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16 Maggio 2020
Stella Morra

6. Puro, impuro, figli e cagnolini…

Commento a: Mc 7, 17-30


Mi fa piacere vederci seppure in questa forma un po’ particolare, anche perché per me è molto difficile parlare davanti ad uno schermo. L’altra volta, Carlo e Maria Paola si sono prestati a fare da cavia, a stare davanti allo schermo per renderlo più umano. È meglio vedersi, se non personalmente, almeno in modo mediato dalla tecnologia e vedere le facce di coloro che sono presenti in quest’ultimo appuntamento dell’anno.

Di solito comincio riprendendo il filo del ragionamento che stiamo facendo. Oggi invece vorrei iniziare da una riflessione che facevo questa mattina ragionando sul percorso. Neanche a farlo apposta quest’anno avevano preso come tema il “comune”, andando a cercare le tracce nella Scrittura per nutrire pensieri e domande che sono i nostri e non quelle della Scrittura e per farci accompagnare. Mai come in quest’anno, questa dimensione del comune è stata problematica dal punto di vista delle Lectio. Alcune sono state fatte in presenza in sala, in comune appunto, alcune sono saltate. Un comune che non si è interrotto ma che era in assenza. Una è stata solo registrata, quindi una dislocazione nel tempo, io parlavo con Carlo e Mapi e tutti gli altri si andavano aggiungendo, che una cosa che accaduta spesso nelle Lectio: alcune persone ne ascoltano un blocco e poi si aggiungono anche se in questo caso mi sembra più evidente. Adesso ne facciamo una solo virtuale, in cui siamo in comune ma non siamo nello stesso posto. Alcuni che di solito ci sono sono assenti e altri, invece, sono presenti. Mi sembra già che questa cosa rappresenti già un materiale per riflettere.

È la possibilità di stare in comune; in questo percorso strampalato; stiamo sperimentando fino in fondo l’ambivalenza e la contro intuività del termine comune. Quando diciamo comune sembra a tutti che sia chiaro cosa stiamo dicendo, mentre non lo è per niente. È un termine molto ambivalente.

Adesso abbiamo meno cose in comune, non abbiamo in comune lo stesso luogo e lo stesso spazio in cui siamo presenti gli uni agli altri, ma nel contempo paradossalmente abbiamo più cose in comune. Con questa distanza tutti abbiamo imparato a conoscere la parete di una stanza degli altri, un privato più interno che di solito non conosciamo. Tra un po’ saprò a memoria i titoli della libreria di Carlo perché li vedo sempre sullo schermo. Dal nostro punto di vista già questo basterebbe al nostro percorso per insegnarci che non ci sono parole scontate da questo punto di vista. Non è così immediato, che ciò ci sembra così autoevidente, non è detto che lo sia. Dall’altra parte mi sembra che questo sia il segno che siamo sulla strada giusta, che il vero problema è ritessere delle parole. Essere cristiani adulti in un mondo complesso che va cambiando non è un fattto di identità, o un fatto morale, o un fatto di comportamenti, ma riguarda la capacità di ritessere parole che non sono parole qualsiasi, ma sono parole vitali quanto meno alla luce della Parola di Dio.

Mi fa molto sorridere l’esperienza di comune che stiamo facendo riflettendo sul comune. È un’esperienza abbastanza particolare del cui carattere mi piacerebbe che oggi riflettessimo a partire dal testo. È un carattere non scelto. Su questo dirò alcune parole perché mi sembra il tema conclusivo. Negli ultimi vent’anni abbiamo esasperato il tema della scelta dal punto di vista della fede. Tutto è una scelta, ed è una scelta determinante, mentre il percorso della Lectio che stiamo vivendo non è stato scelto. Ci stiamo adattando più o meno a fatica a delle questioni che non abbiamo scelto noi che ci impediscono di fare ciò che si è sempre fatto, che è la grande parola d’ordine che mi fa venire l’orticaria. Nel senso che tutto si fa come si è sempre fatto, quando tutto rimane uguale. Solo che la vita non resta uguale e tutto non si fa come si è sempre fatto. Anche dal punto di vista della fede non si può fare come si è sempre fatto perché la realtà è diversa. La vita cambia e quindi non si può fare come si è sempre fatto.

Questo è il cappello iniziale. Mi sembra importante riflettere su ciò che abbiamo in comune che ha preso orme diverse in questo percorso, che non ci ha reso né più vicini, né più lontani, ma ha assunto forme diverse ambivalenti. Prima Mattia era tutto gasato dall’esperienza virtuale, possiamo esserne gasati o diffidenti, sta di fatto che questa esperienza non scelta ci si impone e crea difficoltà o ci aiuta a tessere nuove forme del comune in modo che forse non abbiamo mai fatto prima.

Vengo più al tema, alla questione. Siamo alla fine di un percorso. Tutti gli anni facciamo più o meno lo stesso percorso. Prendiamo una domanda che è nostra, prendiamo la Scrittura e cerchiamo dei frammenti di luce; la Scrittura non è un serbatoio di risposte, è una lampada per i passi. Ci va un soggetto che cammini, i cui passi possano essere illuminati dalla Scrittura, e le persone che camminano hanno le loro domande, la loro meta, ed in questo vengono illuminate.

Tutti gli anni proviamo a fare questo tentativo di percorrere la nostra strada accompagnati e accompagnandoci con la Parola. Il percorso di quest’anno dunque prima ci ha condotto a comprendere più nel profondo i movimenti umani ed antropologici della nostra esperienza di comune e poi invece a farli illuminare dalla Parola del NT. Se ricordate avevamo individuato i tre elementi: la memoria, la legge e i conflitti come elementi più strutturali del “comune” e poi avevano trovato il commento al testo di Zaccaria sull’essere muti (le parole, i nomi ed i molti nomi possibili delle cose). A questo punto quello che dicevo prima mi sembra decisivo: il come e il nome alle cose non nel senso solo di come lo chiamo, ma il nome nel senso di come la cosa è diventa, quasi più decisivo del cosa.

La lectio di oggi

In questa logica arriviamo al fondo. In questi anni ho sempre cercato di mettere al fondo un testo che ci desse prospettive per ragionare e camminare. Quest’anno il testo vi sembrerà un po’ strano, è il capitolo 7 di Marco, ed è un testo che non riguarda il futuro ma il presente. Il modo in cui leggo adesso questo testo è molto diverso di quando l’avevo scelto. Contemporaneamente lo trovo anche meglio, è più al posto suo, più interessante come conclusione; perché un testo semplicemente di allargamento che dà speranza a buon mercato sarebbe banale e fasullo, mentre un testo troppo chiuso sarebbe depressivo, non sarebbe lampada per in nostri passi. Leggo i versetti che abbiamo scelto e poi vi dico ancora due cose:

Il testo: Mc 7,17-30

7 17Quando entrò in una casa, lontano dalla folla, i suoi discepoli lo interrogavano sulla parabola. 18E disse loro: “Così neanche voi siete capaci di comprendere? Non capite che tutto ciò che entra nell’uomo dal di fuori non può renderlo impuro, 19perché non gli entra nel cuore ma nel ventre e va nella fogna?”. Così rendeva puri tutti gli alimenti. 20E diceva: “Ciò che esce dall’uomo è quello che rende impuro l’uomo. 21Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono i propositi di male: impurità, furti, omicidi, 22adultèri, avidità, malvagità, inganno, dissolutezza, invidia, calunnia, superbia, stoltezza. 23Tutte queste cose cattive vengono fuori dall’interno e rendono impuro l’uomo”.

24Partito di là, andò nella regione di Tiro. Entrato in una casa, non voleva che alcuno lo sapesse, ma non poté restare nascosto. 25Una donna, la cui figlioletta era posseduta da uno spirito impuro, appena seppe di lui, andò e si gettò ai suoi piedi. 26Questa donna era di lingua greca e di origine siro-fenicia. Ella lo supplicava di scacciare il demonio da sua figlia. 27Ed egli le rispondeva: “Lascia prima che si sazino i figli, perché non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini”. 28Ma lei gli replicò: “Signore, anche i cagnolini sotto la tavola mangiano le briciole dei figli”. 29Allora le disse: “Per questa tua parola, va’: il demonio è uscito da tua figlia”. 30Tornata a casa sua, trovò la bambina coricata sul letto e il demonio se n’era andato.

Commento

Il contesto di questo capitolo è la discussione sull’impuro e sul puro. Apparentemente sembra che ci sia la discussione con i farisei sui cibi, sui cibi puri e sui cibi impuri che parte dal fatto che sembra che i discepoli non si lavino le mani, ma poi ci sono questi due episodi: quello che abbiamo letto della donna siro-fenicia e poi quello della guarigione del sordomuto, Episodi che sembrerebbero appiccicati in modo illogico, senza alcun ragionamento. In realtà non è vero per niente, sono legati. A leggerli oggi c’è una grande continuità la discussione sul puro ed impuro non è una discussione teorica del mondo ebraico, ma piuttosto concreta. È la discussione su chi è dentro e chi è fuori, sulla determinazione di quali sono i confini che fanno di noi, noi, e gli altri, gli altri. Quindi noi siamo quelli che seguono la Legge di Abramo, noi seguiamo le leggi di purità, noi siamo i puri, noi siamo dentro e voi fuori. Questo è culturalmente molto forte, le prescrizioni alimentari, che sono proprie in tutte le religioni, rendono difficile frequentarsi tra persone di religioni diverse, perché vai a conflitto con le regole alimentari, così come succede quando si prepara cena per celiaci o vegani. Si diventa pazzi per organizzarla e si finisce per vedersi tra simili. Attraverso le regole alimentari è l’identità di un comune forte che viene mantenuto.

Non è un caso che Gesù raccolga le discussioni che si fanno sul puro e sull’impuro. Lo stesso problema ricorre negli Atti degli Apostoli quando Pietro verrà chiamato da Cornelio, nella casa dei pagani, e Pietro avrà la visione della tovaglia con i cibi puri ed impuri. È evidente che questo elemento è il confine, stabilisce chi è dentro e chi è fuori. Si può anche essere gentili con chi è fuori, ma questo tema stabilisce un confine. Questo livello del confine, del puro e dell’impuro, vale per molti temi, la parola confini è ambivalente è dove ci si incontra ma è anche una delimitazione. I confini devono essere osmotici: il problema dei confini si verifica quando non sono più attraversabili, sono troppo identitari diventano soffocanti.

7 17Quando entrò in una casa, lontano dalla folla, i suoi discepoli lo interrogavano sulla parabola. 18E disse loro: “Così neanche voi siete capaci di comprendere?

C’è un primo passaggio in cui Gesù entra in una casa lontano dalla folla e riesce a rimanere nascosto, la discussione con i farisei era avvenuta in pubblico. Parla in privato con i discepoli che lo interrogano su ciò che è puro o impuro. Gesù apparentemente si arrabbia con i discepoli e dice neanche voi siete capaci di comprendere. Nella discussione precedente con i farisei, Gesù fa la differenza tra le consuetudini degli uomini dai Comandamenti di Dio. In questo tempo, anche noi ci siamo interrogati sul cosa siano le tradizioni degli uomini e i comandamenti di Dio. Per tanti motivi, alla luce di cosa ci è successo, per mettere in ordine le priorità, che cosa è più importante salvaguardare? l’incolumità per sé e per gli altri, le vite, la giustizia, il rito, che cosa? Siamo sempre lì. Anche noi come i discepoli non sembriamo in grado di comprendere.

Non capite che tutto ciò che entra nell’uomo dal di fuori non può renderlo impuro, 19perché non gli entra nel cuore ma nel ventre e va nella fogna?”. Così rendeva puri tutti gli alimenti. 20E diceva: “Ciò che esce dall’uomo è quello che rende impuro l’uomo. 21Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono i propositi di male: impurità, furti, omicidi, 22adultèri, avidità, malvagità, inganno, dissolutezza, invidia, calunnia, superbia, stoltezza. 23Tutte queste cose cattive vengono fuori dall’interno e rendono impuro l’uomo”.

Gesù fa un ragionamento apparentemente molto duro dicendo: Non è ciò che entra che contamina ma ciò che esce. Anche qui è abbastanza contro intuitivo. In tempo di virus è ciò che entra che ci contamina ma è anche ciò che esce che lo fa. Entra perché esce da qualche altra parte. Funziona così, esattamente così, ciò che entra, esce da qualche altra parte. Ha un’origine, niente nasce dal nulla. Abbiamo uno spazio, un’aria, un tempo, un modo in comune. Le cose entrano ed escono. Non si può mettere confini al virus, a tante cose  non possiamo mettere confini, dentro-fuori, privato e pubblico.

C’è un privato che va salvaguardato: Gesù sta nella casa per parlare con i suoi. C’è un pubblico che va salvaguardato: Gesù accetta la discussione con i discepoli. Tutto questo ragionamento sul puro e sull’impuro su ciò che entra e che esce noi possiamo leggerlo in modo molto individualista e dire il problema è l’attenzione, l’intenzione, l’atteggiamento, ciò che esce dal cuore dell’uomo. Invece nella logica del Vangelo ciò che abita il cuore dell’uomo è lo spirito, che abita il cuore dell’uomo, come la storia, il tempo. Ciò esce da noi, ciò che è scambiato, ciò che è esattamente come il virus non è stoppabile e non si sa dove va: è lo spirito di Dio. Noi possiamo far uscire cose molto malvagie a partire da questo o fare entrare cose molto buone a partire da questo. con una piccola differenza che lo spirito che esce da noi è mediato da noi e quindi vale la pena essere un pelino più diffidenti, mentre lo spirito che ci viene della realtà è meno inquinato da noi e dunque Vaticano II ci parla dello spirito dei tempi perché lo spirito ci arriva come un segno, ci si propone.

In questo orizzonte i due episodi quello della donna siro-fenicia e del sordomuto non sono un’altra cosa; sono due esperienze pratiche di confini attraversati e attraversabili. L’uno quello della donna è attraversato dall’impertinenza della donna, l’altro quello del sordomuto è attraversato dai gesti di Gesù che di fronte al sordomuto si rivolge con le mani, con dei gesti. Sono confini attraversati perché ciò che è comune non è l’indentità che mi definisce, ma ciò che non è scelto.

24Partito di là, andò nella regione di Tiro. Entrato in una casa, non voleva che alcuno lo sapesse, ma non poté restare nascosto.

Gesù stesso è sottoposto alla logica dell’uscita dalla scelta tra pubblico e privato. Nella prima casa in cui entra può stare lì e parlare con i suoi, rimane dentro al suo confine. Poi va a Tiro che è luogo di pagani dove la vita è com’è e li non può rimanere nascosto in una casa. Non c’è più privato. Lui stesso si spoglia della sua identità religiosa e va in un posto di pagani dove quello che succede non può restare nascosto, deve mescolarsi con i pagani. È chiamato al comune del vivere, non può rimanere nascosto, con ce la fa. Questa immagine mi piace tantissimo, mi consola, mi fa molta compagnia in questo momento. L’urgenza sulle piccole cose in cui ciascuno di noi è preso dalla fame di tutti, giusta, sbagliata, legittima o illegittima mi fa sentire molto vicina a questa cosa di non poter stare nascosta. Questa situazione che ha scoperchiato l’esistenza di tutti e che sta mostrandoci un’urgenza, una verità, che il comune ha una priorità verso ciascuno di noi e a questa priorità non possiamo sottrarci; non possiamo restare nascosti.

25Una donna, la cui figlioletta era posseduta da uno spirito impuro, appena seppe di lui, andò e si gettò ai suoi piedi.

Arriva questa donna, che non a caso è una donna, e la cui figlioletta è posseduta da uno spirito impuro. Sembra che questo episodio smentisca tutto il discorso precedente di Gesù. Non è ciò che entra da fuori che fa male ed è questa bambina non ha fatto niente di male ed uno spirito impuro venuto da fuori la possiede. È l’apparente contrario del ragionamento di prima. È uno spirito impuro che la possiede e si è impadronito di lei e non la lascia più vivere. È visibile che il ragionamento di prima non va letto in termini morali, né in termini di intenzioni o di cuore, ma è più una faccenda di spirito. Noi non siamo un dentro od un fuori, un cuore puro, delle intenzioni pure, un’anima perbene e poi ci sarebbe il mondo cattivo, ma nemmeno il contrario ovvero il mondo è buonissimo e noi non valiamo niente. Noi siamo un territorio di ingressi e di uscite dello Spirito di Dio ed il problema non è cosa scelgo, ma quanto sono docile a questi passaggi.

La questione è che la Parola di Dio non è un insieme di soluzioni ma la lampada per dei passi. La questione è continuare a camminare, cercando luce ma continuando a camminare. Non abbiamo un dentro e un fuori. Le mie intenzioni non saranno mai pure in un mondo impuro, perché io sono parte di tutto questo. Io non avrò mai ragione in un mondo che ha torto. Esattamente i due movimenti sono uno narrato dalle parole, dalla discussione e l’altro narrato dai fatti.

C’è una donna anzi una bambina, che è versione depotenziata delle donne in una società come quella antica. La bambina non conta nulla, non ha nessuna responsabilità, nessuna identità, è a zero identità. Chi non diventa come un bambino non entra nel regno. C’è uno zero identitario fortissimo ed è solo apparentemente in preda a qualcosa che viene da fuori, ma non è in preda solo a quello, perché è anche posseduta dall’amore della madre. L’amore di questa madre che è pronta a sfondare qualsiasi confine. L’altro spirito che la possiede è qualcuno che ha cura di lei.

26Questa donna era di lingua greca e di origine siro-fenicia. Ella lo supplicava di scacciare il demonio da sua figlia.

E allora questa donna che mi piace tantissimo si getta ai piedi di Gesù, un gesto antico di richiesta e di autoumiliazione. È una donna complicata, multidimensionale di lingua greca, di origine siro-fenicia, pagana. Ce le ha tutte, parla un altra lingua, è il miscuglio dello zero identitario e per di più anche bisognosa. Va a chiedere un favore per cui non ha titolo. Non ha titolo perché non fa parte del mondo dei farisei, non segue la Legge, non parla la loro lingua. Non ha nessun titolo, non è neppure un maschio. Non ha nessun titolo eppure lo spirito buono che la possiede, l’amore per la figlia, la porta fino lì a gettarsi ai piedi di Gesù e chiede questo miracolo. Chiede che la figlia sia liberata e Gesù dà una risposta apparentemente durissima e abbastanza antipatica tanto che tutti ci chiediamo perché la dia:

27Ed egli le rispondeva: “Lascia prima che si sazino i figli, perché non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini”.

Gesù risponde quasi contrapponendo due identità quella del figlio a quella di cagnolino, di qualcosa che non è umano che non fa parte della famiglia, non è nemmeno un servo o uno schiavo, un cane. È proprio in un altro luogo, aldilà di ogni confine, in un altro comune. Non ha in comune niente con i figli. E la donna dà quella risposta che tutti conosciamo:

28Ma lei gli replicò: “Signore, anche i cagnolini sotto la tavola mangiano le briciole dei figli”.

La donna dice a Gesù l’unica cosa a cui Gesù non può resistere che c’è una cosa che accomuna figli a cagnolini ed è la fame. Non c’è un confine nemmeno lì. Non è una scelta. Non sarà guarita perché si farà riconoscere il suo diritto ad essere trattata da figlia, sua figlia non sarà guarita per questo ma sarà guarita perché assume la sua povertà e non è una scelta non è una cosa che posso decidere. Ma è l’unica, in qualche modo identità possibile; i figli e cagnolini hanno comune la fame che può essere sfamata a tavola o sotto la tavola, sfamati da un pane intero o da briciole. Questo non è loro potere sceglierlo e così per ciascuno di noi.

Ciascuno di noi nelle diverse fasi della nostra vita può pensare di avere pane abbondante, a volte solo delle briciole. A volte ci sentiamo di essere a tavola con tutti gli altri. Io in questo momento, rispetto all’esperienza ecclesiale che stiamo facendo mi sento abbondantemente sotto la tavola, veramente con poche briciole, cercando di non perderne neanche una perché sono poche e devono bastare ma è questa posizione che rende comune il desiderio di questa donna per sua figlia. I figli ed i farisei non sono buoni o cattivi. Ciò che ci rende veramente un comune possibile, né pubblico né privato, è la nostra condizione di poveri di fronte a Dio, e di poveri gli uni di fronte agli altri. Potrei fare mille esempi, ciascuno di noi potrebbe farne di queste settimane, a come abbiamo sperimentato questo in cose minuscole, sperimentando la mancanza di qualcosa che abbiamo dato per scontato e che era ordinario. Ma anche l’ambivalenza delle cose belle, che bello stiamo tutti insieme, tutti insieme nella nostra casa. Abbiamo sperimentato come comune a tutti noi di avere un’anima extra-large in una vita extra-small, cioè cercare di incarnare la nostra anima extra-large in vite che la contengono a malapena e quindi imparare a coltivare il desiderio.

29Allora le disse: “Per questa tua parola, va’: il demonio è uscito da tua figlia”. 30Tornata a casa sua, trovò la bambina coricata sul letto e il demonio se n’era andato.

La conclusione è per questa sua parola, per la capacità di parola della donna, di dare un nome a ciò che è comune. Il demonio è uscito da tua figlia, ciò che è venuto da fuori se ne è anche andato. Lo spirito impuro ha lasciato il posto allo spirito buono.

Aggiungo solo una parola ai versetti che seguono nell’indicazione nel testo che era stato pensato diversamente ma che in questo cambio di scenario me li fa agganciare:

31Di nuovo, uscito dalla regione di Tiro, passando per Sidone, venne verso il mare di Galilea in pieno territorio della Decàpoli.

Cioè, proprio fuori, altrove, in un altro luogo…

32Gli portarono un sordomuto e lo pregarono di imporgli la mano.

E la cosa pazzesca, la donna è salvata per una parola, mentre qui siamo al caso limite. Qui c’è il sordomuto non può ascoltare e non può parlare e forse tutti noi siamo un po’ così. Siamo ancora sotto la capacità di dire una parola su ciò che è comune siamo tutti un po’ sordomuti di fronte all’ambivalenza di ciò che è comune.

33Lo prese in disparte, lontano dalla folla, gli pose le dita negli orecchi e con la saliva gli toccò la lingua; 34guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro e gli disse: «Effatà», cioè: «Apriti!».

È interessante perché Gesù lo prende in disparte e gli mette le dita negli orecchi fa dei gesti che sono la cosa che lui può capire e attraverso questo dice apriti e provoca una parola. Personalmente in questo tempo mi sembrerebbe una bella preghiera rispetto al tema del comune questa semplice parola «Apriti!». Che ci siano date orecchie che ascoltano e bocche capaci dare nome alle cose nel tempo che stiamo vivendo, alla fame che ci rende comuni, che ci fa riconoscere gli uni, gli altri, sia che siamo cagnolini, figli, farisei, discepoli. Che ci porta fuori dal privato e dal pubblico e che ci riporta ad un territorio comune, così come è comune questa fatica che stiamo vivendo.

35E subito gli si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo della sua lingua e parlava correttamente. 36E comandò loro di non dirlo a nessuno. Ma più egli lo proibiva, più essi lo proclamavano 37e, pieni di stupore, dicevano: «Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare i muti!».

E la conclusione finale del capitolo è il commento di chi guarda e che pieni di stupore dicevano ha fatto bene ogni cosa fa udire i sordi e parlare i muti. Alla nostra invocazione apriti corrisponde la preghiera di lode:

«Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare i muti!».

Avremo altre parole, avremo altri ascolti dello spirito da fare. Il come non lo sappiamo, in presenza, in assenza, dislocati nel tempo, in modo virtuale, in modo reale, ma avremo altra strada, altro tempo. Tutto quello che servirà perché la lampada della Parola di Dio ci accompagni e perché da sordi possiamo diventare udenti e da muti diventare parlanti.

Dibattito finale

Domanda: Mi colpiva in particolare nella parte finale della guarigione del sordomuto dove Gesù tocca le orecchie mette le mani sulla lingua. C’è contatto fisico, cosa che manca in questo periodo anche nella Liturgia. Manca la condivisione dei corpi che è fondamentale nella vita delle persone, dunque anche nella Liturgia e nella vita di fede.

Risposta: Sì, è questo è il tema. Non è un caso che tutti resistiamo al lasciare i confini come struttura identitaria, perché l’altro rischio possibile è la contaminazione, cioè queste parole sono ambivalenti. Noi eravamo abituati a dare per scontato che alcune parole fossero positive e altre negative: che il puro è meglio dell’impuro, la prossimità è un valore, che la distanza è un disvalore. Faccio un esempio banale. Adesso stiamo tutti imparando che la prossimità è un rischio e che la distanza è anche custodia e responsabilità nei confronti degli altri. Il che non vuol dire che è obbligatorio stare distanti ma che per esempio dobbiamo, di volta in volta, valutare distanza e prossimità, perché non c’è un assoluto bene o male. Da questo punto di vista è ovvio che la mancanza dei corpi è un tema gigantesco nelle vite, e nelle vite credenti e nella Liturgia a maggior ragione. Non credo che potremmo vivere senza corpi. Ma in qualche modo è come se gli assi con cui noi avevamo messo questa roba, tutta in ordine fin dove era giusto e dove cominciava ad essere sbagliata e come funzionava, fossero tutti saltati. Non sappiamo più dove passa la differenza tra puro ed impuro, tra il contaminante e il salvifico, tra il gesto che cura e il gesto che contamina. Pensate a che multa gli avrebbero fatto a Gesù per la saliva messa sulle labbra di un sordomuto. Però è vero la Liturgia ha molti gesti di contaminazione ed a me fa un po’ impressione, anche se è molto responsabile. Non è perché se celebriamo in presenza tutto sia tornato come prima. Non perché i nostri corpi devono stare a distanza, perché non possiamo contaminarci in nessun modo e perché questo tema rimane e non possiamo far finta. La cosa che mi colpisce di più è che molti che erano contrari allo scambio della pace dicono lo scambio di pace non si fa e allora non si farà più. Mi chiedo, ma la stretta di mano è l’unico modo per scambiarci la pace? Possiamo fare un altro gesto che sia compatibile con questo tempo, possiamo inchinarci l’uno verso l’altro senza toccarci. Possiamo fare un’altra cosa.

Siamo spinti su questo livello. Di immaginare per esempio un modo di esserci dei corpi. Il che però non è una cosa da poco. Ci turba molto perché non sappiamo, non abbiamo molti precedenti, però era vero anche prima che i corpi carezzano e contaminano. Era ambivalente anche prima la faccenda, era il nostro racconto che era edulcorato per cui eravamo costretti a fare dei giri di parole pazzeschi per distinguere. Dire parole diverse, per dire cose diverse. Credo che una grande invocazione di ciò che è comune non solo in senso politico, sociale, ambientale della terra, non c’è una frontiera che ferma il virus. Dobbiamo darci un governo internazionale se no non ne usciamo, ma c’è un livello ancora più radicale che va al di fuori delle nostre percezioni. Ad esempio, come i nostri corpi possono esserci aldilà degli schemi tradizionali. Siamo sicuri che le distinzioni che avevamo pensato e tutti i gesti tradizionali funzionino tutti uguali a prima? Dal mio punto di vista in questo senso siamo alla distinzione tra puro ed impuro ovvero se dobbiamo fidarci delle tradizioni degli uomini o del comandamento di Dio e qual è il comandamento di Dio da individuare e seguire.

Domanda: Di questo tempo sulla questione puro ed impuro, mi colpisce l’idea che gli altri mi percepiscono come pericolo, cioè l’idea che mentre sto camminando per strada una persona mi schivi perché mi ritiene un pericolo per lei. Mi è capitato in questo mese di essere entrato in ufficio per accompagnare una persona disabile ed essere accolto come pericolo. Lo leggevi nell’atteggiamento del viso e del corpo della persona che avevamo davanti di essere percepiti come dei potenziali o anche reali pericoli. Credo che questo sia un grosso rischio che ciascuno di noi corre, che dovremo imparare a gestire a combattere, convivere. E quando saremo usciti da questo periodo dovremmo essere consapevoli che l’altro non è un potenziale pericolo e quindi reimparare e riappropriarci ad avere un comportamento nei confronti dell’altro benevolo o migliore.

Risposta: Credo che il rapporto con l’altro rischi di essere troppo semplificato. Parliamo genericamente di amore per gli altri e poi però facciamo degli sforzi pazzeschi perché nella realtà abbiamo a che fare negli ambienti di lavoro con altri che sono pericolosi, non per me, ma per l’impresa comune che sono disonesti. Anche lì, secondo me, questo tempo ci insegna che non dobbiamo semplificare, che per esempio è veramente un atto di fede la fiducia nell’altro perché l’altro è pericoloso. È un atto di fede dire ad un altro ti voglio bene perché io non sono Dio. Io sono potenzialmente un pericolo, non sono automaticamente buono, non capisco a tempo. Io posso ferire l’altro anche se non voglio.

Questa cosa ci sposta da un’idea piuttosto volontaristica e ci fa dire che non è vero che tutto è frutto di scelta, che questa esasperazione delle scelte è terrificante ed insopportabile. Ma contemporaneamente c’è comunque una scelta di fondo radicale, originante quella di porsi in modo benevolo nei fronti degli altri, accettando di correre il rischio dell’eventuale pericolosità dell’altro. Il Cristianesimo da questo punto di vista è terribilmente realista, ha chiara la distinzione tra Creatore e creatura. C’è solo Uno, dice la Scrittura, che è fedele sempre e mai pericoloso perché è benevolo ed è Dio. Tutti noi siamo persone ambigue, che facciamo del nostro meglio, che siamo continuamente chiamati a convertirci al nostro meglio, ma non possiamo mai garantire a priori di essere sempre buoni. Non possiamo garantire a nessuno, anche alla persona che amiamo di più, di essere solo un bene. Siamo sempre un bene con qualche altra cosa. È esattamente l’esperienza di una fede adulta e realista. È l’unica esperienza di fondo per mantenere un’opzione benedicente rispetto alla vita e dunque alle persone innanzitutto, poi anche al mondo, alla vita in generale, all’ambiente. Di mettersi dalla parte mia innanzitutto ma di tutti, dalla parte migliore di tutti, da quella più simile a Dio, da quel pezzo di immagine di Dio che c’è in ciascuno di noi, di scegliere di rivolgerci a quella parte lì.

Molti di voi lo ricorderanno, c’era quella frase che diceva sempre don Mario Picco che a me faceva morire. Che se una persona dice: sei veramente cretino, il cristiano dovrebbe rispondere: però hai una bella voce, perché doveva lasciare il contenuto e prendere il pezzo buono che è quello sulla voce. Questa è la questione discriminante che ci rende molto realisti nei nostri confronti e nei confronti degli altri e ci consente di essere un pò più misericordiosi rispetto a noi stessi e rispetto agli altri.

Anche a me fa effetto uscire e vedere che gli altri ti scansano per non passarti vicino. Lo trovo una brutta cosa, non mi piace per niente. Contemporaneamente dice la verità, abbiamo bisogno di distanze quanto di vicinanze, abbiamo bisogno di entrambe le cose.

Roma, 16 maggio 2020

Testo non rivisto dall’autore

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