo Spirito Santo è l’inatteso che viene chiamato fuori da me e che, non essendo dato dalle premesse iniziali, pure io riconosco come profondamente me. E’ quella vita in più che io non mi posso dare da solo, che è totalmente nuova, e che non poteva venire semplicemente dalle premesse – la mia cultura, la mia educazione, il mio migliorare, ecc – ma che, quando si attua, io la vedo e so che è la mia, non è un qualcosa di estraneo, di aggiunto.

Per questo la tradizione della chiesa ha sempre attribuito allo Spirito Santo, in forma di doni, tutte le azioni che riguardano la sapienza: intelletto, consiglio, discernimento; tutte le azioni che riguardano la parola: interpretazione, ispirazione, ascolto; tutte le azioni che riguardano il rendersi conto di…: riconoscere in me un dono e farlo fruttare per tutti… Lo Spirito Santo ha sempre avuto questo  campo d’azione. Si parla di discernimento dello Spirito, di dono dell’intelletto, della sapienza, del consiglio, di interpretazione, ispirazione della scrittura, dei profeti.

Lo Spirito Santo è colui che abita questo spazio di parola scambiata e che ne trae qualcosa, quella vita che sussulta, che non era data dalle premesse, ma che, nel momento in cui accade, io riconosco, discerno che è la mia, è quello che stavo cercando senza saperlo. Che è proprio lì!

Questo è uno dei punti su cui fa differenza essere credenti o no: agire la propria vita, il proprio patrimonio e il proprio matrimonio con la certezza che prima o poi, da qualche parte, lo Spirito Santo farà fiorire la mia vita in un modo che non si poteva ricavare dai dati che sono in campo – il mio impegno, il mio riflettere, il mio scegliere -; con la certezza che riconoscerò questa vita fiorita come qualcosa  che è me. Credere senza dubitare che lo Spirito Santo agisce; questo fa differenza!

Benedizione

“…ed esclamò a gran voce: “Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo!”.

La prima azione generata dallo Spirito Santo è una benedizione. Tutta la tradizione spirituale dice che il primo frutto,  criterio per il discernimento degli spiriti, quali vengono da Dio e quali no, è chiaro: lo Spirito frutta benedizione. Benedire e non maledire. Diciamo vita spirituale e vuol dire vita nello Spirito Santo! Una vita normale che scommette su questo sovrappiù inatteso, una vita che si costruisce non appoggiandosi su ciò che possiede, che ha, che capisce, che sa, ma si appoggia decentrata, su quello che non c’è ancora, ma sa che ci sarà!

Non è un caso che, ancora recentemente, sia stato riformato il libro delle benedizioni, il benedizionale, ritornando alla prassi antica del cristianesimo che declericalizza la benedizione, la toglie dallo stretto potere del ministero e la moltiplica. Ci sono benedizioni per qualsiasi dato o situazione della vita. Benediciamo, diciamo il bene di una vita che, siamo certi, fiorirà!

La benedizione a partire dagli aspetti più quotidiani, – ci diceva don Mario Picco: se uno ti dice Sei scemo, la risposta da dare è: però, hai una bella voce! Che lo smonta clamorosamente – andare a cercare il pezzo di buono che c’è in ogni cosa che accade, questo è il gesto base della benedizione ed è un gesto che si impara, non è una cosa innata.

  Tutti nasciamo con innato un senso di ‘giustizia’; ma ad essere persone con gli occhi che benedicono si impara! Sappiamo tutti quanto sia stato cosa benedicente, quanto abbia fatto crescere le nostre vite, l’aver incontrato chi benediceva!

Da questo aspetto in poi, secondo la fantasia dello Spirito, dire bene, benedire la nostra vita e quella altrui, la vita che incontriamo e che siamo chiamati a riconoscere come nostra nello Spirito. Ma non in astratto, in teoria. In realtà pensiamo che sia una cosa bella, però, quando ti trovi lì, nella situazione concreta, il criterio non è benedire, ‘quello ti frega, l’altro è isterico l’altro ti tratta male…’

Benedetta sei tu e benedetto il frutto del tuo grembo”.

Questa preghiera che ci hanno insegnato a recitare fin da bambini nell’Ave Maria, che fa parte della struttura più infantile della nostra fede, sarebbe l’asse portante di una vita adulta cristiana. Da cosa si riconosce, qual è il frutto di una vita nello Spirito di un adulto cristiano? Il frutto è che benedice ogni persona che incontra e la sua vita, il frutto del suo grembo. Un conto è benedire gli altri, ma voler bene alla loro vita, come loro la vivono, come loro la generano, come loro sono capaci di nutrirla, è molto difficile!

Parola scambiata … spazio per lo Spirito

“A che debbo  che la madre del mio Signore venga a me?”.

In questa frase apparentemente semplice e che noi attribuiamo al caso unico nella vita: l’incontro tra Maria ed Elisabetta, c’è un equilibrio; di solito saltiamo il versetto, perché è ‘lapalissiano’…ma ci sono diverse cose che sono ben serie per noi.

“A che debbo…” Dobbiamo qualcosa? A qualcuno? La nostra domanda, normalmente, quando improvvisamente arriva qualcuno è: che vuoi? Se siamo molto gentili chiediamo: che ti serve?  Elisabetta chiede: ‘a che debbo?’. E’ chiara la differenza. Il problema dell’altro, della storia che ci visita non è ‘cosa vuole la vita’, ma ‘a che cosa dobbiamo che la vita ci abbia visitati?’.  Il problema non è l’altro, sono io.

E poi, “A che debbo che la madre del mio Signore…” Riconosce nell’altro la sostanziale uguaglianza alla propria maternità. Non è un estraneo, uno sconosciuto, è madre, come lei sta per diventare madre!

“Ecco, appena la voce del tuo saluto è giunta ai miei orecchi, il bambino ha esultato di gioia nel mio grembo”.

Caso mai uno si fosse distratto, Luca ripete, ampliando ciò che aveva detto al versetto 41.

La parola scambiata crea lo spazio allo Spirito Santo. E’ una parola riconosciuta, io so che mi hai salutato, perchè questa è l’opera dello Spirito Santo: mi fa riconoscere e, attenzione, la vita non solo sussulta –io penso spesso che vorrei un sussulto nella mia vita, e ne sarei molto felice – ma il bambino ha esultato di gioia! Un tipo di sussulto ben preciso, quello della gioia! In mezzo c’è lo Spirito Santo. Il sussulto della nostra vita in una gioia perenne è ciò che trasforma la parola scambiata in parola riconosciuta, accolta. E’ l’essere pieni dello Spirito Santo, fare fiducia sulla vita che ci viene donata e non ci sarà fatta mancare.

Ci hanno insegnato al catechismo che nel Battesimo siamo segnati con lo Spirito Santo e che questo non ci può essere tolto: si chiama carattere. Non c’è modo di essere tanto cattivi cristiani da essere sbattezzati, non ci si può sbattezzare! Abbiamo ricevuto il sigillo dello Spirito  Santo e nulla ce lo può togliere. Abbiamo ricevuto la possibilità che, se mettiamo in atto la parola scambiata, questa si trasformi in parola riconosciuta, e se lasciamo che la nostra vita sussulti, questo sussulto diventi un’esultanza di gioia. E dunque il frutto non è più semplicemente la benedizione, ma è “Beata colei che ha creduto nell’adempimento delle parole del Signore”. A questo punto si capisce: non è più solo benedetta tu fra le donne, ma è beata tu che hai creduto nell’adempimento delle parole, e qui sono quelle dell’Annunciazione; hai creduto a questo dono dello Spirito Santo.

Il dono dello Spirito Santo

Mi sono molto soffermata su questi primi versetti, per cui dico solo più poche parole sul Magnificat, testo molto conosciuto e che meriterebbe una lectio da solo.

“Allora Maria disse:…”

In questa ‘parola scambiata’, la parola di benedizione e di beatitudine viene detta da Elisabetta, e Maria risponde.

E’ uno dei testi più studiati. Nella dinamica delle due donne, madri di un viaggio, che cosa ci dice? Sia Maria che Dio hanno più dimensioni: l’anima mia, il mio spirito, così come Dio ha la misericordia e la potenza, cioè chi si mette in viaggio non è mai una persona ad una dimensione. Diventiamo complicati? Sì. Ma diventiamo anche capaci di ricevere misericordia e potenza, capaci di avere un’anima, ma anche uno spirito.

Siamo gente che ha una profondità tridimensionale. Non abbiamo solo il fuori, la faccia che il mondo vede ed il dentro, quello che sono io. Siamo persone che hanno il fuori, il dentro e lo Spirito Santo, che moltiplica e ci fa tanti piani, per cui c’è spazio per tante cose  e possiamo avere grande gioia e grande dolore contemporaneamente perché abbiamo tanti piani diversi; possiamo avere tante amicizie molto diverse tra loro; possiamo amare la vita della gente, avendo una vita molto diversa. Non abbiamo bisogno di essere narcisisti, monodimensionali, capaci di amare solo ciò che è uguale a noi, ma possiamo essere plurali e avere posto per tante cose diverse.

Questo canto ha due parti. In una Maria dice di sé, della propria vita fiorita e nell’altra dice dell’ordine del mondo che è strato rovesciato.

“…ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore; ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili; ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato a mani vuote i ricchi.”

La vita che fiorisce non è mai solo la nostra. Questo è un altro grande mistero dello Spirito Santo. Se la mia vita fiorisce, se non è narcisistica, la vita intorno a me fiorisce e gli ordini si rovesciano, perché questo è ciò che opera lo Spirito.

“Maria rimase con lei circa tre mesi,  poi tornò a casa sua”.

Questo versetto chiude mirabilmente l’incontro tra due madri. Un viaggio è capace di rimanere e di andarsene. Si può rimanere con lei e poi ritornare a casa propria… e lasciare!

Il mio augurio è che queste due donne ci facciano compagnia verso la strada di Pasqua. Pasqua è laddove la vita fiorisce in modo definitivo sulla morte, fiorisce in modo radicale. Gesù risuscita e per partecipare alla morte e risurrezione di Gesù Cristo dobbiamo tutti diventare un po’ madri di una vita segreta e lasciarla fiorire.

Fossano, 11 marzo 2006

(testo non rivisto dal relatore)

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