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7 Marzo 2009
Stella Morra

6. Stranieri e pellegrini

Commento a: 1 Pt 2, 4-12


Premessa

Riprendo brevemente il percorso della lectio di quest’anno, anche perché i tre brani che ci rimangono cambiano leggermente la prospettiva rispetto ai primi quattro e può essere utile richiamare la logica generale. Stiamo riflettendo sul tema della duplice cittadinanza dei credenti: amare Dio e la terra, essere con lo sguardo fisso alle cose che contano, che restano e contemporaneamente con i piedi piantati nelle cose che passano, che hanno però un loro ruolo concreto nella nostra vita.

All’inizio, con il testo di Genesi, abbiamo cercato di vedere l’origine del fatto per cui queste due realtà tendono a separarsi o, a volte, addirittura a contrapporsi, come se una fosse il contrario dell’altra; a volte, nella storia della Chiesa si è pensato che il corpo, il denaro, la vita di famiglia… fossero delle diminuzioni rispetto ad una vita pura; com’è che nella scrittura queste due cose sono presentate come duplici, differenziate? Poi abbiamo visto tre aspetti concreti di questa duplicità, o meglio, della nostra esperienza terrena, e cioè la questione del denaro, quella dei corpi e quella delle decisioni, del potere, della responsabilità, rispettivamente col testo sull’amministratore infedele, il testo sulla domanda dei sadducei circa la donna che aveva sposato sette fratelli e la pericope su Gesù e i bambini.

Nei primi quattro incontri abbiamo disegnato un profilo che potremmo definire descrittivo, quella che tecnicamente, in teologia, si chiama la dimensione antropologica, cioè come funzioniamo noi. Certo anche in questi passaggi c’è già tutta una serie di indicazioni, di domande, di stimoli a migliorare, di provocazioni ad essere in qualche modo il nostro meglio, a non accontentarci di essere semplicemente quello che ci viene istintivo, ma già lo sforzo ad essere noi in una dimensione ‘in piedi’. Ma il tono e la logica erano quelle di descrivere il fatto che abbiamo a che fare con il denaro, con i corpi, con la necessità di prendere delle decisioni e di assumere delle responsabilità.

Dalla dimensione antropologica al profilo cristologico

I tre brani con cui cominciamo oggi la seconda parte, detto in termini tecnici, vorrebbero descrivere il profilo cristologico. Passiamo dal profilo antropologico al profilo cristologico. Non è una questione secondaria, bensì una delle faccende chiave del cristianesimo. Traduco, come al solito, in “cartoni animati” per spiegarmi più chiaramente: ciò che noi siamo chiamati ad essere è semplicemente il meglio di noi stessi, cioè partiamo da noi, da come siamo fatti e tentiamo di diventare più buoni, più giusti…, oppure siamo chiamati a diventare “un’altra cosa”? Quando parliamo delle due cose, usiamo normalmente i due registri senza porci troppe domande; diciamo che nel Battesimo siamo resi figli di Dio, cioè diventiamo un’altra cosa, una cosa che non avremmo per natura; diciamo che dobbiamo imitare Cristo e anche qui è un’altra cosa perché lui è vero Dio e vero uomo, è uguale a noi, ma è anche una serie di altre cose, dunque imitare lui non è semplicemente essere noi stessi. Dall’altra parte usiamo invece il registro più antropologico, cioè diciamo: in fondo il cristianesimo dà un senso ai nostri problemi, compie l’umanità… Provo a dire queste cose un po’ delicate con altre parole: noi siamo tentati di pensare che un cristiano sia una persona normale molto buona, molto altruista, ma di per sé è uno come tutti gli altri. In un certo senso è vero, ma quando parliamo con qualcuno che non crede, o lo pensiamo tra noi quando abbiamo dei dubbi, ci chiediamo: se tu vuoi essere la pienezza di te stesso, perché non credi? A rigor di logica, la conclusione sarebbe: o sei malvagio, cioè non credi perché non vuoi essere molto buono, oppure sei stupido, cioè non capisci. Dall’altra parte i cristiani hanno sempre pensato che è possibile essere uomini e donne nella pienezza della propria umanità, intelligenza, bontà, forza, capacità di relazione con altri, anche non essendo credenti e che l’essere credenti è, sì, qualcosa che ti aiuta anche nel tuo essere pienamente umano, ma che, contemporaneamente, è anche qualcosa in più, qualcosa d’altro.

In teologia questa questione rappresenta la differenza tra piano antropologico e piano cristologico. Il piano antropologico è ciò che siamo noi: creati da Dio, a immagine e somiglianza; è la descrittività. Dall’altra parte c’è il piano cristologico; Dio Padre non ha creato il Figlio; l’ha generato, non creato; Gesù è un’altra cosa. Da questo punto di vista si capiscono tanti dei problemi che noi, oggi, abbiamo nella comprensione; da un lato i continui tentativi di spiegare in termini umani il cristianesimo, che periodicamente falliscono. Continuiamo a dire che non è un’altra logica, una cosa estranea, è la pienezza di senso, di significato; se tu hai una domanda sul senso della tua vita, Gesù risponde. Solo che poi non è vero, perché se uno ha una domanda sul senso della vita, se è credente ce l’ha come credente e se non è credente ce l’ha come non credente, ma la domanda è uguale.

Le soluzioni, nel corso della storia della Chiesa sono state molteplici, a seconda delle diverse culture; oggi noi tendiamo ad una soluzione di tipo moralistico che, secondo me, è tremenda: gli esseri umani sono fatti per essere molto belli, poi normalmente sono cattivi, egoisti, ingiusti… perché non sono credenti; l’unico modo per essere molto belli sarebbe essere credenti. Siccome la maggioranza rifiuta, diventa cattiva. Questa è semplicemente una lettura moralistica del cristianesimo, come se il cristianesimo dicesse di me semplicemente che devo essere buono.

L’altra lettura è quella spirituale: io vivo da donna di questo secolo, faccio le mie fatiche, ho i miei problemi, vado e vengo, uso la mia intelligenza, le mie capacità, faccio tutte le cose normali, perché dentro, per me è molto importante credere, leggo la Parola di Dio perché mi dà coraggio e speranza, se mi sconforto, mi sostiene. Ma questa è la logica del “cristianesimo tavor”, in cui il cristianesimo è ridotto a una specie di ansiolitico che ti dà una mano. Va bene, perché tutte le cose che amiamo in genere ci fanno bene; se ho degli amici che mi vogliono bene, quando sono un po’ giù di corda, mi aiuta, mi conforta. Ma non è che uno ha degli amici perché quando sta male sa a chi appoggiarsi. Uno o ha degli amici o non li ha!

Da questo punto di vista raramente nelle lectio abbiamo messo in chiaro i due piani; abbiamo sempre usato i due registri, quello antropologico e quello cristologico, scambiandoli; soprattutto ci siamo concentrati su quello antropologico, descrittivo. Mi pare che stia giungendo il tempo di guardare in faccia, un po’ alla volta, quest’altra cosa: essere provocati dall’alterità che Gesù è nelle nostre vite, non solo dalla sua somiglianza. Ogni relazione fruttuosa è sempre una relazione che si basa su una somiglianza minima, perché se no non ti vedi e nemmeno ti capisci, ma anche sulla sfida posta dal fatto che l’altro è uno libero di fronte a te, cioè l’altro rimane ‘altro’. E trovare l’equilibrio tra queste due cose, a cui corrispondono due possibili esagerazioni – essere troppo appiccicati o troppo indifferenti, troppo uguali, troppo fotocopia oppure talmente distanti che a un certo punto non sai più cosa dirti – è molto complicato. E’ vero, però, che le relazioni fruttuose sono quelle in cui hai un elemento comune che ti consente di tenerti agganciato, di capirti, di riconoscere come rilevante quello che l’altro dice, di tenerci a capire ed essere capito, e contemporaneamente c’è un elemento di differenza che in qualche modo consente la sfida reciproca, l’innovazione costante della relazione.

Mi pare che stia giungendo il tempo in cui, di fronte alla Parola di Dio, possiamo provare tutti a fare lo sforzo, dopo esserci un po’ rassicurati su ciò che ci è comune con la Parola di Dio, di capire che la Parola di Dio non parla di strane cose religiose, estranee a noi, ma parla di qualcosa che ci descrive anche profondamente, con cui abbiamo una risonanza nel profondo di noi stessi. Ricostruito questo minimo di linguaggio comune per capire di che cosa parliamo, forse bisogna che cominciamo ad accettare la sfida di vedere anche la differenza, la radicale distanza che, in qualche modo, ci provoca.

Vedremo tre testi che ci dicono qualcosa di noi, della nostra differenza da noi stessi visti da Gesù. Quando Gesù ci guarda non ci vede come siamo, vede un’altra cosa; è una delle componenti fondamentali di ogni amore: chi mi guarda non vede solo ciò che io so di me, vede anche altre cose; questo è il motivo per cui in genere mi sento amato, perché quell’altro scommette anche su quello che io non so di me. La prossima volta vedremo il dato di differenza di Gesù stesso, sarà il testo tratto dal capitolo 4 di Luca, e infine, con il testo di Apocalisse, la sfida di differenza della storia.

Ripeto ancora una volta: non possiamo aspettarci che il cristianesimo sia una cosa che funziona per forza di inerzia: se uno ha capito due o tre cosette, gli sembra che Gesù Cristo sia una cosa seria, si mette a vivere così, poi le cose rotolano naturalmente verso uno sviluppo… perché il mondo, le nostre vite non funzionano così, ma certo è sicuro che il cristianesimo non funziona così! Non funziona ‘naturalmente’, scivolando verso un suo sviluppo. Vi dico come si esprime questa cosa in termini tecnici (si trova anche nelle risposte del catechismo): “La cristologia apporta all’antropologia la sovrabbondanza della grazia”. E la grazia sarebbe questa esperienza di amore gratuito da parte di Dio per cui viene chiamata in vita in me una parte di me che io non ero in grado di far nascere da solo, che non era iscritta nei presupposti, ma che nel momento in cui è chiamata in vita, io riconosco come profondamente mia, veramente mia, non estranea a me. Io credo che chiunque sia stato amato, anche una sola volta nella vita, sa esattamente di che cosa si parla. Chi ti ama in genere chiama in vita delle parti di te che tu non sospettavi di possedere. Mille volte ho fatto quest’esempio: un figlio ammalato ti dà un’energia che, pensata teoricamente prima, tu non possedevi. E’ il bisogno di quel piccolo di fronte a te, che tu ami, che ti ama e si aspetta da te rassicurazione, che chiama in vita delle energie di te, che nel momento in cui ci sono tu riconosci come tue. Diciamo in genere: non so chi mi abbia dato la forza! Tu ti sei data la forza. In realtà hai messo in opera qualche cosa che non era iscritto nelle premesse. Questa cosa si chiama grazia. Ed è esattamente questo: un cristiano non è un uomo o una donna “al massimo”; è un uomo, una donna, al meglio di sé, che onora se stesso e la propria umanità; dunque uno che cerca di essere il meglio possibile, ma che indipendentemente dal fatto che riesca ad essere il meglio o meno di sé, è uno che, essendo amato da Dio, riconosce in ciò che Dio chiama in vita in lui la propria verità come qualcosa che non era iscritto nelle sue capacità. Questo è essere credenti, è vivere sbilanciati su questo.

Oggi affrontiamo il capitolo 2 della prima lettera di Pietro, testo scritto verso la fine della vita di Pietro, non si sa se da lui o da Marco o da Silvano, intorno al 70-75 d.C., già quando la generazione dei testimoni originali sta finendo. Un testo scritto dunque con la preoccupazione di spiegare tutto bene alla generazione che verrà dopo. La lettera è un po’ difficile come genere letterario; leggendola dall’inizio alla fine, ha una logica per noi molto complicata; è una lettera di cui ricordiamo alcuni versetti tipo: “Siate pronti a rendere ragione della speranza che è in voi”. Il tema della lettera è proprio il nostro: tra le tribolazioni del mondo e le consolazioni di Dio; come vivere stando un po’ di qua e un po’ di là, che è quello che vi capiterà, dice l’autore, sapendo che la cosa non funziona in automatico, che ci saranno tribolazioni e fatiche. Questo è il tema di tutta la lettera. Il brano che abbiamo scelto, i versetti 1-12 del cap. 2.

E’ un testo complesso, di insegnamento. Noi preferiamo i raccontini perché ricordiamo gli episodi. Da un certo punto di vista questo è un testo più ‘adulto’; abbandona il linguaggio delle immagini, delle parabole, del racconto narrativo ed entra nel merito di alcune questioni, cerca di costruire un profilo, di spiegare. E’ la domanda che noi abbiamo sempre: chi me lo spiega?

 

Legge o libertà dello spirito?

I primi tre versetti mi sembrano il punto di partenza senza il quale non si può ragionare sulla dimensione cristologica, cioè quello che abbiamo fatto nei primi quattro testi; o, se volete, il punto senza il quale nemmeno si comincia.

“Deposta dunque ogni malizia e ogni frode e ipocrisia, le gelosie e ogni maldicenza…” cioè: dato per scontato che, essendo umani, fate del vostro meglio per non essere degli umani schifosi, ma della gente per bene – questo sta nella prima riga e mezza, è una apposizione iniziale, e poi sarà di nuovo nella conclusione – dato che siete gente per bene, virgola, … deposta ogni malizia e ogni frode e ipocrisia, le gelosie e ogni maldicenza… se no non si comincia neanche a ragionare. Da questo punto di vista, venti secoli di cristianesimo stanno ancora tutti prima di quella virgola, cioè ancora non siamo riusciti a dire virgola, dunque stiamo ancora in qualche modo sotto il dominio della legge, o perlomeno più preoccupati della legge che della libertà dello spirito.

Deposto tutto questo, “…come bambini appena nati bramate il puro latte spirituale, per crescere con esso verso la salvezza…”. Ovvio, se uno conosce un po’ i vangeli ti viene immediatamente la domanda di Nicodemo: come si può rinascere quando si è vecchi? Come possiamo essere bambini appena nati? Siamo gente rotta alla vita e alle avversità, abbiamo perso ingenuità e innocenza, non ci nutriamo di latte, abbiamo bisogno di cibo solido. Perché ci viene detto che, deposta la maldicenza ecc, inizia un’altra vita? Perché è esattamente questa la questione in campo, così come diventa evidente nel dialogo tra Gesù e Nicodemo. Bisogna proprio decidere che uno campa su un altro registro o che, come nel brano di Gesù e i bambini, decide di ritornare bambino, di riconquistare innocenza e ingenuità, capacità di nutrirsi di latte, di cose semplici, come una conquista seconda, non perché è piccolo, ma perché, diventato grande, vuole ritornare ad essere un ingenuo.

“…per crescere con esso verso la salvezza: se davvero avete già gustato come è buono il Signore”. E questo chiude la parentesi: da una parte, deposte malizia, gelosia, ecc., se davvero avete deposto, e se davvero avete già gustato com’è buono il Signore, allora si può ricominciare. Pensando a me trovo che ho spesso la mente, il cuore ingombri di malizie, frodi, ipocrisia, gelosia, maldicenza… e potrei continuare l’elenco, talmente ingombri di tali cose che non può entrarci più niente, c’è proprio poco spazio e dall’altra parte non sono del tutto certa di avere davvero gustato quant’è buono il Signore, di avere davvero fatto l’esperienza dentro di me che di questa faccenda ci si può fidare. Queste due questioni sono la ‘conditio sine qua non’. Dopo questi tre versetti c’è il brano che dice esattamente cosa ci succede. Tutto quello che viene dopo risponde alla domanda: se succede quello, che cosa vede Dio guardandoci? Che cosa vuole chiamare in vita nella nostra vita? Qual è la grazia che riconosce?

“Stringendovi a lui, pietra viva, rigettata dagli uomini, ma scelta e preziosa davanti a Dio, anche voi venite impiegati come pietre vive per la costruzione di un edificio spirituale, per un sacerdozio santo, per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio…”. Cosa vuol dire stringersi al Signore? Questa è una domanda seria; la interpretiamo tutti in termini spirituali: pregare, leggere il vangelo…; è una dimensione; ma c’è di più, c’è altro, ci sono altri modi in cui possiamo rimanere stretti al Signore? A me sembra che questa oggi cominci a diventare la nostra questione seria. Faccio un esempio tra i mille che si potrebbero fare; vi potrei descrivere perfettamente come san Benedetto o sant’Ignazio o santa Teresa d’Avila hanno immaginato delle vite dando delle regole perché chi voleva seguire la loro strada potesse rimanere stretto al Signore. Allora abbiamo le regole della vita monastica, le costituzioni dei gesuiti …Posso anche dire come nel settecento e nell’ottocento sono state immaginate le regole per la vita dei laici, di chi non necessariamente diventava monaco o suora. Chi era un laico devoto? Chi leggeva un certo giornale, votava un certo partito, era iscritto a certe associazioni, dava una quota del suo tempo o del suo denaro alla san Vincenzo, era responsabile dell’Azione Cattolica… Aveva tutto un insieme di cose molto concrete che, almeno nel modo in cui erano immaginate, lo dovevano tenere stretto al Signore continuamente, nella vita quotidiana. Questa è una cosa che noi non sappiamo più fare; non abbiamo un modo, ci è rimasto solo il modo spirituale, interiore, individuale, che però, giustamente, essendo rimasto da solo, si sta progressivamente inaridendo. Siamo tutti teoricamente convinti che per rimanere stretti al Signore bisogna pregare molto e leggere molto la scrittura, ma non riusciamo a farlo più di tanto, perché le nostre vite (il lavoro, la famiglia…) sono organizzate secondo un altro principio e diciamo: lo farei volentieri, ma non ho mai tempo… Ed è vero, è realisticamente vero perché se la tua vita è organizzata secondo il principio del lavoro, della famiglia, apparentemente, quel modo lì, che è il modo dei monaci o dell’ottocento, non ci sta più dentro. Ma qual è il nostro modo, di gente che vive come viviamo oggi, di tenerci stretti al Signore?

Esempio banalissimo: di per sé liturgicamente non c’è nessun senso che in una comunità parrocchiale si facciano quattro o cinque messe ogni domenica; ce ne dovrebbe essere una, perché se la messa è il momento in cui si fa comunità…. Ma tutti i parroci dicono: però, se ne tolgo anche una sola, ho la rivolta popolare, perché ognuno deve avere l’orario che gli fa comodo. Ed è vero, noi abbiamo anche le nostre ragioni; se io devo mollare tutto per andare a messa alle undici e mezza, se devo organizzare il pranzo, la visita alla nonna… intorno al fatto che la messa è alle undici e mezza, mi si scompensa tutta la domenica, invece vado a messa alle otto e mezza, mi faccio le altre cose ecc… Solo che, con questo sistema, ci siamo persi la riorganizzazione dell’esistenza intorno allo stringerci a Cristo. Che non necessariamente deve passare dall’andare a messa nell’orario che mi è più scomodo, intendiamoci. Quello che voglio dire è: dove e come concretamente sperimentiamo quanto a noi stessi, che il nostro scopo centrale è essere stretti a Cristo?

Pietre vive

Stringendovi a lui , pietra viva…”. Abbiamo nelle orecchie questa espressione ‘pietra viva, siete pietre vive, edificio spirituale, chiesa di pietre vive’. Cosa vuol dire? E’ un esempio infelice, perché se c’è una cosa morta è proprio una pietra! Se uno dice ‘pianta viva’, si capisce, ‘gregge vivo’, va bene… Se c’è una cosa che proprio sta lì, non si muove, non le succede niente, non cambia mai, sono le pietre! Cosa vuol dire pietra viva? E perché si dice che noi dobbiamo essere pietre vive? Lo dico con una battuta: perché alla pietra non succede niente tranne nel momento in cui va in mano ad un costruttore, perché la pietra non vive di vita sua. La pietra ha bisogno di qualcuno che la lavori o la metta in un muro, ne faccia un edificio o la scolpisca, o la utilizzi per fare un gradino, dalle più nobili cose alle più quotidiane. Noi siamo pietre vive, cioè siamo pietre che uno ha in mano; di nostro saremmo abbastanza inerti. Parlavo del costruttore, perché subito dopo si dice: “…pietre vive per la costruzione di un edificio spirituale”. Non siamo marmo di Carrara. A Gesù è venuto bene di essere marmo di Carrara e lì il padre ha fatto la sua scultura, il capolavoro; noi siamo pietre. E queste pietre da sole non fanno niente, siamo parte di un edificio. L’essere corpo, chiesa, non è un optional non è una cosa che o c’è o non c’è… no; o una pietra fa parte di un edificio, diventa una casa per altri, diventa qualcosa di utilizzabile, di vivo, per cui poi uno passa una mano su un muro e dice: ah, se queste mura potessero palare!! C’è una vita immessa. Ma se una pietra rimane sul bordo della strada da sola, non succede niente, non è una pietra viva per niente.

Al versetto sette c’è questa contrapposizione tra chi crede e chi non crede: “Onore dunque a voi che credete; ma per gli increduli la pietra che i costruttori hanno scartato è divenuta la pietra angolare, sasso d’inciampo e pietra di scandalo. Loro vi inciampano perché non credono alla parola…”. E’ una di quelle cose che oggi non vanno molto di moda, perché siamo tutti dialogici; “Dio – pensiamo –  non se la prenderà mica con quelli che non credono!”. Ma qui non si discute della loro salvezza o meno; non si sta ragionando su cosa succede dalla parte di Dio, ma su quello che si vede nel luogo le persone si mettono: chi è una pietra viva fa parte di un edificio; chi non è una pietra viva non fa parte di quell’edificio. Non che fa schifo, ma semplicemente che non fa parte di quell’edificio. Traduco: noi oggi non diremmo così perché la contrapposizione non ci piace; diremmo in positivo: se uno è credente si dovrebbe poter vedere che lo è, per poi tradurlo immediatamente in termini morali: non siamo abbastanza coerenti, ecc. Invece qui non è in termini morali; qui si dice: “…voi siete la stirpe eletta, il sacerdozio regale, la nazione santa, il popolo che Dio si è acquistato perché proclami le opere meravigliose di lui…”. Non perché siano buoni, perché siano i migliori, ma perché proclamino, rendano trasparente, visibile che l’amore rende belli, cioè che il fatto di essere amati rende tutti migliori.

Perché quelle quattro parole scelte per definire chi crede? E’ abbastanza indicativo nel linguaggio e nella logica dell’autore: in qualche modo sono tutti termini di inevitabilità, non di scelta. Stirpe: uno non sceglie in quale stirpe nasce; sacerdozio regale – qui l’autore ha in testa il sacerdozio ebraico; non c’è ancora il sacerdozio nel senso in cui lo diciamo noi oggi; il sacerdozio ebraico dipendeva dall’appartenenza alla tribù di Levi; non è che uno sceglieva di essere sacerdote, ma lo era poiché era nato in una certa tribù; conta anche l’accoppiata con l’aggettivo. Nell’antico testamento re e sacerdote sono spesso contrapposti. Il re rappresenta certe istanze, quelle della vita profana; il sacerdozio rappresenterebbe quelle della vita divina, spirituale, il culto, il tempio. Nazione santa; l’idea di nazione non è quella post democratica, dopo le unità nazionali ecc.; la nazione per un antico è un’appartenenza genetica: uno fa parte di una determinata nazione non perché ha scelto, ma perché è di quella tribù, di quel clan, perché sta con quelli del suo sangue. Popolo che Dio si è acquistato, come si acquistano gli schiavi; proprietà di un altro. Sono quattro termini potentissimi: stirpe eletta, sacerdozio regale, nazione santa, popolo che Dio si è acquistato, perché sono tutti e quattro termini fuori dall’ambito delle scelte. E qui si dice ‘Voi siete’, non ‘sarete’; cioè non si sta parlando della fine del mondo.

“Voi, che un tempo eravate non-popolo, ora invece siete il popolo di Dio; voi, un tempo esclusi dalla misericordia, ora invece avete ottenuto misericordia”. Qui i due temi che continuano, che sono ripetuti sono: da una parte nessun singolo, un corpo, un edificio, un non–popolo che è fatto popolo e dall’altra le opere che Dio ha compiuto, la grazia che ci viene data, noi un tempo esclusi dalla misericordia, ora invece abbiamo ottenuto misericordia.

“Io vi esorto come stranieri e pellegrini ad astenervi dai desideri della carne che fanno guerra all’anima. La vostra condotta tra i pagani sia irreprensibile, perché mentre vi calunniano come malfattori, al vedere le vostre buone opere giungano a glorificare Dio nel giorno del giudizio”. Qui c’è la questione che ci interessa di più. ‘Vi esorto come stranieri e pellegrini ad astenervi dai desideri della carne’; l’abbiamo sentito mille volte, ma la domanda è: che c’entra? Perché, uno straniero e un pellegrino non hanno desideri, non hanno fame, sete, sonno, desideri di amore, di ricchezza, di stabilità, di sicurezza? Qual è la logica per cui, come stranieri e pellegrini, vi esorto ad astenervi dai desideri della carne? E’ chiaro che questo dipende da venti secoli di lettura moralistica di questo testo, per cui desideri della carne sarebbero immediatamente i bisogni fisici e i desideri nell’ambito della sessualità e a quel punto non c’entra più nulla con gli stranieri e i pellegrini. In realtà qui sta dicendo un’altra cosa: come stranieri e pellegrini, traduco nel linguaggio del novecento, non potete investire su ciò che non è vostro. Nessuno si mette a fare dei lavori di ristrutturazione di una casa in affitto, se non gli crolla il tetto in testa, perché non investe soldi in una casa non sua. Come stranieri e pellegrini non potete investire eccessivamente in ciò che è qui. Ma, attenzione, perché non ci venisse un dubbio, ci mette subito: la vostra condotta tra i pagani sia irreprensibile. Investire vuol dire che non dobbiamo investire quanto alla nostra identità, non quanto alla qualità, perché la nostra condotta deve essere irreprensibile. Quindi dobbiamo assolutamente fare tutto benissimo, cioè, come si diceva al v.1, essere all’altezza del nostro essere uomini e donne irreprensibili, essere uomini e donne a tutto tondo quanto all’umanità, ma sapendo che non è questo che dice qualcosa di noi.

Noi abbiamo un’esperienza sacramentale in questo nel rapporto con i figli. Un figlio ti richiede il massimo dell’investimento, dovendo drammaticamente ricordarti che tu devi sapere di te anche nel giorno in cui quel figlio se ne va. E in genere i genitori faticano abbastanza su questa faccenda, passano da esagerazioni di un tipo ad un altro, fanno fatica a trovare equilibri, perché, se investi così tanto, se devi fare assolutamente del tuo meglio col cuore, l’intelligenza, spremerti fino in fondo per tentare di mettere in campo il meglio della tua umanità, è ovvio che dopo tu ne ricavi in termini di identità, cioè sai qualcosa di te. E regolarmente ci sentiamo dire: non bisogna volere che il figlio faccia le cose che tu non hai potuto fare, non puoi aspettarti che, poiché tu gli vuoi bene, lui sia necessariamente d’accordo con ciò che tu pensi sia il suo bene…. Perché evidentemente nella nostra esperienza umana queste due cose vanno molto insieme. Investire molto vuol dire aspettarsi un ritorno di identità. E qui si dice che uno degli elementi di novità dei cristiani è questo: che sono gente figli della libertà, capaci di investire tutto sapendo che la loro identità è altrove e che quindi non hanno assolutamente bisogno di esercitare potere nel loro investimento per ricavarne identità. E questa è una dura scuola, non si impara in un giorno, ci vuole una vita. Questa è la traduzione moderna della logica della croce. Non è andarsi a cercare del male, perché il male nella vita accade. La logica della croce è questa: ciò che Cristo ci dice è che il massimo della nostra identità ci viene da altrove a patto che noi investiamo tutto qui. Come se io spendessi tutti i soldi che ho per non comprare niente, pensando che se spendo tutti i miei soldi fidandomi, qualcun altro spenderà tutti i suoi, li darà a me e io ne guadagnerò. Per questo si chiama follia della croce! Questo è ciò che dice questo versetto.

“La vostra condotta tra i pagani sia irreprensibile, perché mentre vi calunniano come malfattori, al vedere le vostre buone opere giungano a glorificare Dio nel giorno del giudizio”. Questa operazione va fatta perché chi ci vede non veda noi ma veda Dio. Questo è l’unico modo per essere trasparenti, attraversati dallo sguardo di Dio.

Penso al tempo di quaresima in cui siamo immersi, cioè questa lunga sosta di sospensione che ci porta dalla vita ordinaria al tempo di Pasqua, ad una logica ‘altra’; pensate, la chiesa è sapiente, non si può passare dal tempo ordinario, antropologico – il tempo ordinario è quello che siamo noi, le opere i giorni, il giorno festivo, il giorno feriale, cioè così come funzioniamo -, a questa cosa pazzesca che è il triduo pasquale. Pazzesca non solo liturgicamente, ma sostanzialmente. A pensare e a vivere che la morte non è l’ultima parola, che siamo fatti per vivere, e per vivere in pienezza, che il male non potrà prevalere. Se uno è normale, entrare in questa logica, in questa fiducia, richiede sempre un salto mortale triplo, cioè richiede uno sforzo per cambiare il modo di valutazione, l’analisi che faccio. Perché se no ci catapultiamo nella messa di Pasqua semplicemente come dentro una cerimonia in cui uno si sente molto buono. E dice, sì, questo vangelo mi piace sempre molto, i canti sono belli e poi esce ed in realtà non è successo niente, è sempre lo stesso ritmo. La chiesa ci dà la quaresima come un lungo tempo di soglia per passare da una pressione atmosferica a livello del mare, ad un livello a cinquemila metri; se ci passi troppo velocemente ti viene un’embolia, c’è bisogno di un tempo di depressurizzazione, in cui mano a mano ti abitui alle diverse altezze. Ci dà dunque questo tempo di quaresima come una soglia, una porta, un passaggio da una cosa all’altra, in cui uno può guardare se c’è un gradino e rallenta per non inciampare. Due tra le caratteristiche delle soglie sono: fare attenzione ai gesti ordinari e rallentare leggermente, perché è ciò che ti consente di passare da un posto all’altro, da un ritmo all’altro.

Da questo punto di vista la quaresima potrebbe davvero essere il tempo fecondo, utile per chiederci, rallentando e facendo attenzione ai gesti normali, automatici, come possiamo essere irreprensibili, totalmente investiti, appassionati, totalmente spesi e contemporaneamente non attenderci da questo un ritorno di identità, o almeno cominciare ad attenderlo un po’ meno. Azzerarlo del tutto è dura, ma provare a guadagnare un pezzetto di libertà, perché questo è ciò che ci viene offerto come grazia. Ci viene detto che, se facciamo così, non avremo meno identità, ma più identità, staremo più saldi sulle nostre gambe, più contenti anche se di per sé nelle premesse dell’umanità sarebbe il contrario.

Fossano, 7 marzo 2009

(testo non rivisto dal relatore)

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