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6 Maggio 2006
Stella Morra

7. STRANI INCONTRI

Commento a: At 9, 1-19


Premessa

Eccoci all’ultima tappa del nostro ‘viaggio nel viaggio’. Leggeremo i primi diciannove versetti del capitolo nove del libro degli Atti, testo molto conosciuto della conversione, o vocazione di Paolo.

Per riprendere un po’ le fila… I primi tre incontri, attraverso tre testi dell’Antico Testamento, sono stati dedicati a mettere in luce gli aspetti più umani, antropologici, comuni a tutti del viaggiare non solo materialmente, ma dell’intraprendere il santo viaggio, dell’essere in movimento, in un processo, in un divenire, il non essere sempre uguali a se stessi.

I tre testi successivi, quello dei Magi, quello di Maria che fa visita ad Elisabetta e quello  dei discepoli chiamati a seguire Gesù, ci hanno introdotto alle dimensioni più cristologiche del viaggio: che cosa dice ‘di nuovo’ il cristianesimo su questa attitudine umana del muoversi, del cambiare, del non rimanere sempre uguali a sé. La parola dell’evangelo dice qualcosa ad ogni pezzo della nostra vita; interpella, interpreta, ripropone trasformandola  – come sempre, senza negarla ma facendola crescere, fiorire – la dimensione umana del viaggiare.

Questo ultimo testo è una specie di punto di arrivo. Non nel senso … ‘finalmente abbiamo capito tutto’, perché negherebbe ciò che abbiamo detto fin’ora; ma si propone come il dire: bene, tutti gli uomini cambiano; c’è una parola del vangelo che interpreta, fa fiorire il viaggiare, il cambiare e allora, quale conclusione ne traiamo?

Viaggio… vocazione

“Saulo frattanto, sempre fremente minaccia e strage contro i discepoli del Signore, si presentò al sommo sacerdote e gli chiese lettere per le sinagoghe di Damasco al fine di essere autorizzato a condurre in catene a Gerusalemme uomini e donne seguaci della dottrina di Cristo, che avesse trovati”.

Questo versetto non si legge mai nella liturgia, perché, come sempre, si tagliano alcune  parti un po’ troppo dure. Tagliare la testa alle pericopi della scrittura è sempre un pessimo affare; il modo di scrivere antico metteva nell’inizio il titolo; noi in genere tagliamo la testa, poi mettiamo un titolo, facendo un ammorbidimento perchè non faccia impressione. La scrittura era più diretta, usava titoli anche duri.

Leggendo il testo tutto intero e con attenzione, spero che suoni con un tono diverso dal ricordo che ne abbiamo tutti nella testa. Noi non abbiamo il testo, ma la figura della bibbia che leggevamo da bambini o la figura della pagina del catechismo: l’immagine del cavallo imbizzarrito da cui Saulo viene disarcionato e la frase “Saulo, Saulo perché mi perseguiti?”. Come spesso accade con la scrittura, nei confronti dei testi più noti, abbiamo nella mente immagini che in realtà non hanno lo stesso accento del testo. Spero abbiate sentito quanti verbi di camminare, viaggiare, strada, andare e venire ci sono in questo testo!

Nella versione della CEI  questo testo si intitola: la vocazione di Saulo, oppure è conosciuto come la conversione di Saulo. Queste due parole, vocazione e conversione, dovrebbero farci pensare: sono parole del linguaggio tipicamente religioso, non le useremmo per altre espressioni, per cui potremmo dire: dato che gli esseri umani cambiano, e dato che l’evangelo ha una parola sul nostro cambiare, che riguarda il fiorire della nostra vita, il vero viaggio dei cristiani si chiama vocazione?

Abbiamo visto che gli esseri umani hanno una tendenza a muovere, a cambiare, a non rimanere fermi – e se rimangono fermi inaridiscono; l’evangelo ha su questo, come su tutte le dimensioni della nostra vita, una parola di benedizione, dice qualcosa che purifica questo istinto umano e lo fa fiorire … perché possiamo avere più vita! Lo abbiamo visto nei testi dei Magi, di Maria ed Elisabetta…

Tutto questo movimento sarebbe la cosa seria che sta sotto il termine vocazione. La vocazione cristiana è esattamente il percorso con cui ognuno di noi compie il proprio viaggio come risposta al suo essere profondamente umano, al fatto che gli umani cercano di non inaridire, di viaggiare, ma sotto la parola di Dio. Le forme, i tempi, le valutazioni profonde, i modi concreti in cui ciascuno di noi compie il proprio viaggio sarebbe la nostra vocazione.

Vocazione viene dal latino ‘vocare’, chiamare, per cui la vocazione è una chiamata, l’abbiamo studiato tutti al catechismo. Una delle differenze radicali tra credenti e non credenti è che il viaggio che noi compiamo è una chiamata da altri, cioè non è un viaggio in cui io decido verso dove andare, ma un viaggio in cui qualcuno mi aspetta. Chiamata indica che qualcuno mi aspetta. Ognuno di noi sa che è bellissimo viaggiare – parto e vado a visitare…Praga -, ma non c’è paragone rispetto all’andare in un luogo dove qualcuno ti aspetta –molti visitano Praga, ma i cristiani a Praga trovano qualcuno che li aspetta. Questo spiega perché i cristiani chiamano il loro viaggio vocazione, cioè chiamata.

La passione suscita il viaggio …

“Saulo frattanto, sempre fremente minaccia e strage contro i discepoli del Signore, si presentò al sommo sacerdote e gli chiese lettere per le sinagoghe di Damasco al fine di essere autorizzato a condurre in catene a Gerusalemme uomini e donne seguaci della dottrina di Cristo, che avesse trovati”.

L’abbiamo visto più volte durante il nostro percorso: il punto di partenza di ogni viaggio è una passione, … positiva o negativa, non è questo il problema. C’è la delusione dei discepoli di Emmaus, che li mette in strada; c’è l’attenzione di Maria verso Elisabetta, che la mette in strada; c’è l’avere scrutato i cieli dei Magi, che li mette in strada… C’è sempre un motivo per viaggiare; senza motivo nessuno si muove, nessuno lascia la propria comodità.

Cambiare a volte fa crescere, ma non è detto; sicuramente crescere fa cambiare! E questo movimento è doloroso, faticoso, ha un costo e nessuno lo intraprende senza avere un buon motivo! Nessuno cerca una cura se non sta abbastanza male; quando stiamo bene non ci pensiamo. Più la cura è faticosa ed impegnativa, più il male deve essere grave per convincerci a farla.

Da questo punto di vista credo che noi abbiamo fatto sposare un’idea borghese del cristianesimo alla nostra antica paura del nuovo; dunque ecco la moderazione delle passioni, del non scaldarsi tanto,- ci fa impressione Saulo fremente minaccia e strage! Questa buona educazione borghese giustifica la nostra paura di cambiamento, paura di pagare dei costi e stiamo tutti tranquilli, fermi, paralizzati. Nella scrittura, all’inizio di ogni racconto di viaggio, c’è sempre un dolore, una mancanza, un bisogno, una paura, una passione, un desiderio.

Spesso noi non viaggiamo, non abbiamo una vocazione, non ci convertiamo ad una vocazione perché non stiamo abbastanza male, non diamo fiato a nessun desiderio, non riconosciamo il nostro bisogno, siamo così ‘ben educati’ … e dunque non succede niente.

L’altro elemento di questi versetti introduttivi è che ancora una volta, come cento volte abbiamo trovato nella scrittura, e in particolare nel racconto di Tobia, all’inizio di un viaggio c’è un documento, c’è bisogno di un documento, delle lettere per le sinagoghe. Nel libro di Tobia il vecchio Tobi dice: c’è un compagno per il viaggio e il documento per essere riconosciuto a ritirare i soldi.

All’inizio del nostro viaggio ci vuole la nostra passione, il nostro desiderio, e dall’altra parte ci vuole un documento, che per i cristiani è la parola di Dio, che mostra, fa riconoscere la strada! Dato che la parola di Dio ce l’abbiamo, e nessuno ce la può togliere, probabilmente ciò che spesso manca è la nostra passione: non siamo mai abbastanza frementi di minaccia e strage!

… luogo di instabilità ed affidamento

“E avvenne che, mentre era in viaggio…”

In questi primi cinque versetti c’è il riassunto di tutte le puntate precedenti: mentre si è in viaggio succedono delle cose, perché uno si sbilancia, l’abbiamo già detto molte volte. Se si fotografa uno che cammina nel momento esatto in cui sta spostando il proprio baricentro da un piede all’altro, guardando la foto non sai se sta camminando o cadendo. Sta per un attimo sospeso, sposta il proprio equilibrio.

Come mostrano i discepoli di Emmaus, ed altri testi della scrittura, Dio entra, si mostra, parla sempre in quel momento lì! Chi sta piantato, fermo sui propri piedi, in equilibrio, non ha né sogni, né visioni, né parola di Dio, perché non c’è spazio affinchè un altro possa entrare a dire: “Di che state parlando tra di voi?” o  Saulo perché mi perseguiti?”.

Credo che su questo punto: lo spazio per Dio come lo squilibrio, il rompere le certezze,  noi riflettiamo troppo poco. Lo dico con altre parole: siamo abituati a pensare che il dubbio sia il contrario della fede. La scrittura dice che il dubbio è il luogo della fede . Le certezze si chiamano ideologia. Quando tutto è chiaro, per tutto c’è una risposta, una spiegazione, si sa come fare ogni cosa, questo si chiama ideologia; è quella fede farisaica con cui Gesù se la prende molto nel vangelo. 

La fede evangelica è invece quel luogo dove io non ho un equilibrio mio. Per questo noi diciamo: la fede è affidamento. E’ come quando i bimbi si buttano sicuri che il genitore li prende, non li lascia cadere; ma c’è un attimo in cui sono sospesi nel vuoto. Ed è lì che si inserisce un genitore, è lì che un braccio li regge. Ma tu devi fidarti che quel braccio ci sarà.

Come adulti pensiamo che se uno si sbilancia, ha un dubbio, ha una questione aperta, non possiede ancora la risposta, vuol dire che non ha abbastanza fede. Abbiamo detto molte volte che la fede è una domanda, non una risposta. La fede è la domanda di Gesù a Pietro:  “Mi ami tu?”. E’ la domanda di Gesù alla samaritana: “Dammi da bere”. Sono le migliaia di domande del vangelo. La fede è una domanda e quando noi ci mettiamo dalla parte di Gesù a fare a noi stessi la stessa domanda, – dunque creiamo uno squilibrio, siamo in viaggio – allora Dio ha lo spazio per reggerci e per mostrarci che non ci lascia cadere.

“…mentre era  in viaggio e stava per avvicinarsi a Damasco, all’improvviso lo avvolse una luce dal cielo…”

Ci sono tre elementi, che poi diventano quattro: il viaggio che diventa cadere; la luce che diventa cecità; e la voce che alcuni sentono ed altri no. Per ognuno di questi elementi non c’è  solo una direzione: il viaggio che rimanga viaggio, la luce che tutti vedano, la voce che tutti sentano… No, c’è un viaggio che fa cadere Paolo; c’è una luce che abbaglia, Paolo diventa cieco, e in seguito tornerà a vedere; c’è una voce che Paolo sente, e quelli che sono con lui non sentono; poi Anania sente … e c’è una storia che pare in stereo: il Signore appare ad Anania e gli dice che  è apparso a Saulo, dicendogli che Anania sarebbe andato da lui,… una storia complicatissima, un gioco di echi.

Questi elementi sono tutti sotto il segno dell’ambiguità; e poi ecco il quarto elemento: il cibo. Paolo non mangia, poi mangia. Sotto il segno dell’ambiguità vuol dire che sono drasticamente posti come elementi non ideologici, non univoci, che si capiscono – che sarebbe il nostro profondo desiderio!

Paolo forse non era cattivo prima, perché se non avesse avuto ira e rabbia non si sarebbe mosso; si mette in viaggio, e il suo viaggio diventa cadere, un viaggio rovinoso; dal punto di vista dei progetti non succede niente di ciò che lui aveva pensato, anzi cade da cavallo – lui racconterà sempre questa vicenda come quella di massima benedizione della sua vita! -; c’è una luce così forte da essere insopportabile, il cui risultato è la cecità, e ci sarà bisogno di uno che  la guarisca… La vita è disordinata!

In fondo noi non veniamo sorpresi sulla via di Damasco perché ci premuriamo che i nostri viaggi non diventino cadute! Per cui, sicuri di non cadere, non succede niente. Dovremmo essere preoccupati del fatto che non succeda niente, non del fatto di cadere. Questa è la vocazione cristiana. Dovremmo essere preoccupati che non ci sia né luce né buio, che ci sia questa misura intermedia, non del fatto che ci siano luci abbaglianti e forse cecità.

Infine, Dio non è moralista, di per sé; dunque, che Paolo sia fremente di rabbia e di strage non è né meglio né peggio di quando poi sarà fremente per fondare comunità, per battezzare… Noi dividiamo le cose in buone – e bisogna impegnarsi … e cattive – da evitare assolutamente. L’ottimo risultato è che stacchiamo il meccanismo della passione, e non abbiamo più passione in niente.

In questo racconto è molto chiaro: nel tempo della storia la voce, la luce, il viaggio, il cibo, non hanno una direzione univoca, perché noi non siamo Dio, e quindi si mostrano in un modo, nel suo contrario; solo chi è dentro la storia riconosce un percorso, un filo e può dire: è caduto, si è ferito, ma alla fine ne è uscito un bene. Fuori dalla storia non si capisce, perché non c’è un dato chiaro. Dal punto di vista del vangelo, paradossalmente, l’avere una lunga vita non è né un bene né un male in assoluto, è ciò che è, è quello che ci è dato, ed è ciò che, di volta in volta, diventa benedizione o maledizione per noi, e non c’è niente nella nostra vita che sia ‘in sé… bene o male!’

Se così fosse, la logica sarebbe ancora quella dell’Antico Testamento, quella del puro e dell’impuro, che ci sono alcune cose pure ed altre impure. Noi sorridiamo su questa idea dei cibi puri e dei cibi impuri, ma abbiamo sostituito ai cibi puri e impuri altre cose, e manteniamo la rassicurante convinzione che le cose giuste devono essere belle, buone e se io sto lì, le scelgo,  merito dieci. Poi ci sono le cose ingiuste, che sono brutte e cattive, e se uno sta da quella parte, alla fine lo bocciano!

Non è vero; la parola del vangelo ci chiede di uscire da questa logica che divide il mondo, le azioni, le cose, le storie in pure ed impure e ci chiede di metterci in viaggio con ogni passione della nostra vita, di non buttare niente, perché ogni viaggio può essere il luogo benedetto dove la grande luce si mostrerà, e forse l’ottimo risultato sarà che diventeremo ciechi … apparentemente non un grande guadagno!

Gesù pone domande …

“Saulo, Saulo perché mi perseguiti?”.

  Abbiamo una deformazione dottrinale per cui nella scrittura cerchiamo sempre la risposta giusta. Diciamo che uno legge la scrittura per capire che cosa Gesù insegna. E Gesù raramente insegna. Il più delle volte fa delle domande; non risponde, ma chiede. Questo non ci entra nella testa, è più forte di noi. Abbiamo una deformazione dottrinale del cristianesimo per cui cerchiamo sempre la risposta giusta, ma la scrittura non è un manuale e non ha le risposte giuste. Non ha neppure quelle sbagliate! In compenso ha un sacco di domande e, come in tutti gli amori, Gesù si pone di fronte a noi con una domanda.

Su questo credo si possano dire cose molto semplici, ma radicali. Gli amori, gli affetti veri, quelli che non sono una società di mutuo soccorso e basta, sono sempre una pretesa sulla nostra vita. L’altro, nel suo essere così com’è – bene o male –  mi si impone con una richiesta; ed io sono posto nell’insopportabile situazione di essere con lui, contento, ma violato, limitato nella mia libertà, o senza di lui, sovrano, ma un po’ meno contento. Per questo un adulto è tanto contento quanto terrorizzato dagli amori! Ciascuno ha sempre una quota di gioia, di contentezza, e contemporaneamente di paura, come di fronte all’idea di avere un figlio. Laddove tu metti in gioco una relazione fondante della tua esistenza, che la cambia, la ristruttura nelle cose di fondo, come in quelle concretissime, sei tanto contento quanto assolutamente terrorizzato, perché uno si pone in una condizione in cui non potrà mai più avere tutto e dovrà di volta in volta decidere se essere sovrano di sé e un po’ meno con l’altro, un po’ più scontento, oppure un po’ più contento con l’altro e un po’ meno sovrano si sé, un po’ spossessato.

Questa è la questione per cui Gesù pone una domanda, perché nella nostra vita lui è l’esperienza di una richiesta radicale di questo genere. Lui si mette lì, è come è, e ti dice: come la mettiamo? Che vuoi fare? E come in tutti gli amori seri, l’unico che può dare una risposta a questa domanda sono io.

Ognuno di noi si chiede spesso se l’altro lo ama, ma quando un amore diventa vero, la domanda è se io lo amo. La domanda se l’altro mi ama in genere è una domanda previa, finchè uno non sa se la cosa è vera. Quando l’amore comincia a diventare una storia, la vera questione è: mi importa abbastanza di costui per sopportare, per cedere qualcosa? E non c’è nessun altro al mondo che può rispondere al posto mio, nemmeno la persona amata. E in genere su queste cose ci sono discussioni, perché io vorrei che fosse l’altro ad impormelo, non vorrei dover essere io a sceglierlo.

Gesù nel vangelo pone una domanda: Perché mi perseguiti? Non è il rimprovero a Saulo, ebreo cattivo, che se la prende con i cristiani. E’ piuttosto, ma cosa stai facendo? Il tuo essere fremente di sdegno, minaccia è veramente il luogo dove vuoi essere? Chiunque abbia compiuto i vent’anni sa che una domanda così, presa sul serio è una delle più difficili. Infatti noi in genere ci rifugiamo in frasi del genere, ‘beh, sai com’è la vita’…, sull’essere schiavi condizionati nella nostra storia per cui le cose vanno per forza loro, vanno avanti perché, ‘avendo delle responsabilità non posso chiedermi sempre se è davvero questo che voglio! Se poi dovessi rispondere no, cosa succederebbe?’

Io credo che questa sia l’esigenza del vangelo: Gesù entra nella nostra vita e pone una questione a cui nessun altro, tranne noi, può rispondere. Chiede: che cosa stai facendo in questo tuo viaggio? Che cosa vuoi?

… è l’Altro …

“Rispose: ‘Chi sei, o Signore?”.

Giustamente Paolo dice: ma chi sei? che vuoi da me? Come ti permetti di entrare nella mia vita! La prima reazione, quando è vera, è sempre: piano, per favore, ma come ti permetti? Chi ti dà questa autorità? 

E la voce: ‘Io sono Gesù, che tu perseguiti!”.

Mi permetto perché sono l’altro interlocutore di quel rapporto, tu te la stai prendendo con me. Sto traducendo in linguaggio relazionale perché lo capiamo meglio.

In tutti gli amori c’è sempre un momento in cui uno dice: come ti permetti di porre il problema in questi termini? Ed in genere l’altro risponde: dal momento che stai in una relazione con me, mi hai dato il diritto di porti una domanda personale. E’ vero. Uno con cui abbiamo una conoscenza superficiale non ci chiederebbe mai conto di certe cose, perché non gli abbiamo dato questo diritto, abbiamo tenuto il nostro rapporto ad un certo livello. Ma se stai dentro un rapporto più profondo con le persone, con ciò stesso gli dai il diritto.

E qui c’è una reazione che a me personalmente dà un grande dolore, ma è molto realista.

“Gli uomini che facevano il cammino con lui si erano fermati ammutoliti sentendo la voce, ma non vedendo nessuno”.

Nessuno di noi viaggia solo, ma di fronte a queste questioni non c’è nessuno con noi. Su queste questioni ciascuno se la deve sbrogliare da sé!!! C’è una solitudine radicale! Il frutto di questa solitudine è l’ammutolire. Abbiamo ragionato più volte sull’essere muti, sul non aver parole! Quelli che fanno il viaggio con lui non sono la chiesa. Anania è la chiesa! E Anania non è muto. Paolo rimane solo, ma Anania ha delle parole. Se volete: superata la crisi adolescenziale, da adulti, il problema di ciò che ci dobbiamo aspettare da un’esperienza ecclesiale non è la rottura della solitudine, perché questa è il problema, la realtà, l’esperienza degli adulti, ma è la rottura del silenzio. Invece, paradossalmente, il novanta per cento delle nostre esperienze ecclesiali sono dei tentativi, più o meno mal riusciti, di rompere la solitudine, di non affrontare la radicalità del fatto che ognuno è alle prese con la questione della propria vita da solo, perché nasciamo soli e moriamo soli.

Contemporaneamente questi tentativi di mettere delle pezze, alla fine producono un grande sistema di silenzi che riempiamo di parole pie, religiose, ma siamo tutti ammutoliti. L’esperienza della chiesa è quella che si fa intorno alla parola di Dio e la nostra, e nella coscienza che gli adulti hanno delle solitudini radicali. Non vuol dire che non abbiamo amici, che non ci aiutiamo, che non ci volgiamo bene – ognuno di noi nella situazione di bisogno sa di poter chiamare amici che potranno dargli una mano. Ma c’è una solitudine radicale. La chiesa non è una società di mutuo soccorso, come non lo sono i matrimoni, dove io combatto la paura di essere solo. Sono luoghi di parola scambiata, dove non rimanere ammutoliti.

… ci guida per mano

“Saulo si alzò da terra ma, aperti gli occhi, non vedeva nulla”.

Il primo risultato è che uno diventa cieco. Deve essere guidato per mano.

“Così, guidandolo per mano, lo condussero a Damasco”   

Il viaggio di Paolo, iniziato in gloria, finisce guidato per mano. Questo è il motivo per cui i cristiani chiamano vocazione il loro viaggio, perché è un viaggio che comincia dalla nostra passione e ad un certo punto viene affidato a qualcuno che ci guidi per mano. In questo ‘guidandolo per mano’ c’è il giro di boa. Essere credenti significa lasciarsi guidare per mano,  … da Dio!  Non essere più padroni del proprio viaggio, non riuscire a controllare tutto! Camminare non vedendo, guidati per mano, penso sia una delle esperienze più deprivanti di equilibrio, perché si perde il controllo.

“Lo condussero a Damasco, dove rimase tre giorni senza vedere e senza prendere né cibo né bevanda”.

C’è un unico elemento che non ha ambiguità, in questo racconto. Il viaggio diventa cadere, poi viene guidato per mano, la luce provoca cecità, la voce alcuni la sentono, altri no, si diventa muti; il cibo non ha ambiguità, ha una direzione sola, nutre. Quando uno sta male non mangia, poi ricomincia a mangiare e riprende le forze. Per questo nelle nostre chiese c’è una sola cosa su cui non c’è dubbio interpretativo: l’Eucaristia. Tutto il resto è sottoposto alla marea della storia. In termini teologici si dice : l’Eucaristia vale ‘ex opere operato’ vale indipendentemente dalla degnità o meno del ministro. Tutto quello che c’è intorno non può scalfirne il valore nutritivo. Tutto nell’esperienza di chiesa: parole, silenzi, vedere, capire, viaggiare, cadere, sta sotto il segno ambiguo della storia, tranne l’Eucaristia, perché il cibo è l’unica cosa che ha una direzione sola: se non mangio mi indebolisco, se mangio mi nutro. Questo ci è dato dal Signore in memoria di lui, più potente di qualsiasi cosa, più potente della degnità o indegnità, del far bene o male.

Testimonianza cristiana

Ora c’era a Damasco un discepolo di nome Anania e il Signore in una visione gli disse: ‘Anania!’.  Rispose: ‘Eccomi, Signore’. E il Signore a lui: ‘Su, va’ sulla strada chiamata Diritta, e cerca nella casa di Giuda un tale che ha nome Saulo, di Tarso; ecco sta pregando, e ha visto in visione un uomo, di nome Anania, venire e imporgli le mani perché recuperi la vista”.

Nella seconda parte del testo c’è la figura di Anania, uno che era già caduto prima, dunque è già coinvolto, già condotto per mano, non è più padrone della propria esistenza, e Gesù può  farlo apparire in sogno a Saulo senza chiedergli permesso. Anania è la prefigurazione di quello che succede sempre: ti fidi una volta e sei…’fregato’. Come negli amori: ti fidi e poi non ne esci più! Anania è il modello di un discepolo di cui Dio dispone, lo conduce per mano; è figura della chiesa, per Paolo. Per noi la chiesa è il luogo non ammutolito dove c’è chi è già caduto, chi non dispone più di sé.

“Signore, riguardo a quest’uomo ho udito da molti tutto il male che ha fatto ai tuoi fedeli in Gerusalemme.” 

Anania tenta un timido, umano movimento di resistenza – non vorrei trovarmi nei guai – che crolla immediatamente. Il diritto al mugugno è garantito, poi si fa la volontà di Dio. Uno può brontolare un po’, ma poi parte. Ad Anania Dio chiarisce qual è l’obiettivo rispetto a Paolo. Non gli dà una spiegazione su di lui, non gli dice: va, non ti succederà nulla; ma:

“Va’, perché egli è per me uno strumento eletto per portare  il mio nome dinanzi ai popoli, ai re e ai figli di Israele”.

Trovo che questa sia una delle  piccole antiche leggi della chiesa che noi dimentichiamo spesso: ognuno ha una solitudine radicale, nessuno può rispondere al posto degli altri, ma una volta che sei caduto, niente di ciò che ti succeda è più per te. Fregati due volte. Tutto quello che ti succede dopo è sempre in funzione di un altro, che è un povero, in qualunque forma. Perché gli amori funzionano così, semplicemente. Ciò che succede dopo, è sempre in funzione di una più ampia fioritura della vita, perché la vita fiorisca in altri, con altri, per altri.

Questa sarebbe l’idea di testimonianza cristiana. Noi ogni tanto confondiamo la testimonianza cristiana con la santa inquisizione, cioè, io ho la verità e tu no. Poiché io devo testimoniare, ti spiego, – anche contro di te, anche con ‘violenza’ – finchè tu non ti convinci quale sarebbe la verità, perché io ho avuto questo grande dono e te lo devo spiegare. Quelli tra di noi che hanno una leggera antipatia verso questi metodi, in genere hanno un retropensiero: forse io non credo abbastanza nella testimonianza. Questo non c’entra niente con la testimonianza cristiana: ciò che mi accade non è più per me; cioè, io faccio fiducia che ciò che è accaduto a me accadrà anche ad altri e dunque mi metto al loro fianco a fare il tifo.

La testimonianza cristiana è che io faccio fiducia di fronte all’altro che il dono che mi è stato dato, poiché Dio è giusto, sarà dato anche a lui, prima o poi. E dunque lui lo sa, lo crede, non lo crede, ci spera non ci spera, non può disperare, non può mollare, quindi vuol dire che io faccio il tifo per la sua vita. Come quando vogliamo bene a qualcuno che sta in un guaio attraverso cui noi siamo passati e gli diciamo: ‘ce l’ho fatta io, ce la farai anche tu’. E non si esaurisce tutto lì, ma gli stiamo a fianco, lo incoraggiamo, gli camminiamo vicino perché siamo sicuri che ce la farà, contro lui stesso, contro il fatto che lui pensa di non farcela. E lo vogliamo sostenere fino al momento in cui ce la farà. Questa è la testimonianza cristiana!

La vita libera fiorisce

“Egli è per me uno strumento eletto per portare il mio nome dinanzi ai popoli, ai re e ai figli di Israele; e io gli mostrerò quanto dovrà soffrire per il mio nome”.

Paolo non sarà più di se stesso, gli succederà ciò che sta succedendo ad Anania, esattamente la stessa cosa, perché Dio è fedele e non fa differenza di persone. Ha fatto cadere Anania, ha fatto cadere Paolo, farà cadere noi! E ci mostrerà quanto dobbiamo soffrire per il suo nome.

Solo se io vivo non più per me, se ciò che mi accade non è più solo per la mia vita, la mia vita fiorisce, diventa libera, non ho più bisogno di tenerla sotto controllo, non devo più spendere il novanta per cento delle mie energie a tenere tutto fermo. Posso viaggiare, cadere.

Anania va, fa esattamente ciò che gli è stato chiesto. Come succede un paio di volte in questi capitoli degli Atti – e spesso non lo notiamo – prima impone a Paolo le mani e lui è colmo di Spirito Santo, e dopo verrà battezzato. 

Su questo c’è una grande discussione – per esempio quella dei capitoli dieci e undici di Atti – perché queste due componenti: essere battezzato e ricevere lo Spirito Santo, sono i modi tecnici – lo traduco come al solito in cartoni animati – per dire ciò che dobbiamo fare noi, ciò che compete a noi per assicurarci che l’altro abbia capito che il Signore sta passando, e quello che fa il Signore di suo. E’ ciò che dico sempre: primo non agitarsi, perché il Signore fa ciò che deve fare, è lui che salva, non noi. Fin dalle origini, fin dal libro degli Atti, come stavano insieme queste due cose? Cioè, cosa devo fare io, cosa fa il Signore di suo? E’ sempre stato un problema.

Nel libro degli Atti leggiamo – si vede bene, è spiegato, nell’episodio successivo, di Cornelio e Pietro – un paio di volte in cui la successione normale: prima la chiesa, Pietro, gli apostoli, spiegano, annunciano, battezzano, poi il Signore ci mette la sua parte, moltiplica …viene invertita, cioè prima il Signore Dio fa ciò che vuole fare e poi i discepoli dicono: se lui ha già fatto la parte sua tanto vale che noi battezziamo, non possiamo tirarci indietro. Forse nella normalità dei casi tocca a noi fare delle cose e poi Dio ci mette la sua parte, ma non è impossibile che succeda il contrario, che Dio faccia delle cose per conto suo e dopo a noi tocca semplicemente ratificare, dicendo: dove Dio ha agito chi sono io per non farlo?

Questa questione, che sembra molto tecnica: imposizione delle mani, effusione dello Spirito e battesimo, pone invece una questione molto concreta: che rapporto c’è tra il mio impegnarmi e Dio che salva?

L’altro giorno, quando ho citato il versetto “prostitute e peccatori vi precederanno nel regno dei cieli” uno studente ha aggiunto ‘se si pentono’. “No, nel vangelo non c’è scritto! Non è neppure sottinteso, non c’è proprio – gli ho risposto – E’ nella forma del paradosso, ma è una parola evangelica”. Questo non gli andava giù perché, diceva: “Se uno si comporta male e si diverte tutta la vita, poi avrà pure il posto migliore in paradiso? Se uno fatica tutta la vita, si comporta bene, fa del suo meglio, poi gli tocca stare anche dietro!!! Tanto vale comportarsi male e divertirsi di più!” Così ha spiegato il suo pensiero. Risposta: “Infatti, se pensi che comportandoti male ti diverti di più, meglio che ti comporti male! Divertiti! Dio vuole che ci divertiamo e, forse, che capiamo anche che alcuni modi di comportarci alla lunga non divertono tanto. Se abbiamo bisogno di passarci, passiamoci”.

La questione, prima lo Spirito Santo, poi il battesimo è di questo genere; cioè, normalmente è vero che uno prima capisce delle cose sulla sua vita, la riordina un po’, poi magari entra in un rapporto con Dio. Ma Dio è creativo, ogni tanto rovescia l’ordine, e può darsi benissimo che prima ci sia questo cadere da cavallo e dopo uno riordina la sua vita, e noi non abbiamo il diritto di dire  che cosa deve venire prima, perché questo sta dalla parte di Dio.

“Allora Anania andò, entrò nella casa, gli impose le mani e disse: ‘Saulo, fratello mio, mi ha mandato a te il Signore Gesù, che ti è apparso sulla via per la quale venivi, perché tu riacquisti la vista e sia colmo di Spirito Santo’. E improvvisamente gli caddero dagli occhi come delle squame e ricuperò la vista; fu subito battezzato, poi prese cibo e le forze gli ritornarono”.

Prima gli vengono imposte le mani… Paolo è uno che ragiona al contrario – e poi gli caddero dagli occhi delle squame, recupera la vista, fu subito battezzato, prese cibo e le forze gli ritornarono.

Io credo che possiamo tirare le fila e dire: forse viaggiare è solo un nome che noi capiamo meglio di una cosa seria e profonda che si chiama vocazione, che per noi è un tema troppo religioso e non lo capiamo più .

Viaggiare significa compiere il proprio viaggio, come Tobia; cominciare vecchi e finire bambini. Compiere un viaggio che è un rischio mortale, è sotto il segno dell’ambiguità; come ogni viaggio pone dei punti critici, ma sotto i punti critici muta le nostre vite in vite credenti, se lo vogliamo. Accettare di essere condotto per mano, di essere espropriato dalla meta del proprio viaggio, di essere messo dentro una storia che non è più la propria, ma è quella di Dio.

A quel punto uno può prendere cibo, gli tornano le forze, può compiere altri viaggi, tornare a cadere e stare sotto l’ambiguità….

Fossano, 6 maggio 2006

(testo non rivisto dal relatore)

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8 Aprile 2006
Stella Morra
6. FIGLI DI UN VIAGGIO
Gv 1, 35-51
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