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4 Aprile 2009
Stella Morra

7. Un Maestro inquietante

Commento a: Lc 4, 14-30


Premessa

Riprendo il filo di tutto il percorso perché altrimenti il testo di oggi rischia di sembrare un po’ strano. Stiamo riflettendo sulla questione dell’appartenere a due città; da una parte i problemi concreti della vita, le questioni che affrontiamo tutti i giorni, e dall’altra il credere in Dio con tutti gli annessi e connessi che ognuno di noi collega al credere in Dio: la preghiera, gli aspetti morali, spirituali. Cioè, il tenere fisso lo sguardo in Dio come ciò che è più importante di tutto e, contemporaneamente, essere presi dalle cose del mondo, con la fatica di non cadere in una logica di alternative – se uno si fida di Dio non dovrebbe fare questo e quest’altro, non dovrebbe perdere tempo…- e provare, invece, ad immaginare, a vedere, a capire, anche attraverso la scrittura, come queste due cose, sono l’una il corpo di quell’altra. Ciò che va emergendo dai testi che affrontiamo, e mi piacerebbe fosse chiaro, è che il vivere qui, e cose del mondo, le cose che ci riguardano, sono il corpo del credere in Dio, non sono un’altra cosa.

Nei primi testi abbiamo visto alcune questioni su problemi concreti: il denaro, la questione della corporeità, della sessualità, della responsabilità, della decisione; a febbraio c’è stato l’incontro in cui abbiamo ragionato un po’ sul tema del corpo; e negli ultimi tre testi dovremmo essere condotti a ritrovare l’aspetto più cristologico. Se i primi tre testi ci hanno descritto un po’ di più quali sono i problemi che noi abbiamo – almeno gli assi fondamentali dei problemi – questi ultimi tre dovrebbero farci vedere ‘l’eccedenza della grazia’, cioè quale rapporto c’è tra ‘la notizia’, ciò che Gesù ci dice o fa, e ciò che noi siamo, ciò ci verrebbe istintivo, che appartiene al buon senso, all’intelligenza, all’avere buon cuore, all’essere persone per bene che danno una sola parola, che sono onesti…. Non parliamo neppure delle cose platealmente negative, ma di quelle in cui uno cerca di campare in modo più o meno decente; parliamo di come ciò che l’evangelo ci dice, da una parte compie, non nega tutte le cose che vengono da noi, ma in qualche modo è anche un di più, è qualcosa che noi riconosciamo come profondamente nostro solo quando ci arriva, anche se non saremmo riusciti nemmeno ad immaginarlo; è come una sorpresa inattesa, che nel momento in cui arriva, scopriamo essere esattamente quello che desideravamo, senza sapere di desiderarlo. In questo senso, già l’altra volta, usavamo questa espressione: ‘l’eccedenza della grazia’; e dicevo: questo è, in fondo, il senso profondo della buona notizia cristiana. Altre volte abbiamo detto: il contenuto della salvezza è fare l’esperienza che noi non siamo tutti lì, siamo più di ciò che sperimentiamo. Il senso profondo della buona notizia è che noi siamo più di ciò che sperimentiamo ogni giorno, ogni momento, ogni tempo della nostra vita, ma in questo più non diventiamo un’altra cosa, proviamo una pienezza di noi che riconosciamo come nostra, come ciò che, se avessimo potuto, avremmo desiderato, … ma nemmeno eravamo in grado di desiderarlo. Già l’altra volta citavo il testo di Paolo che dice: lo spirito suscita in noi ciò che dobbiamo chiedere nella preghiera, perché nemmeno sapremmo che cosa chiedere. Questa dinamica è tipica di ogni rapporto di amore; se per un’occasione di festa io mi aspetto una certa cosa, sono contento se quella mi viene donata, ma sono molto più contento se non mi aspettavo niente e scopro che l’altro è riuscito ad individuare esattamente un mio desiderio mai espresso. Quando accade così c’è una pienezza di soddisfazione che non ha paragone rispetto all’essere comunque contento, ma dopo aver lasciato messaggi chiari circa i desideri. Gli amori funzionano come l’inatteso che ci raggiunge, in cui, abitandoli, scopriamo che è esattamente lì che si doveva stare; quella relazione, quella persona, quel tipo di dialogo era esattamente ciò che si desiderava per la propria esistenza, senza saperlo inventare così buono. Spesso ci capita di dire che, da ragazzini, avevamo delle aspettative di un certo modello di uomo o di donna; quello che accade normalmente non è mai così; uno sceglie un uomo o una donna completamente diverso e, nel bene e nel male, in questa diversità riceve qualcosa che in fondo non avrebbe neanche potuto immaginare. Questa è esattamente la dinamica di eccedenza, di un’identità per eccedenza, dell’essere ‘profondamente noi’, ma cosa che non era iscritta nelle premesse, che non è semplicemente la logica conclusione di ciò che c’era fin dall’inizio.

Da questo punto di vista i tre testi, quello di Pietro della volta scorsa, quello di Luca di oggi e l’Apocalisse della prossima volta, provano a contornare, a far vedere questa eccedenza. Il testo di Pietro, che abbiamo esaminato la volta scorsa, era esattamente il far vedere questa eccedenza su di noi. Ricordate? “Vi esorto come stranieri e pellegrini … voi siete la stirpe eletta, il sacerdozio regale, la nazione santa…” E la nostra conclusione era che il poter diventare un corpus, il non essere più soli, il non sentirsi più ognuno in balìa dell’ambiguità del mondo, ma il diventare popolo, era esattamente questa eccedenza: non un dovere, ma un regalo. Non è: dobbiamo essere una comunità, ma scopriamo una fraternità sostanziale che ci fa compagnia e che non era neppure immaginabile.

Quello di oggi è un testo che ci delinea, da questo punto di vista,  la situazione inquietante, l’eccedenza propria di Gesù stesso e del suo comportamento, di Gesù che si mette di fronte a noi come nostro interlocutore, così come era interlocutore dei suoi contemporanei. E la prossima volta, con il testo di Apocalisse, ragioneremo su questa eccedenza della storia tutta, di quello che succederà l’ultimo giorno, quando si tireranno le somme.

 

La riconoscibilità e l’eccedenza

Questo testo di Luca è molto conosciuto, lo abbiamo sentito tante volte nella Liturgia, ma ci sono aspetti a cui normalmente non facciamo caso: la prima metà del capitolo è il racconto delle tentazioni, è l’inizio del ministero pubblico di Gesù –Luca fa precedere i racconti dell’infanzia, Giovanni Battista, Zaccaria, ecc.- poi comincia il ministero, che in tutti i sinottici comincia con il racconto delle tentazioni, poi la chiamata dei discepoli ecc. Questo episodio, in Luca, rappresenta il parallelo al racconto delle tentazioni. C’è una ‘tentazione’ che ci riguarda tutti: fidarsi di ciò che gli altri ci rimandano. Nel deserto è raccontata come la tentazione posta dal demonio: ‘il demonio gli dice fai questo, fai quello…’ e qui, in questo testo, è raccontata come il dialogo tra Gesù e i suoi compatrioti che gli rimandano quest’immagine, gli dicono qualcosa di lui. A Nazaret gli dicono: sei tutto lì, esattamente come il demonio che, nelle tentazioni nel deserto, gli dice: hai fame? Sei la tua fame, dunque trasforma queste pietre in pane. Hai desiderio di potere? Comanda che gli angeli ti sorreggano. Sei tutto lì, sei il tuo desiderio, il tuo bisogno, e qui, ‘sei la tua fama’. La seconda cosa è che questo testo è costruito letterariamente, si dice in modo tecnico, come un chiasmo, cioè ci sono due versetti iniziali e due finali che fanno da cornice al brano e sono speculari. I due versetti iniziali sono: “Gesù ritornò in Galilea con la potenza dello Spirito e la sua fama si diffuse in tutta la regione. Insegnava nelle loro sinagoghe e gli rendevano lode”. E i due finali sono: “All’udire queste cose, tutti nella sinagoga si riempirono di sdegno. Si alzarono e lo cacciarono fuori della città e lo condussero fin sul ciglio del monte, sul quale era costruita la loro città, per gettarlo giù”.

Nel breve spazio di quindici versetti si passa dalla grande fama, le grandi lodi, alla volontà di ucciderlo. Verrebbe voglia di commentarlo: ‘Sic transit gloria mundi’ ‘Così passa la gloria riconosciuta dagli altri’. Ma qui c’è qualcosa di più; non c’è soltanto una considerazione sul fatto che oggi sei esaltato e domani puoi essere denigrato dalle stesse persone e, tra l’altro, per gli stessi motivi –insegnava nelle loro sinagoghe e tutti ne facevano grandi lodi; e poi, poiché insegna nella sinagoga, vogliono ucciderlo! Certo, non bisogna fidarsi troppo della gloria né del discredito, ma c’è qualcosa di più! Luca mette questo testo ‘in cornice’, tra due parentesi – vi ricordo che c’è poi ancora il versetto 30 “Ma egli, passando in mezzo a loro, si mise in cammino” – perché ci dice che si sta parlando del tema della riconoscibilità, della visibilità, di ciò che si vede e si capisce. Si parla di ciò che è chiaro agli occhi: i corpi, le parole, i gesti, ciò che i compatrioti vedono in Gesù, ciò che capiscono o non capiscono in lui e di Gesù che si pone di fronte a questa situazione con l’eccedenza finale che sta tutta nel versetto 30: “Ma egli, passando in mezzo a loro, si mise in cammino”.

Spero di riuscire a farvi vedere qual è la domanda che Luca si pone in questo testo: cosa succede a Gesù, cosa fa o non fa Gesù, cosa gli altri vedono di lui e gli rimandano sia in termini di fama, come in termini di denigrazione o di insulto. Come considera Gesù ciò che lo definisce? Cosa dice di se stesso posto di fronte alla fama, alle lodi o alla denigrazione?

Luca inizia dicendo: Gesù, con la potenza dello Spirito Santo, insegnava nelle sinagoghe. E’ il Figlio, mandato dal Padre – poco prima ci è stato raccontato il Battesimo di Giovanni su Gesù, quindi la dichiarazione del Padre che lo Spirito è su Gesù, e lui sta al suo posto, fa ciò che deve fare, insegna nelle sinagoghe. Ma dice anche : “Venne a Nazaret, dove era cresciuto, e secondo il suo solito, di sabato, entrò nella sinagoga e si alzò a leggere”. Questi primi versetti ci dicono: Gesù tiene il proprio posto, abita il proprio luogo, il luogo dove è stato allevato; secondo il solito entra nella sinagoga di sabato, secondo lo Spirito insegna nelle sinagoghe …

E qui ci sarebbe da fare una bella riflessione; mi sembra che spesso noi abbiamo molti problemi su cosa si deve fare dopo, perché non facciamo quello che c’è prima. Cioè, ci preoccupiamo di come si conciliano il lavoro, l’economia e la fede, perché non stiamo tenendo il nostro luogo, dove le cose sono molto semplici, concrete, una dopo l’altra…. Abitare il proprio luogo, tenere il luogo che ci è dato. Nell’ottocento si diceva: compiere i propri doveri, i doveri propri del proprio stato, cioè rimanere all’altezza del nostro luogo. Noi siamo sempre alla ricerca di un impegno ulteriore, perché, come in tutte le cose, non stiamo mai nel momento presente, siamo sempre o più avanti con l’ansia o più indietro col rimpianto, mai nel tempo dove siamo realmente, all’altezza del luogo dove siamo. Io credo che, per esempio, bisognerebbe farsi un bell’esame di coscienza su qual è il luogo che ciascuno di noi abita in questo tempo specifico della sua vita. Che cosa vuol dire tenere il proprio luogo?

Poi a Gesù viene dato il rotolo del profeta Isaia, un rotolo profetico – è chiaro che Luca sceglie ad hoc la parte della scrittura da far leggere a Gesù nella sinagoga di Nazareth -, perché Gesù, che è il Figlio obbediente del Padre, sa che lui stesso non è tutto lì e ciò che dice di sé, ciò che non è ancora accaduto, lo dice attraverso la profezia. Quando noi diciamo di noi stessi, in genere ci descriviamo per dire che non possiamo cambiare – è il mio carattere … è la mia educazione … sono fatto così…- Gesù fa esattamente l’operazione opposta: dice di sé a partire da un testo profetico, per dire che ‘il meglio deve ancora venire’.  Ciò che sono oggi non è che la forma iniziale di ciò che Dio vede di me.

Dio benedice la nostra esistenza

E Gesù legge: “La Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; a rimettere in libertà gli oppressi, a proclamare l’anno di grazia del Signore”. Mi sembra evidente che questo testo ci interpella fortemente nella riflessione che stiamo facendo. Poiché lo Spirito del Signore è su di me e mi ha consacrato con l’unzione, allora posso annunciare ai poveri un lieto messaggio, proclamare ai prigionieri la liberazione, ai ciechi la vista, rimettere in libertà gli oppressi. Poiché non io ho scelto di credere, ma lo Spirito del Signore è su di me, poiché Dio sta con me, io posso, nelle cose concrete, e nelle cose dolorose, essere un elemento di liberazione, essere uno che dà ai ciechi la vista, ai prigionieri la liberazione, ai poveri un lieto messaggio, la libertà agli oppressi. Il ragionamento sembra molto semplice, ma in realtà è molto ‘potente’. Al di là delle molte teorie, se noi riuscissimo a vivere davvero il fatto che Dio è dalla nostra parte, che Dio fa il tifo per la nostra vita e benedice la nostra esistenza perché fiorisca, noi avremmo delle esistenze fiorite, con molto spazio dentro e capaci di seminare semplicemente il bene intorno a noi, come molto probabilmente molti di noi, almeno qualche volta, riescono a fare. Quando gratuitamente incontriamo qualcuno, quando l’ansia e la preoccupazione di decidere non ci sovrastano, quando non abbiamo così paura del futuro da dover difendere non si sa bene cosa, quando ci concediamo di essere un pochino più contenti e ci viene fuori uno spazio e chi ci incontra dice: che persona carina, è piacevole, allora facciamo una piccola esperienza di liberazione. Mi rendo conto che è un’affermazione ‘banale’, così, semplice, senza possibilità di fare molti ragionamenti: non sono io che mi metto dalla parte di Dio ma, se davvero ho fiducia che Dio non mi abbandona, nemmeno sulla croce posso chiudere le braccia. Gesù, che il Figlio obbediente, nemmeno sulla croce dubita del fatto che Dio sia con lui, anche sulla croce ha spazio. Ha talmente tanto spazio che muore per i nostri peccati, diventa salvezza per tutti, come celebreremo nella Pasqua tra pochi giorni. Questa non è una teoria spirituale, è un dato molto concreto delle vite. Fidarsi del fatto che Dio è con noi e che nulla di male può accaderci, ci rende persone semplicemente e umanamente, molto concretamente liberatorie per noi e per gli altri.

La salvezza arriva da altrove …oggi

“Riavvolse il rotolo, lo riconsegnò all’inserviente e sedette. Nella sinagoga, gli occhi di tutti erano fissi su di lui”. C’è un attimo di sospensione, tutti aspettano di sentire cosa dirà. Qual è l’attesa? Cosa si aspettano da lui? Lui dirà delle parole e loro vogliono ucciderlo; si sentono punti sul vivo, si sentono toccati perché Gesù spezza il solito ragionamento, non fa una predica devota, dice l’unica cosa che non doveva dire, cioè che la salvezza arriva da altrove e che, se uno non è disponibile a riceverla, non succederà mai niente. Dice: “Oggi si è adempiuta questa scrittura che voi avete ascoltato”. Oggi si è adempiuta questa scrittura: in lui, nella sua obbedienza al Padre, c’è questa esperienza; e tutta la vita di Gesù ci viene raccontata così. Gli evangelisti dicono: passava beneficando, guarendo, facendo miracoli e noi, in fondo, lo immaginiamo sempre come una specie di maghetto, uno che, essendo molto diverso da noi, era Dio, si avvicinava ad un cieco e lo faceva vedere, un altro era muto e lui lo faceva parlare. E queste parole ce lo allontanano un po’, perché noi siamo tutti dei poveretti, vorremmo aver la possibilità di guarire coloro che amiamo, non ce l’abbiamo e quindi … -lo esprimo in tono un po’ ironico!

In realtà è esattamente il contrario: i vangeli ci raccontano i miracoli di Gesù per dirci esattamente che passava beneficando; cioè, più uno è in obbedienza con il Padre, più succede che la vita intorno a lui fiorisca e, dove lui passa, si apre benedizione, non soluzione dei problemi, ma benedizione. Ed è esattamente la stessa questione che è posta a noi: siamo in grado di passare beneficando, compiendo il bene perché dopo di noi resti una scia di benedizione e di vita fiorita? Ogni tanto, credo, sia capitato a tutti noi di incontrare e conoscere persone che davvero hanno lasciato dopo di sé, semplicemente, una quantità inenarrabile di benedizione. Di queste persone molti ti dicono: quella parola che mi ha detto, quell’incontro che c’è stato, quella occasione mi ha davvero consolato! Perché non si dovrebbe poterlo dire di ciascuno di noi? Che cosa ce lo impedisce? Lì scatta il nostro ragionamento di riconoscibilità e diciamo: il mio carattere, la mia educazione… la mia storia, il luogo dove vivo, il mestiere che faccio…. E tutta questa logica del non rimanere lì, del guardare indietro, mi fa dire: è chiaro, io non posso! … Perché no?

E’ esattamente qui il nodo che dicevo all’inizio tra riconoscibilità, comprensione ed eccedenza. In fondo noi viviamo tutti come persone che, poiché da adulti abbiamo dovuto, bene o male, poco o tanto, riconoscere la nostra stessa vita, farcela riconoscere dagli altri, sapere qualcosa di noi, sapere delle nostre ferite, delle nostre capacità, dei nostri limiti, diventare un po’ realisti… e poi abbiamo avuto esperienza con le persone che ci hanno ferito, deluso, rallegrato, arricchito, offeso…. tutte le cose che succedono, poiché siamo costretti alla riconoscibilità diventiamo schiavi condizionati di ciò che abbiamo riconosciuto. Rendiamo noi stessi con i piedi piantati in quel cemento a presa rapida che è la nostra consapevolezza di noi, e non riusciamo a dire: ok, questo io sono, questa è la mia attesa, che questa vita, fatta così, sia benedetta, non in astratto, in assoluto, nei mille modi teorici in cui la vita di ognuno potrebbe essere benedetta, ma questa, la mia! La mia, con questo desiderio, con questa cosa che vorrei fare prima di morire, con questo sogno che avrei. Noi non siamo capaci di dire ‘l’oggi’ della fede: oggi si è adempiuta davanti ai miei occhi questa scrittura. La chiesa, nella liturgia, ci fa dire per tutto il tempo pasquale: oggi, in cui Cristo nostra Pasqua è risorto… -non solo nel giorno di Pasqua, ma per tutta l’ottava di Pasqua – perché nella liturgia facciamo l’esperienza che la risurrezione inaugura un giorno senza tramonto, che non diventa mai ieri, è sempre oggi. E quindi nella liturgia continuiamo a ripetere ‘oggi’ per dire che siamo dentro un tempo in cui il nuovo si è imposto, non c’è più lo stesso ritmo precedente. Siamo in grado di dire ‘oggi’ rispetto alla nostra vita? Non di dire semplicemente domani, nell’eternità, nell’aldilà, oppure ieri, il mio carattere, la mia storia…. Ma dire ‘oggi’. Oggi questa parola si compie per noi, di fronte a noi, dentro di noi, negli altri!

La logica dell’affidamento

C’è poi un versetto strano: “Tutti gli davano testimonianza ed erano meravigliati delle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca e dicevano: ‘Non è costui il figlio di Giuseppe?”.

Il cambio di tono, il passaggio da ‘la sua fama lo precedeva e tutti lo lodavano’ a ‘volevano buttarlo nel burrone’, avviene qui: gli rendono testimonianza e sono meravigliati, ma vedono una discontinuità, vedono esattamente ciò che Gesù vuole compiere, vedono bene. E cioè, questo oggi di Dio, questa vita benedetta non torna … con il figlio di Giuseppe. Come si permette uno di interrompere la catena della schiavitù condizionata alla propria storia!? Perché, se uno solo la interrompe, tutti gli altri se ne sentono accusati. Non possiamo più dire: eh beh, è la vita, è così, mi piacerebbe fare tante cose, però… un po’ di buon senso, non si può… L’altra sera un bimbo, figlio di amici, a cui la madre, in occasione di un capriccio,  ha detto: non si può avere tutto, si è girato e, con una risposta meravigliosa, ha detto: perché no? Effettivamente, chi l’ha detto che non si può? E’ vero che, invece, ci sono tutte queste leggi; il figlio di Giuseppe non può alzarsi e far fiorire la propria vita così! Perché se no la sua stessa esistenza diventa un rimprovero per tutti noi che non possiamo più dire: eh, ma è la vita, vengo da questa famiglia, ho avuto queste opportunità e non altre; mi sarebbe piaciuto … fare di più, studiare di più, interessarmi di più … però, sai, la vita, i bambini, il lavoro… Perché no? E’ proprio qui la questione. Gli rendono testimonianza, sono meravigliati dalle parole di grazia, e immediatamente queste parole di grazia vengono vissute come parole di accusa a questa legge della schiavitù a se stessi. In fondo è rassicurante sapere che io sono solo quello che ho scelto, quello che ho prodotto, anche se è un male, anche se ho scelto male, ma l’ho scelto io; va bene, mi sono sbagliato, chiederò perdono; cosa volete infierire perché mi sono sbagliato? Ma tutto dipende da me, tutto è nelle mie mani. Invece una logica di affidamento all’oggi di Dio, è una logica molto più inquietante!

E c’è la risposta di Gesù: “Certo voi mi citerete questo proverbio: ‘Medico, cura te stesso. Quanto abbiamo udito che accadde a Cafarnao, fallo anche qui, nella tua patria”. Gesù li mette di fronte a questa logica del consueto, del possesso, delle logiche conseguenze, della vita com’è. Come, sei qui a casa tua, fa’. C’è questa polemica. E Gesù aggiunse: “In verità io vi dico: nessun profeta è bene accetto nella sua patria”. E poi cita due esempi della scrittura antica: la siccità al tempo di Elia, quando Elia viene mandato alla vedova di Sarepta di Sidone, dunque ad una straniera, perché possa vivere lei e suo figlio fino alla fine della siccità, e l’episodio della guarigione di Naaman il Siro, un altro straniero, da parte di Eliseo. E Gesù dice: “…c’erano molte vedove in Israele… c’erano molti lebbrosi in Israele…” perché mandati a guarire degli stranieri? Perché è l’altrove. Perché esattamente lo straniero è la figura più classica, più visibile di ciò che non è previsto – siamo ben consapevoli in questa cultura, con la sua paura degli stranieri che sta crescendo tra di noi! Lo straniero rappresenta la metafora di ciò che non era previsto, di quello che non fa tutte le conseguenze conservando questa schiavitù collettiva delle leggi che ci siamo dati, che sono le leggi del luogo, nel senso forte di questo termine, nel senso di identità, di accordo pre-culturale, pre-scritto, di quella cosa per cui puoi dire ‘va bene, è tutto sotto controllo’ – magari sgradevole, ma sotto controllo! Invece gli stranieri portano scompiglio perché non conoscono le leggi del luogo, perché, semplicemente, non sanno tutte quelle leggi non scritte che ci sembrano così chiare. E poi, come diceva un mio amico non particolarmente colto, gli stranieri sono maleducati perché ti danno tutti del tu. – Ribatti: ma, sai, è un problema di lingua … No, no, è un problema di maleducazione! Questo è il caso plateale del non riconoscere che quelli che vengono da altrove ci portano scompiglio, ci portano la loro domanda; non sono né più ricchi, né più poveri di noi, sono come noi, ma sono coloro per cui da altrove viene compiuta una benedizione perché, essendo stranieri, per definizione non sono sottoposti alla legge del luogo. Perché la loro condizione di stranieri li rende sbilanciati non per scelta, ma perché sanno –chi di noi ha fatto l’esperienza di vivere un periodo in una terra non propria, sa di essere stato affidato alla cortesia degli altri perché in un luogo altro non conosci bene la lingua; se non ti aiutano non entri nei ritmi e negli usi, perché non sai le cose, e quindi sei obbligatoriamente, e non per scelta, affidato. Questi due stranieri, nella scrittura, sono la figura di questo affidamento, di chi è affidato ad Elia o ad Eliseo; lo straniero non può essere schiavo della legge perché semplicemente non ce l’ha. Noi abbiamo la tendenza ad installarci immediatamente. Magari possiamo anche sopportare di essere stranieri per un po’, ma poi, per rilassarci davvero, dobbiamo fare ‘casetta’, trovare, anche se siamo in un altro luogo, delle cose che ci proteggano che siano nella nostra capacità di autogoverno. Qui, invece, l’esperienza è che la salvezza viene da altrove, da Elia o da Eliseo. Ed è per questo che la gente capisce bene; e dunque furono pieni di sdegno. “…tutti nella sinagoga si riempirono di sdegno. Si alzarono e lo cacciarono fuori della città”. Gesù morirà fuori dalle mura della città, crocifisso fuori, sul Golgota. Cacciare fuori dalla città è l’immagine simbolica: chiunque turba le leggi del luogo viene cacciato al di là delle mura, in modo che le leggi del luogo rimangano stabili. E noi da che parte delle mura stiamo? “…e lo condussero fin sul ciglio del monte, sul quale era costruita la oro città, per gettarlo giù”.

 

La volontà del Padre

E c’è l’ultimo versetto: “Ma egli, passando in mezzo a loro, si mise in cammino”. Anche in questo Gesù non segue la legge del luogo, non si difende, non entra nel conflitto, non moltiplica la schiavitù della violenza, non si giustifica, non si spiega … passando in mezzo a loro se ne andò… E si racconta, nei versetti immediatamente successivi,  che va a Cafarnao – ciò che hai fatto a Cafarnao fallo anche qui -, dove predica nella sinagoga e guarisce – cosa che non ha fatto a Nazareth! Quando anche lui è straniero, opera. Varie volte nel vangelo di Luca c’è questa immagine di Gesù che se ne va, che non accetta il contradditorio, non entra nella questione, se ne va.

Che cosa dunque si riconosce o si capisce? Qual è l’eccedenza che Gesù mostra di se stesso? E’ questa eccedenza profetica che dice che diventiamo strumenti di liberazione non se ci impegniamo per la liberazione degli altri, ma se ci affidiamo al fatto che Dio è dalla nostra parte, se lo spirito di Dio è su di noi. In questo possiamo abitare l’oggi di Dio, cioè semplicemente non essere così ingombri dalla schiavitù della nostra stessa esistenza da diventare automaticamente motivo di liberazione. Questo è ciò che Gesù dice come eccedenza di se stesso. Lui è talmente fedele, che finirà sulla croce, secondo il racconto della sua preghiera nel Getzemani che ci viene fatto dai sinottici, senza ‘sceglierlo’. Non è che lui decida che il piano per liberare sia quello di morire in croce, ma segue la volontà del Padre, ed arriva fino all’ultima conseguenza del suo comportamento. A forza di cercarlo per ucciderlo, alla fine riescono ad ucciderlo. Ma è la sua stessa vita che lo conduce lì.

Mi sembra che da questo punto di vista questo testo sia molto forte; invece di chiederci che cosa nella nostra vita quotidiana discende dalla scelta di fede, -poiché sono credente devo chiedermi come un credente si comporta sul lavoro, in famiglia – dovremmo, secondo questo testo, fare il ragionamento opposto. E cioè: la fioritura della nostra vita quotidiana dice quanto siamo credenti. Non dobbiamo spremerci le meningi per trovare chissà quali conseguenze, ma semplicemente riconoscere quanto siamo schiavi condizionati dalla nostra storia e tendiamo a mantenere tutti schiavi per non sentirci giudicati, oppure quanto siamo liberi dal condizionamento, quanto nella nostra vita c’è spazio nelle cose, non in teoria, nei rapporti con le persone, con il denaro, con il tempo, con l’organizzazione della mostra vita ecc. Se la nostra vita fiorisce, se non siamo così schiavi condizionati dalla nostra storia, allora vuol dire che forse siamo abbastanza credenti.  Mi pare che questo testo rovesci la questione: non tanto poiché scelgo di credere, ma, riconoscendo ciò che accade nella mia vita, sono in grado di sapere se sono un po’ credente, un po’ affidato oppure no. 

 

Domanda: Gesù non decide, ma segue la volontà di Dio; è come dire che Dio voleva vederlo in croce?

Nella fattispecie storica, lo volevano in croce quelli che l’hanno processato; né Dio, né lui. Lo dico, forse, in modo un po’ provocatorio: Gesù non era sciocco, per cui era abbastanza consapevole che se uno si mette a fare tutta una serie di cose, la conseguenza è che va a conflitto con certe situazioni. Quando dico che non l’ha scelto, intendo che lui non ha deciso di venire sulla terra per morire in croce, ma per fare le cose che ha fatto, sì. Faccio un esempio molto concreto: ciascuno di noi sa bene che, se si muove secondo alcune logiche nel mondo del lavoro, la paga. Spesso si sente fare dai cristiani questo ragionamento: certo, dovresti essere altruista, caritatevole, giusto, ecc., però… lo potresti fare se tutti lo facessero, perché se no tu sei caritatevole, giusto e ti fregano. Sì, perché no? E’ chiaro, questa è la logica. Gesù sa bene che se si mette a muoversi in un certo modo, gli succederà che, in un modo o in un altro, il sistema lo metterà in croce! Quando dico: fare la volontà del Padre, intendo ‘essere obbediente al mandato del Padre’, che è fare fiorire la vita degli uomini. Se lui si mette a far fiorire la vita degli uomini, progressivamente la logica conseguenza è che qualcuno lo ucciderà. Per dirla con una citazione di Bonhoeffer: la grazia non è mai a buon mercato. Il problema è quale fiducia ci mettiamo ad abitare sulla nostra e sull’altrui vita. I prezzi che si pagano sono tendenzialmente cari, perché la nostra vita è una cosa seria, quindi alcune cose hanno le loro logiche conseguenze. Se non voglio pagare quelle conseguenze, vuol dire che non sono sufficientemente convinto della cosa che vorrei fare. E’ ovvio che abitarci dentro non è così banale, significa una grande vigilanza sulle scelte e i luoghi concreti della nostra vita, che non possono essere dette in modo generico. Lì ci sono solo le nostre biografie, per ognuno la sua, in cui tu sai se in quel luogo, in quella situazione, in quella relazione sei rimasto all’altezza di ciò a cui ti eri affidato o no. Nessuno al posto tuo lo può sapere. Ogni biografia è diversa. E quando  la chiesa ha costruito degli elenchi di peccati, ad esempio, l’ha fatto a colpi grossolani dicendo che alcune cose al novantanove per cento dei casi non possono essere un modo per far fiorire la vita degli altri, per esempio ammazzarli. Nella tradizione la chiesa ha individuato come peccati delle azioni talmente grosse in cui quasi nessuno di noi ci si ritrova dentro, ma è chiaro che la chiesa può dare solo quella come indicazione. Per il resto, tutte le altre sfumature, possono essere dette solo dalle singole biografie.

Domanda: Gesù ha sempre seguito una logica che l’ha portato fino alla morte, non ha mai esitato ma alla fine, sulla croce ha detto: Dio mio perché mi hai abbandonato? Sono parole molto forti e fanno pensare: ma doveva veramente arrivare alla morte?

La premessa del ragionamento non è totalmente vera nel senso che Gesù ha quasi sempre esitato. E’ che noi abbiamo questa immagine eroica, che non corrisponde ai testi, nel senso che nella nostra cultura uno forte, che crede nelle sue idee, è uno che va  senza esitazioni. No, Gesù è un’altra cosa, almeno secondo i testi evangelici. Ci viene presentato come uomo capace di ambiguità e senso comune. Si prende come discepolo uno che poi lo tradirà, anche se nei racconti non si capisce bene qual è il tradimento, che forse era uno zelota, che credeva in un discorso molto politico, cioè uno molto diverso da lui, Gesù era uno capace di cogliere la complessità delle questioni. I vangeli in varie occasioni ci ricordano la sua titubanza, non solo sulla croce; nel Getzemani, nel momento della trasfigurazione, quando insiste a svegliare i suoi che dormono Noi abbiamo un’immagine di Gesù un po’ eroica, un po’ filmica. Doveva andare alla morte. Anche qui, se uno è molto onesto nel suo lavoro e per questo lo licenziano, dovevano licenziarlo? No, sperava di no, però era consapevole che si metteva a rischio. Non vuol dire che si augurava di essere licenziato, sperava di cavarsela, ma era consapevole del fatto che, mettendosi in un certo modo, la probabilità esiste. Da questo punto di vista la vicenda di Gesù è dello stesso tipo: fino all’ultimo minuto Dio Padre sperava che gli uomini capissero, ma era disponibile a pagare il prezzo della loro non comprensione. Sapeva bene che poteva finire che suo figlio sarebbe morto. E per questo lo ha risuscitato, per affermare che alla fine lui è più forte anche della non comprensione degli uomini. Di per sé lui lì ha giocato in senso serio, ha messo in gioco la libertà degli esseri umani. Questo è ciò che ci è accaduto e che ha fatto il nostro maestro, dunque noi dobbiamo essere consapevoli che il cristianesimo non è una forma di buona educazione tranquilla, è una questione in cui uno deve sapere che i prezzi da pagare possono essere anche abbastanza alti, per far fiorire la propria e le altrui vite.

Domanda: non ho capito bene la questione dello straniero. Perché Gesù non poteva fare a Nazareth ciò che faceva altrove?

Perché ognuno a casa sua è installato; perché lo straniero è l’unico che, per definizione, non può contare su se stesso, proprio perché è straniero; è uno che non è organizzato, è altrove e la condizione perché lui possa compiere i miracoli è di non essere organizzato, cioè di essere sbilanciato, affidato a qualcun altro, non poter contare su di sé, perché se conti su di te, la questione è tutta nelle tue mani, nelle tue scelte. Faccio un altro esempio: nel racconto del capitolo 24 di Luca, dei discepoli di Emmaus, Gesù può entrare nel dialogo tra i due perché i due stanno parlando tra di loro, sono sbilanciati l’uno verso l’altro e lui interviene: di cosa state parlando tra di voi? Entra in questa dinamica. Se ognuno di loro fosse stato zitto e muto, fermo per se stesso,  Gesù non avrebbe potuto dire di che cosa state parlando tra di voi. Tutti i vangeli hanno sempre queste figure: poiché la grazia arriva da fuori, se tu non sei sbilanciato, non ti raggiunge, perché se tu sei piantato sui tuoi piedi, organizzato, con tutto chiaro, non c’è spazio perché possa raggiungerti. Tutta la scrittura usa molto la figura dello straniero come la figura tipica di chi è sbilanciato, di chi, non essendo a casa propria, non può contare su una rete di amicizie, i possessi, la chiarezza della cultura, ma è sbilanciato per definizione. In quei tempi essere stranieri non era come fare l’Erasmus oggi, ma significava veramente essere in balia della generosità degli altri per l’ospitalità. E tutte le civiltà antiche hanno la legge del rispetto del pellegrino, dello straniero. Oggi, eccetto per il caso degli extracomunitari, abbiamo l’idea che lo straniero va in un posto con i soldi, va in albergo, può pagarsi ciò che gli serve. Nella scrittura invece lo straniero è colui che è affidato, perché non essendo nel proprio territorio, non può contare su se stesso. Gesù parla di stranieri rispetto alla casa d’Israele, compirà delle cose a Cafarnao che è in Israele, ma non è Nazaret. Dice: voi qui, in fondo, avete già fatto i vostri conti, sapete già tutto, contate su di voi, e non va bene. Gesù non può entrare. Nell’antichità ci sono anche le vedove, con gli stranieri; ci sono tutte le figure dei non socialmente garantiti: la vedova perché non ha una figura maschile, lo straniero perché non ha il suo clan, il suo luogo e così via.

Fossano, 4 aprile 2009

(testo non rivisto dal relatore)

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