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11 Ottobre 2008
Stella Morra

1. All’origine della duplicità

Commento a: Gen 4, 1-22


Premessa

Come al solito, iniziando un percorso di lectio, sono un po’ contenta e un po’ preoccupata perché non si sa bene, a priori, dove andrà a finire.

Quest’anno, in particolare, sono preoccupata perché mi sembra che stiamo entrando in un anno un po’ speciale per l’Atrio: sono passati i primi dieci anni, abbiamo prodotto anche molto, siamo, forse, in un tempo di ripensamento e, sia le lectio sia le altre attività sono un po’ nell’incertezza di ‘cosa fare da grandi’. Da questo punto di vista chiederei a tutti di pensare un po’. L’Atrio deve fare una scelta: o proseguire sulla via già tracciata, fornendo alcuni servizi – le lectio ne sono un esempio – rivolto sia ai soci, sia a chi socio non è; servizi che in genere hanno un buon riscontro. L’offerta piace, ma ora ci pare un po’ poco. L’Atrio non è nato semplicemente per offrire dei servizi, ma per fare un pezzo di esperienza di un altro modo di abitare l’essere credenti, per disegnare e provocare una riflessione su un profilo diverso dell’essere dei cristiani adulti, rispetto alle prospettive di un futuro cristianesimo; come si può rimanere da credenti, da uomini e donne di questo secolo, senza rinunciare a troppi pezzi di sé, senza dover adattarsi in modo più o meno conformista a ciò che è già dato. In questi dieci anni il clima generale è un po’ peggiorato. La pressione al conformismo, a tutti i livelli, è un po’ più forte. La difesa di ciascuno di noi, travolto dall’esistenza, affaticato, oppresso dalla crisi economica, da tutto ciò che va accadendo, è ad essere sempre più in questo atteggiamento selettivo: questo lo prendo – in fondo al cuore ci credo e gli dedico uno spazio – ma senza investire energie, pensando che tutto il fiato che abbiamo lo dobbiamo mettere a sopravvivere.

A me personalmente questo non piace. L’atrio era nato per evitare questo, senza creare un’ulteriore omologazione, un’altra situazione in cui bisogna essere tutti d’accordo. Era nato per creare uno spazio dove sia possibile fare cose diverse, ragionare, confrontarsi, pensare a questioni più ampie, non pensare solo a sé e alla propria sopravvivenza. Il seminario di quest’estate sull’uso del denaro è stato il gesto di pensare non solo a me, alle mie esigenze primarie, alla mia interiorità, ma qualcosa di più oggettivo, di ciò che riguarda altri. E’ stata un’esperienza bella; eravamo tutti molto contenti. Continuiamo ad essere dell’idea che pensare anche agli altri non sia meglio solo perché è più giusto, ma sia meglio anche per noi: alla fine uno è un po’ meno depresso.

Questo è un po’ il quadro del passaggio in cui ci troviamo. Certo non succederà niente improvvisamente, ma se ci vengono idee, riflessioni, possiamo trovare occasioni per scambiarci opinioni. Le riflessioni del venerdì sera saranno incentrate su questo: quali prospettive future per il cristianesimo, non tanto dal nostro punto di vista, ma studiando degli autori, dei teologi che ci hanno pensato. E’ ovvio che poi, inevitabilmente, ragioniamo anche di noi.

Anche il percorso delle lectio non si allontana di molto; e il piano pastorale diocesano propone un percorso sulla ‘cittadinanza della doppia città’ – per dirlo con uno slogan – per essere cristiani e laici, esseri umani tanto radicati nell’esperienza di chiesa, quanto radicati nella vita che condividiamo con tutti gli uomini e le donne di questo tempo; come si fa a tenere il piede in due scarpe; questa scomoda posizione di giocare una fedeltà a due mondi. Proviamo a vedere se, percorrendo la scrittura, questo ci aiuta a districarci, a capire come si abita questa duplice appartenenza, secondo lo stile proprio dell’Atrio. Non cercando immediatamente una risposta chiarificatrice, unitaria, ma facendoci guidare dalla Scrittura.

Più volte già abbiamo parlato delle origini storico-culturali di questa situazione; faccio tre minuti di richiamo storico-culturale a mo’ di cartone animato; seicento anni di storia della filosofia e della teologia, per dire come siamo arrivati a questa situazione.

All’origine della vicenda cristiana, l’abbiamo detto tante volte, c’è un mondo mediterraneo, giudaico, poi greco-romano che ha la sua ‘cultura’ – che non vuol dire accademia, ma modo di vivere, di capire le cose, delle convenzioni su ciò che è accettabile e ciò che va rifiutato in tutte le cose ordinarie, quotidiane e nell’ordine pubblico – la schiavitù era normale, c’era un certo modello di famiglia e così via. Il cristianesimo nasce in una provincia periferica di questo mondo – non certo al centro del dibattito culturale -, come esperienza di alcuni, un gruppetto di persone che, incontrando questo Rabbi, facendo l’esperienza della sequela di Gesù, e poi della sua morte e resurrezione – ammesso che sappiamo cosa vogliono dire queste due parole, che siano chiare – si ritrovano a dover destrutturate e ristrutturare tutto il loro modo di vivere. Nei primissimi anni vivono come tutti gli altri; il libro di Atti ci dice che continuano ad andare a pregare al tempio come prima, ma contemporaneamente di ogni cosa cominciano a chiedersi se funziona, se è giusto, non più rispetto alla loro cultura, ma rispetto all’esperienza fatta con Gesù. “Questa cosa mostra l’esperienza che abbiamo fatto o la nasconde?”. Nelle lettere di Paolo troviamo persone che gli chiedono: “Si può mangiare la carne offerta agli idoli?” – in fondo, se Gesù è l’unico Signore, gli idoli non sono niente, dunque la carne offerta agli idoli costa pure meno, … si può o no? C’è qualcosa di strano? E’ chiaro, a noi fa un po’ ridere, ma in quella cultura quella carne era una cosa sacra, non si poteva toccare. I primi cristiani cominciano a porsi il problema. Paolo dice: ok, gli idoli non sono nulla, dunque quella carne è buona come l’altra, se conviene compratela, ma… se qualcuno fra di voi ne fosse scandalizzato, piuttosto non compratela, perché il primo criterio è la carità, il rispetto di chi eventualmente non capisce. In questo lui mette un nuovo criterio.

Poi sorgono altre questioni relative a vari aspetti della vita: il servizio militare, i tradimenti durante le persecuzioni per evitare la morte – tanti sono morti martiri ed altri hanno rinnegato, poi finiscono le persecuzioni e questi vogliono tornare ad essere cristiani… la comunità si chiede se è giusto o meno riprenderli. Ci sono, poi, i primi concili e cominciano a chiedersi come si racconta l’esperienza di Gesù. All’inizio ognuno la racconta secondo la propria creatività, poi viene il Concilio di Calcedonia, per esempio, in cui si stabilisce che bisogna dire: Gesù è vero uomo e vero Dio, perché dicendo che è solo uomo o solo Dio ci perdiamo un pezzo. Dobbiamo riuscire a dire tutto, perché nel frattempo sta morendo la generazione che ha fatto l’esperienza diretta e bisogna avere delle garanzie per raccontare la verità.

In questo cerchio grande, che era la cultura mediterranea, piccolo puntino dei seguaci di Gesù comincia ad allargarsi e ad impregnare di sé tutto, più o meno fino al millecento, milledue, all’epoca cosiddetta gregoriana, in cui tutta la cultura è rielaborata in categorie cristiane, cioè non c’è più una cultura mediterranea che non sia detta cristianamente; e non dice nulla sulla fede – alcuni ci credevano, altri no, esattamente come oggi – ma il linguaggio condiviso, sociale era automaticamente cristiano. Il tempo si contava dall’Ave Maria all’Angelus, dall’Angelus al Vespro; nessuno di noi oggi direbbe: ci vediamo al Vespro, ma ci vediamo alle cinque, alle sette perché noi, culturalmente, non abbiamo più una mediazione religiosa, abbiamo una mediazione nata dalla rivoluzione scientifica: precisione, una misura oggettiva. Al dodicesimo secolo, invece, tutto è detto in linguaggio cristiano.

Comincia il processo della secolarizzazione: l’economia, la politica, la filosofia, la scienza – la crisi di Galileo è un esempio tipico – cominciano a chiedersi perché bisogna fidarsi più della Bibbia che di quello che vedo, e cominciano a volere un’autonomia, un linguaggio, una mediazione culturale che non sia religiosa. E i due cerchi rimangono, ma non sono più perfettamente sovrapposti, cominciano a slittare, e questo si chiama secolarizzazione, ci sono tutti quei pezzi di vita che non hanno più una mediazione di tipo linguistico, concettuale di tipo religioso. Quello che ci dimentichiamo spesso di dire è che dall’altra parte ci sono tutti i pezzi di religioso che non hanno più un pezzo di vita sotto – la devozione comincia a svilupparsi fino a che ci si chiede, ad esempio, perché bisogna fare certi riti, i sette primi venerdì, i nove primi sabati… fare la novena così invece che cosà. Tutto ciò comincia a diventare una macchina che non ha più reazione alle domande di quello che succede nella vita. Noi siamo alla fine di questo processo: i due cerchi sono completamente separati, non hanno più nessun punto sovrapposto, si toccano in un punto solo: la coscienza dell’individuo. Ognuno di noi è attraversato dalla separazione del religioso e del ‘laico’. Abbiamo dunque dentro tutti e due i mondi: da una parte ragioniamo come uomini e donne di questo secolo sull’economia, le assicurazioni, la previdenza per le pensioni, con che criteri comprare una casa …- non ci verrebbe in mente che sia un problema religioso! E poi, se siamo credenti, abbiamo le cose religiose: andiamo a messa la domenica – che giustamente è un’altra cosa, passiamo da un cerchio all’altro – e abbiamo la sensazione che, per essere credenti, bisogna fare delle cose religiose, fare incontri di preghiera, leggere la Bibbia, altrimenti faccio solo delle cose laiche.

Spero sia chiaro che questa è un’aberrazione totale, nel senso che non c’è una vita e poi il suo doppio religioso; c’è una vita sola. Quando dobbiamo mettere insieme questi due cerchi, abbiamo il problema del rapporto fede e vita e ci chiediamo: che cosa implica nel lavoro il fatto che sono credente? E cominciamo a fare tutte quelle alchimie: certo, beati i poveri, ma se io faccio il commercialista, non posso impoverire i miei clienti, non funziona così! Beati i poveri è una cosa poetica, religiosa, che fa sì che non esageri troppo, ma poi nella sostanza le regole dell’economia, sono oggettive… – sto un po’ ironizzando, ma cerco di far vedere dove sta il problema. Noi dunque abbiamo il problema della fedeltà a due città, nel senso che per noi esistono due città … e ci farebbe paura che ne esistesse una sola perché noi chiamiamo questo teocrazia o fanatismo. L’ideale che tutto debba di nuovo passare per una mediazione religiosa non ci sembra tanto un ideale, ci sembra un passo indietro, sarebbe come tornare alla teocrazia, al papa re. L’altro ideale sarebbe che non ci fosse più religioso, solo laico, generico e tutti siamo dispersi nel mondo delle cose? No. La questione è seria. Per questo c’è stato il Vaticano secondo che si è chiesto ‘Chiesa chi sei?’, proprio a questo proposito; in questa situazione cosa vuol dire pensare una chiesa, che cosa deve fare una chiesa? Nella logica teocratica una chiesa è un potere come tutti gli altri e se è più forte è meglio, perché può mediare culturalmente i valori, le leggi, le abitudini culturali. Per esempio in Italia, non duecento anni fa, ma negli anni sessanta, il venerdì santo la radio e la televisione trasmettevano solo musica classica, perché c’era ancora un tale potere della chiesa, che a noi attualmente pare troppo – se uno vuol fare il venerdì santo, può anche tenerla spenta, la televisione. Dall’altra parte, che sia un giorno in cui non c’è più nessun rimando sociale a ciò che accade, fa sì che metà di noi, credenti con tutte le migliori intenzioni, che vanno a lavorare quel mattino del venerdì santo come tutte le altre mattine, arrivano alle sei di sera e si ricordano che era venerdì santo. Io lavoro in un’università pontificia; nel bar e nella mensa della nostra università nei venerdì di quaresima e nel venerdì santo tu trovi normalmente la carne. Non hai nessuna mediazione culturale. Questo è il problema dell’essere cittadini di due città, un bel problema, interessante, ma che nella Bibbia non c’è. Non avevano questo problema, questa è una lettura dei nostri occhi, è qualcosa che non era previsto nell’antichità. Le società teocratiche nell’antichità erano normali. L’idea di autorità era: il padre, il maschio, padre di famiglia, che rappresenta le autorità, il re e il papa, che a loro volta sono direttamente investiti da Dio, altro che laicità.

Dunque noi dobbiamo fare un percorso nella scrittura che è un po’ strano, perché dobbiamo cercare qualcosa che la scrittura non ci offre, ma dobbiamo cercare degli elementi che ci conducano a trovare i criteri per ciò che la nostra cultura ci offre. E’ la situazione più difficile per noi. In questo è sempre in agguato la lettura ideologica della Bibbia. Cioè, se io decido che un problema si risolve facendo la scelta dei poveri e la guerra di liberazione in America Latina, troverò tutti i testi che difendono i poveri. Ma se io decido che quel problema si risolve avendo un governo che fa leggi che garantiscono i cattolici, nella Bibbia troverò tutti i testi che dicono che il re deve proteggere il suo popolo. E se io ho deciso che quello stesso problema si risolve in un altro modo ancora, troverò tutti i testi che difendono la mia ipotesi.

Guardando il programma possiamo vedere il percorso che faremo. La scelta è stata di un solo testo dell’Antico Testamento, quello di cui ci occupiamo oggi e poi di attraversare i Vangeli e, in ultimo, l’Apocalisse, cercando dei criteri, non delle soluzioni a questo problema che, ripeto, non c’è nella scrittura. Questo presuppone l’analisi che vi ho raccontato prima: io sto dalla parte di quelli che pensano che non sappiamo ancora quale sarà la forma possibile e che, guardare indietro e dire ‘com’era bello cinquant’anni fa’, non serve. Dobbiamo avere il coraggio di vincere la depressione e andare verso il futuro, sapendo che il cristianesimo è posto di fronte alla sfida, io lo dico spesso, che negli ultimi duemila anni, l’ultima volta che era successo era verso il quarto, quinto secolo. Negli ultimi quindici secoli non si era più trovato in una situazione così. Abbiamo, quindi, proprio perso memoria di come si fa, e dobbiamo avere santa pazienza.

L’incontro prossimo riprenderemo quel testo che ci ha coinvolti durante il seminario estivo, l’amministratore infedele, sul rapporto con il denaro. Cercando dei criteri, la mia scelta è stata di prendere dei testi che parlino dei ‘problemi’, non del problema; che parlino delle cose fondamentali dell’esistenza: il denaro, il potere, le relazioni affettive, che sarebbero i luoghi dove si fa questa relazione tra due città. Non la teorizzazione; non troverete il testo che si cita sempre ‘date a Cesare quello che è di Cesare…’, perché qui il problema non è in quale rapporto sta la Chiesa con lo Stato, ma piuttosto come facciamo noi a maneggiare il denaro rimanendo credenti, come facciamo noi ad avere relazioni affettive, famigliari, genitoriali, cercando di non perdere la fede. E’ questa l’impostazione.

Il racconto delle origini

Dopo questa lunga prefazione, cominciamo dall’inizio; sembra banale, ma non lo è: cominciare dall’inizio è già una scelta, perché su questi problemi la tentazione è sempre di cominciare da dove siamo noi, dal nostro problema e poi cercare nella scrittura la giustificazione al luogo che abitiamo. Vorrei cominciare dall’inizio – questo è il motivo per cui c’è questo testo di Genesi – e vedere secondo la scrittura – nei primi capitoli di Genesi c’è questo disegno del progetto di Dio sull’umanità – che cosa si dice, non in modo generico sulla creazione dell’uomo e della donna, ma in concreto sulla fatica di tenere insieme cose diverse. Vedere che cosa si dice, nel progetto originario di Dio, quando ci si trova di fronte ad una duplicità, ad una duplice fedeltà. Per questo ho scelto questo testo del capitolo quattro; il contenuto lo conosciamo tutti, soprattutto conosciamo due o tre versetti, ma forse non abbiamo mai letto il testo nella sua interezza.

E’ il racconto delle origini; genere letterario mitologico. Per noi è molto strano perché ci ricorda un po’ la favola: ‘c’era una volta un re….’. Ma il genere letterario mitologico delle origini è molto efficace perché, esattamente come le fiabe, con alcune immagini semplici che colpiscono la fantasia, che ti fanno ‘vedere’, ti dà delle ‘costole’ dell’esperienza umana. Tutti ormai sappiamo che le fiabe lavorano sulle grandi paure dell’umanità, i grandi desideri – in tutte le fiabe c’è un desiderio d’amore, la principessa che vuole sposare il principe, c’è sempre una difficoltà, e poi c’è sempre un modo per combattere la difficoltà; la difficoltà non è l’ultima parola. Questa è una struttura fondamentale della nostra esistenza, la costola portante: un desiderio ti muove, la realtà può creare dei problemi, … non ti scoraggiare, vai.

I racconti mitologici hanno queste strutture: ci dicono con immagini degli assi portanti, delle questioni che ci riguardano tutti.

Che cosa ci dice questo racconto? Prima c’è il racconto della creazione, l’azione di Dio che crea tutto bello e buono. Questa bellezza e bontà, quest’armonia, questo mondo che funziona – dove la terra dà frutto senza fatica, dove il gregge sta insieme al leone, dove tutto è pacificato, che sarebbe il sogno infantile di ciascuno di noi che ci sia un grande papà, possibilmente onnipotente che…’ci pensa papà!’ e che ‘io faccio bene i compiti, mi danno dieci, la vita funziona, e alla fine…’passeggia nella brezza della sera’; si rilassa contento! Il grande sogno che nessuno di noi, nonostante le ferite narcisistiche, il realismo, il dolore, abbandona mai del tutto. Poi impariamo a farci i conti, … però in fondo, tutti speriamo che facendo tutto bene, impegnandosi, alla fine qualcosa si risolve. La scrittura ci dice che questo grande sogno infantile – che, guarda caso, nel linguaggio dei miti viene messo dalla parte dell’azione di Dio -, il nostro sogno infantile, ma anche il nostro desiderio vitale di bellezza e di bontà, o sta in mano a Dio oppure è una regressione. Se te lo aspetti da qualcun altro sarai deluso. Dio può fare questo e, Gesù ci dirà, lo farà, nell’ultimo giorno. Ma il tempo della storia non è il tempo di questo. Perché? Perché nel tempo della storia il soggetto non è più Dio. Usciti dal paradiso terrestre, abbandonato questo presepio dove ogni statuetta sta al posto suo, fa sempre lo stesso gesto e tutto è perfettamente in armonia, nessuno occupa lo spazio di un altro … Quando si esce da questo presepio? Quando Adamo ed Eva pensano che vorrebbero occupare lo spazio di Dio. Cioè gli umani non stanno fermi, vorrebbero sempre occupare lo spazio già occupato da qualcun altro.

Si esce da questo presepio ed arriviamo a questi capitoli, e la prima cosa che ci viene detta è “Adamo si unì ad Eva sua moglie la quale concepì e partorì…” prima Caino, poi Abele. L’azione creatrice si è spostata, il soggetto della storia non è più Dio. Dio ha fatto i corpi di fango di Adamo ed Eva, ha dato loro il soffio, questi si sono animati; dopo si partorisce; gli umani devono fare qualcosa anche loro perché ci sia ancora vita sulla terra.

Diventare grandi

Questo versetto – come al solito il primo versetto che noi generalmente saltiamo – è decisivo. Ci dice: non stiamo più parlando del nostro desiderio, ma delle cose come vanno, di quando tocca a noi; stiamo descrivendo laddove noi ci mettiamo all’opera, collaborando all’azione creatrice di Dio. Quando Dio, nel racconto di Genesi, caccia dal paradiso terrestre, non dice, vi schiaccio perché avete disobbedito, – la sua non è una violenza distruttrice; il tono è mitologico, violento, perché lui era un padre padrone, perché nel 1300 a.C. non avevano l’idea dei padri democratici; il padre era uno che alzava la voce, altrimenti non era padre; dunque Dio alza la voce – ma il contenuto della sua maledizione è buffo, non so se l’avete mai letto. Che cosa succede quando si è cacciati dal paradiso terrestre? Si diventa grandi, si prende casa da soli, si lavora, si fanno figli, si parla. Il contenuto della sua maledizione è: vi tocca diventare grandi! E qui stanno ‘diventando grandi’.

Ci sono Adamo ed Eva; Eva partorisce Caino, il primogenito, e poi Abele. E dice: “Ho acquistato un uomo dal Signore”. Per una che è appena stata cacciata dal paradiso, è una bella frase! Ma qui ci si sta dicendo che ciò che ci compete può essere più o meno faticoso – diventare grandi è abbastanza una rottura -, ma se vogliamo fare qualcosa per Dio, non abbiamo alternative, dobbiamo diventare grandi. Con l’assunzione di responsabilità, di dolori, di errori, di confusione, di uscita dal desiderio infantile che questo comporta, … ci tocca diventare grandi! E’ questo l’unico modo per ‘acquistare’ qualcosa per Dio. Detto in parole più del novecento, non abbiamo che questa vita, per vivere la fede; non ne abbiamo un’altra, una religiosa, una pulita…No, abbiamo questa; qui possiamo acquistare qualcosa per il Signore!

Nella scrittura il primogenito, che in quella cultura era l’oggetto dei privilegi, -erano culture dove le eredità non si dividevano, per mancanza del principio democratico, ma anche perché non sarebbero sopravvissuti se tutto fosse stato frammentato; la suddivisione dell’eredità in occidente comincia dopo il millesettecento, cioè dopo la grande moria per le pesti e le guerre, la guerra dei cent’anni, per un motivo molto banale: l’Europa è al suo minimo storico dal punto di vista demografico, praticamente disabitata e continuare con il criterio di dare tutto al primogenito e gli altri di fatto morivano di fame, non avrebbe garantito la ripresa demografica dell’Europa, per cui si studia questo nuovo sistema e le cose si dividono – ma fino ad allora il primogenito aveva tutto e gli altri niente. Dunque il primogenito era soggetto di privilegi.

Nella scrittura il primogenito è sempre il cattivo. Anche qui ci dice qualcosa: la storia dei privilegi era culturalmente accettata, ma non digerita; non esistono scorciatoie. Nel diventare grandi si può provare a percorrere delle scorciatoie, ma si diventa cattivi. Se la via per diventare grandi è quella del privilegio, la scrittura dice: diventerete cattivi. Non si dice: vi andrà male – qui è andata peggio al secondogenito –; non si dice: se scegliete la scorciatoia dei privilegi, invece di diventare grandi, vi andrà male; magari vi va anche bene, ma diventate cattivi.

La complessità del reale

“Ora Abele era pastore di greggi e Caino lavoratore del suolo”. Queste due cose sono tutto, nella cultura che produce questo testo; si possono fare due cose: essere pastore o agricoltore e così sono Abele e Caino, sono tutta la complessità del reale. E’ ovvio che rispetto ad oggi è una complessità piuttosto semplice. Questo testo, non a caso, finirà con il padre di suonatori di flauto e di cetra, il padre dei fabbri… la complessità si moltiplica immediatamente, in dieci versetti. Figurarsi da allora ad oggi. La prima regola del diventare grandi è rendersi conto che il mondo è complicato; non solo, ma che noi siamo tante cose, tanti pezzi, alcuni biecamente materiali: pastori e agricoltori, altri un po’ più creativi: suonatori di flauti e di cetre, qualcuno già del terzo settore, il fabbro, quello non produce niente di suo, ma serve a fare gli attrezzi per quelli che producono.

Poi ci sono questi versetti, dal tre al sette, che sono terribili; la cosa drammatica è il totale, assoluto, ‘apparente’ disinteresse alla realtà da parte di Dio. Tutti e due, Caino e Abele, offrono i primogeniti del gregge o le primizie dei frutti, e Dio gradisce uno e non gradisce l’altro. Non ci è detto da nessuna parte per quale motivo. Infatti, quando si racconta questo fatto ai bambini, si dice: perché Caino aveva offerto frutti marci, mentre Abele aveva offerto i più begli agnelli. Ma nella Bibbia non c’è: è una giustificazione che noi troviamo perché non possiamo pensare che Dio sia così senza ragione da gradire uno e non l’altro. E questo è davvero un dato inquietante; tradotto in linguaggio moderno: ma perché la vita a volte funziona e a volte no? Perché sembra che a qualcuno vada tutto bene, tutto funziona e ad un altro tutto va storto? Di chi è la colpa? La domanda permane. Al capitolo nove di Giovanni i discepoli, vedendo un cieco nato, chiederanno: “Chi ha peccato? Lui o i suoi genitori?” perché bisogna trovare un motivo. Pensate quante energie mettiamo noi a cercare il colpevole di fronte a qualsiasi problema. E ci rassegniamo a fatica di fronte all’idea che non ci sia un colpevole.

Qui non si sta parlando di Dio, della scelta di Dio – di Dio, che crea, si parla nei primi tre capitoli – qui si sta parlando di noi, di quello che c’è nella storia, è descrittivo, e si dice: la storia è ambigua, a volte funziona, a volte no. A volte riceviamo benedizioni, a volte no, e ci sono dei motivi, ma non un motivo radicale; non è necessario sbagliare qualcosa perché le cose non funzionino; cioè qui si dice: voi non siete Dio. Diventare grandi significa sapere che le cose a volte funzionano e a volte no. Uno fa del proprio meglio, si impegna, ce la mette tutta e magari non raggiunge il risultato; o se volete ancora, il criterio non è la giustizia astratta, ma il criterio della vita è la realtà; è diverso. Questa è una lezione durissima, per noi, quasi intollerabile.

“Caino ne fu molto irritato e il suo volto era abbattuto”. E Dio gli dice: “Perché sei irritato e perché è abbattuto il tuo volto? Se agisci bene, non dovrai forse tenerlo alto? Ma se non agisci bene, il peccato è accovacciato alla tua porta…”. Noi leggiamo questa situazione, dicendo: sei abbattuto perché hai peccato. Qui dice esattamente il contrario: se ti deprimi peccherai. Nella nostra lettura di tipo moralistico c’è un’inversione molto grave; diciamo: perché sei cattivo, perché sei scocciato che Dio non abbia accettato la tua offerta, perché hai il volto abbattuto? Perché sei un peccatore, dunque gli avrai offerto frutti marci. E dunque, se io non offro mai frutti marci, devo essere sempre benedetto. Questo è il nostro ragionamento. Ma qui si dice: se tu hai fatto quello che dovevi fare, se hai agito bene, perché devi aspettare sempre un’approvazione, una benedizione? Perché non ti basta l’aver fatto ciò che dovevi fare? Se non ti basta aver fatto quello che dovevi fare…alla tua porta è accovacciato il peccato. Avere pace o non avere pace nella vita, non è un dato morale, ma è sicuro che, se non ti dai pace, prima o poi diventi anche cattivo.

Qui il peccato non è la causa, ma è il sintomo; e se noi riuscissimo solo a capire questo – ed è ciò che Gesù verrà per ridirci, ma è già scritto fin dalle origine del rapporto di Dio con Israele – il peccato non è la causa di tutti i mali, ma il sintomo che ci mostra laddove la causa è il nostro non poter stare a volto alto con noi stessi, il nostro non aver fatto pace con la nostra stessa vita! Per millecinquecento anni queste due cose hanno coinciso, perché avendo solo un linguaggio religioso, come si poteva dire ‘far pace con la propria vita?’. Con il linguaggio delle virtù e dei vizi…

Noi non lo diciamo più così, parliamo in termini psicanalitici, psicologici, con i modelli sociali, culturali… Usiamo totalmente altri modelli per dire ‘far pace con la nostra vita’ e abbiamo un mondo che è ‘come faccio pace con la mia vita’, e un mondo religioso dove c’è il peccato. A quel punto non sappiamo più cos’è il peccato; anzi il peccato è trasgredire a delle norme. Chi ha stabilito delle norme? La risposta è: la chiesa. E queste norme hanno senso? Qualcuna sì, per esempio non uccidere, altre molto meno e quindi per quelle che hanno senso, va beh, me ne faccio un problema. La norma di andare a messa tutte le domeniche, avrà poi tanto senso? Sarà un peccato grave? Ma no…Capite cosa ci succede? Ma il problema è che è esattamente il contrario: il peccato accovacciato alla tua porta vuol dire: se non fai pace con la tua vita, sei non sei in grado di stare nella tua vita a volto alto, indipendentemente dalla benedizione ricevuta o no, dal fatto che ciò che hai fatto sia stato riconosciuto o no – se è riconosciuto è meglio, dà più gioia ma anche certe volte non accade e devi far pace lo stesso con la tua vita -; se non hai fatto pace con la tua vita ti accadrà che cominci ad entrare in una spirale in cui la violenza nutre la violenza, in cui il peccato nutre il peccato, in cui la guerra che fai a te stesso, per essere nutrita, chiede continue energie e più metti energie a lottare con te stesso, più massacri te stesso e gli altri. E’ come quando si racconta una piccola bugia, poi devi raccontarne una un po’ più grossa, per non essere scoperto, e in pochissimo hai costruito un grande castello da cui non sai più come uscire perché dovresti ammettere di aver fatto un groviglio inestricabile e alla fine sostieni con forza delle cavolate pazzesche. La catena è quella: il peccato è accovacciato alla tua porta; tu racconti una piccola bugia a te stesso, su te stesso, a un certo punto della tua vita non hai il coraggio di fare verità; poi, per reggere quella bugia che ti dà inquietudine, devi metterne una un po’ più grossa e fare un altro spostamento, poi farne uno ulteriore, poi devi negare la verità sempre di più e alla fine ti trovi che ti sei confuso e non sai perché.

L’istinto del male …dominalo

“…verso di te è il suo istinto, ma tu dominalo”. Leggiamo con attenzione questo versetto: verso di te è l’istinto del peccato, ma tu dominalo. Il male è diffusivo di se stesso, e ha piacere ad allargarsi; sta a noi dominarlo, compiere atti a volto aperto, fare verità.

Caino invece mette la toppa peggiore del buco e dice ad Abele: “Andiamo in campagna!” e lo uccide. Il peccato accovacciato alla sua porta l’ha avuta vinta: inquieto, non avendo il coraggio di tenere il volto alzato, trova la soluzione di fare una cosa ancora peggiore, che così è ancora più maledetto, … e qui con un buon motivo.

“Dov’è Abele, tuo fratello?”. Caino ha scelto la via facile della riduzione della complessità: siamo in due, percepisco lui migliore di me; se lo elimino, rimango da solo. La riduzione è la nostra via facile, è la grande tentazione. E questo funziona a trecentosessanta gradi: in politica, in economia, ecclesialmente, nelle vite personali, di rapporto … la riduzione è sempre la via facile. Uno ha l’impressione che se semplifica un po’ paga un prezzo minore, perché è faticoso prendere sul serio tutta la realtà, si fa un piccolo sconto e lì comincia una valanga; immediatamente questo piccolo sconto comincia a richiedere l’esigenza di una negazione degli altri.

L’esito di tutta questa operazione … la collaborazione all’opera di Dio, partorendo un figlio, la complessità – allevatori e agricoltori -, l’inquietudine di fronte al mondo che non funziona, all’ambiguità della storia e la necessità di fare la propria battaglia e di diventare grandi a volto aperto, la scelta della menzogna e della riduzione come scorciatoia … l’esito di tutta questa questione, non è né un giudizio, né una condanna da parte di Dio – quello stesso Dio che pochi capitoli prima ha maledetto duramente… – che dice: Dov’è tuo fratello Abele? L’esito è una domanda. Il soggetto non è più Dio. Nella scrittura Dio è il soggetto nei primi tre capitoli e basta, dal quarto in poi – è lui il soggetto reale, ma … – il territorio raccontato è il nostro, non è un trattato su Dio, è una storia della salvezza, ci racconta di noi. E dunque Dio pone una domanda, ed è la domanda antiriduzionismi: dov’è tuo fratello Abele? Dov’è l’altro pezzo? E la risposta di Caino “Sono forse il guardiano di mio fratello?” non vuol dire che i fratelli si devono tener sempre per mano; la risposta di Caino è: io non sono complesso, non ho bisogno dell’altro pezzo. Cosa c’entra l’altro pezzo con me? Ed è la grande menzogna: non ho bisogno degli altri pezzi, io rispondo della mia coscienza. In questo siamo tutti Caino. Non lo diremo così perché la citazione ci fa troppa impressione e non diremo mai ‘cosa c’entro io?’; ma la nostra grande tentazione nella storia è sempre quella di ‘pensare a noi’; non di pensare il noi. Tutte le volte che riusciamo per caso, per decisione, per bontà, per dono dello Spirito Santo, a pensare le cose in termini collettivi, per il bene di tutti, in genere siamo molto felici; quando accade socialmente sono tempi creativi; quando accade personalmente sono quelle volte in cui ti senti proprio bene, perché se riesci a non pensare solo al tuo ombelico, ti deprimi meno e alla fine te ne viene anche un bene – ma non era quello su cui eri concentrato. La pace di te ti arriva da altrove, come un dono – ma questo ci fa faticare in modo enorme: io, io, io… Io penso sempre a me. L’esperienza tipica è l’innamoramento, il dato biologico-ormonale in cui non possiamo pensare a noi, perché costretti a pensare l’altro. Per cui tutti dicono: quando uno è innamorato, sì, c’è dolore, fatica, ma poi hai un’energia, è un tempo creativo, bello.. E tutti abbiamo il rimpianto dei tempi di innamoramento; anche di fronte ad amori consolidati, ogni tanto ci viene la nostalgia di quando… ‘mi batteva il cuore’ ! Certo, perché quando tu sei innamorato, psichicamente, dal punto di vista degli ormoni … sei costretto a pensare l’altro, da cui dipendi, non puoi dire ‘non ho bisogno dell’altro’. E alla fine te ne viene comunque un bene, pur in mezzo a strazi, dolori e lacrime, in mezzo a mille fatiche. Ma alla fine sei vivo, sei vitale, abiti la tua vita, sei a fronte alta.

La benedizione della pluralità

Il Signore dice: “La voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo!”. Dio non è insensibile alla ragione dei poveri, si mette da una parte, e sempre dalla stessa, dalla parte dei poveri. Dalla parte di chi subisce violenza; non si mette mai dalla parte di chi ottiene risultati per via di riduzione, per scorciatoie. Lo fa con tutti noi; non basta essere cattolici, credenti per avere Dio dalla propria parte, lo fa anche con noi. Ogni volta che nella nostra vita ci mettiamo dalla parte delle scorciatoie, Dio è dall’altra parte, non dalla nostra, anche quando lo facciamo per motivi religiosi.

E’ molto bella la sovrabbondanza dell’attenzione di Dio. Caino dice ‘troppo’! “Troppo grande è la mia colpa per ottenere perdono?” e in questo Dio riconosce che anche Caino è una vittima… di se stesso, e si mette dalla sua parte. “Il Signore impose a Caino un segno, perché non lo colpisse chiunque l’avesse incontrato”. Dio sta sempre dalla parte delle vittime, dalla nostra quando siamo vittime di noi stessi. Ma sta dalla nostra parte vittima, non dalla nostra parte onnipotente.

La conclusione è che si costruiscono le città. Caino costruì una città e la chiamò Enoch. Poi la discendenza di Caino si pluralizza ulteriormente. Caino ha provato a ridurre; Dio si è messo dalla parte degli sconfitti, ma alla fine Caino non ha avuto ragione; ha avuto ragione Dio. Ha ricostruito una pluralità, ha ovviato alla riduzione. Era rimasto da solo? Bene, facciamo una città, poi, oltre ai pastori e agli agricoltori, facciamo pure i flautisti, i fabbri e altri. Più complesso di prima. La riduzione è solo apparente, non paga.

Questo mi pare sia l’orizzonte in cui la scrittura ci situa di fronte alla pluralità delle nostre appartenenze a all’abitare un tempo della storia che è ambiguo. L’ambiguità non è un peccato e nemmeno una malattia da guarire; l’ambiguità della storia è la sua ricchezza. Che la storia sia plurale e ambigua, è quella la benedizione, non è dividere il mondo in buoni e cattivi, ma che ci siano suonatori di flauti e di cetre, fabbri, agricoltori, città, pastori. E’ nell’ambiguità della storia che c’è la benedizione, non nella soluzione.

Fossano, 11 Ottobre 2008

(testo non rivisto dal relatore)

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