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12 Ottobre 2024
Stella Morra

1. Sperare “qualcosa”

Commento a: Lc 24, 13-35


Mi fa molto piacere essere qui oggi, mi è mancato questo appuntamento, la possibilità di condividere a voce alta alcuni pensieri intorno alla Parola. È un momento che ha sempre, per me, una risonanza, sia nel prepararlo – mi richiede tempi e passaggi che finirei per non dedicarle – sia in ciò che accade dopo, nei commenti che arrivano, non necessariamente tutti positivi. Ho capito un po’ di più la dipendenza dai social: se ti abitui ad avere un tessuto di comunicazione che reagisce a ciò che scrivi, quando non ce l’hai ti manca. Ad un livello meno esasperato, più tranquillo e pacato e con tempi di reazione magari lunghi, con le Lectio capita anche a me, e ne sentivo la mancanza.

Come molti di voi sanno, abbiamo dedicato il seminario estivo al tema “donne, chiese e poteri”. Come spesso succede per i nostri seminari, il tema era già affiorato negli incontri dello scorso anno e in parte anche al seminario dell’anno precedente. Non si può dire che sia arrivato a conclusione, ma, almeno in un primo momento, mi sembrava che il percorso delle Lectio non avesse da compiere un passo successivo su quel tema specifico. Ovviamente ci sono mille questioni aperte, si potrebbero fare mille approfondimenti ma non mi sembrava quella la situazione.

Inoltre, mi pare che il tempo in cui viviamo possa suscitare in noi un atteggiamento che la Scrittura definirebbe apocalittico, quello dei tempi ultimi. Molte volte, sentendo il telegiornale, mi è venuto in mente il testo escatologico di Matteo, in cui Gesù dice «si solleverà infatti nazione contro nazione e regno contro regno; vi saranno carestie e terremoti in vari luoghi» (Mt. 24, 7). Se ci si mette a fare le spunte – ok questo c’è, quell’altro pure… – mi è sembrato utile non sottovalutare il tema proposto per il Giubileo da papa Francesco.

Non tanto per il Giubileo in sé e neppure perché bisogna seguire per forza ciò dice il Papa. Il fatto è che papa Francesco, da buon pastore, ha dimostrato di avere a cuore, avere cura del suo gregge. L’abbiamo visto nel periodo del Covid, l’abbiamo visto in tante occasioni. Lui, che si prende cura del suo gregge, ha pensato che la Chiesa Universale avesse bisogno di mettere a fuoco e al centro il tema della speranza, di che cosa vuol dire avere speranza, di come e di cosa si può sperare, e lo fa con lo strumento del Giubileo.

Per il Giubileo del 2025 era possibile scegliere una marea di altri temi, perché ci sono varie scadenze, per esempio, l’anniversario di Nicea. Invece, essendo in questo momento Francesco uno dei pochi cui è riconosciuta una forte autorità morale, o almeno si prende atto di ciò che dice, si prende la responsabilità che ha e poiché il mondo ha bisogno di speranza, ha scelto proprio questo tema per mostrarne l’urgenza.

Ci sono tempi della storia che gravano anche sui singoli molto pesantemente, senza che quasi ce ne accorgiamo. In questo momento respiriamo un’aria piuttosto inquinata: non si tratta tanto di disperazione, esperienza individuale legata a condizioni storiche e che credo tutti una volta o l’altra nella vita abbiamo sperimentato. Ciò che ci riguarda tutti è quello che abbiamo provato a scrivere nell’introduzione al percorso: una specie di nebbia sottile che tende ad avvolgerci, rendendo tutto opaco, tanto che si vede sempre meno lontano. È come se l’orizzonte fosse sempre più ristretto, come se non avessimo più lo spazio e la visuale per dire «guarda che panorama! Mi piacerebbe arrivare su quella cima». Poi lo so che non ci arriverò mai, ma so che qualcun altro ci arriverà, che quella cima esiste, che è un luogo fantastico. Invece la nebbia copre tutto e io alla fine mi vedo solo più i piedi, e mi sembra normale che sia così.

Io credo che, in questo momento e a livello collettivo la mancanza di speranza sia questa comune esperienza. Leggendo la bolla di indizione del Giubileo, è evidente che il papa mira a questa questione, pensa che il suo popolo, il popolo di Dio, ma anche la terra intera, abbiano bisogno di fare l’esperienza di non essere confuso. La bolla d’indizione si intitola “non confundar”, che è la conclusione del Te Deum, “non sarò confuso in eterno”. È una preghiera antica, che si recita a fine anno, il 31 dicembre. È il momento di ringraziamento per l’anno trascorso ed è il grande augurio per l’anno successivo – che credo potremmo reimparare ad apprezzare. Non essere confusi, mi sembrerebbe una buona idea, soprattutto in tempi come questi.

Nell’introduzione ho riportato un versetto degli Atti (capitolo 2, 17b): “I vostri giovani avranno visioni, i vostri anziani faranno dei sogni”. È un versetto che io amo molto perché inverte la logica. Nei testi antichi i giovani sognano e gli anziani hanno visioni. Cioè, i giovani hanno fantasia – anche ingenuità – creatività, apertura al futuro. Gli anziani hanno visione, dovrebbero avere sapienza, capacità di contornare le situazioni, vedere in profondità; in aramaico è la stessa parola che significa profeta, veggente, colui che vede, che è in grado di riconoscere. Gli anziani, per esperienza, hanno visioni; i giovani, per coraggio ed energia, hanno sogni, e le due condizioni mandano avanti una società, un popolo. Nel versetto degli Atti si dice che nel tempo messianico, il tempo inaugurato da Gesù, i giovani hanno visioni e gli anziani hanno sogni. Questo versetto mi piace molto perché è questo il senso della speranza cristiana: creare un nuovo spazio, uno spazio al contrario, che non viene semplicemente dall’esperienza perché, per esempio, l’esperienza di oggi ci rende cinici. La visione, il buon senso, ci fa dire «chi fermerà la guerra?» Se abbiamo senso di realtà e un po’ di informazione conosciamo gli interessi in gioco, dai mercanti d’armi all’economia e pensiamo che soltanto i giovani possono immaginarsi di essere pacifisti… pia illusione, sogno. Negli Atti ci viene detto che, nel tempo messianico, gli anziani hanno sogni e i giovani hanno visioni. Ricostruire la speranza forse significa partire da uno spazio al contrario, in cui l’esperienza non rende cinici e l’energia non rende ingenui, in cui è possibile sognare seriamente, giocare seriamente. È lo stesso mistero per cui Gesù dice «se non ritornerete come bambini», è la stessa logica, bisogna invertire l’apparente normalità delle cose per comprendere uno spazio che non si vede.

La lectio di oggi

Questa è la cornice in cui ci muoviamo. Le lectio sono strutturate da molti anni nello stesso modo: i primi brani dell’Antico Testamento, perché descrivono le dinamiche antropologiche, poi i brani del Nuovo Testamento, che vi innestano la novità legata a Cristo. Quest’anno, come peraltro anche l’anno scorso, non sarà così. Ci sarà un andamento più altalenante.

Iniziamo con un testo del Nuovo Testamento, proprio perché la speranza non ha semplicemente fondamento nella nostra esperienza umana. Senza il punto di vista di Dio, in Gesù Cristo, ci può essere speranza, impegno, ma serve un punto d’appoggio al di fuori. Abbiamo parlato molte volte della fede come l’esperienza di vivere appoggiati su un’eccedenza: senza questa eccedenza la speranza non si dà, quindi bisogna partire da lì. E la speranza non è un’idea, ma un’esperienza. Quindi il testo di stasera è stato scelto per dirci da dove si comincia, che cosa significa sperare qualcosa.

 

Il testo: Lc 24,13-35

24 13Ed ecco, in quello stesso giorno due di loro erano in cammino per un villaggio di nome Èmmaus, distante circa undici chilometri da Gerusalemme, 14e conversavano tra loro di tutto quello che era accaduto. 15Mentre conversavano e discutevano insieme, Gesù in persona si avvicinò e camminava con loro. 16Ma i loro occhi erano impediti a riconoscerlo. 17Ed egli disse loro: «Che cosa sono questi discorsi che state facendo tra voi lungo il cammino?». Si fermarono, col volto triste; 18uno di loro, di nome Clèopa, gli rispose: «Solo tu sei forestiero a Gerusalemme! Non sai ciò che vi è accaduto in questi giorni?». 19Domandò loro: «Che cosa?». Gli risposero: «Ciò che riguarda Gesù, il Nazareno, che fu profeta potente in opere e in parole, davanti a Dio e a tutto il popolo; 20come i capi dei sacerdoti e le nostre autorità lo hanno consegnato per farlo condannare a morte e lo hanno crocifisso. 21Noi speravamo che egli fosse colui che avrebbe liberato Israele; con tutto ciò, sono passati tre giorni da quando queste cose sono accadute. 22Ma alcune donne, delle nostre, ci hanno sconvolti; si sono recate al mattino alla tomba 23e, non avendo trovato il suo corpo, sono venute a dirci di aver avuto anche una visione di angeli, i quali affermano che egli è vivo. 24Alcuni dei nostri sono andati alla tomba e hanno trovato come avevano detto le donne, ma lui non l’hanno visto». 25Disse loro: «Stolti e lenti di cuore a credere in tutto ciò che hanno detto i profeti! 26Non bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?». 27E, cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui.

28Quando furono vicini al villaggio dove erano diretti, egli fece come se dovesse andare più lontano. 29Ma essi insistettero: «Resta con noi, perché si fa sera e il giorno è ormai al tramonto». Egli entrò per rimanere con loro. 30Quando fu a tavola con loro, prese il pane, recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. 31Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero. Ma egli sparì dalla loro vista. 32Ed essi dissero l’un l’altro: «Non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre egli conversava con noi lungo la via, quando ci spiegava le Scritture?». 33Partirono senza indugio e fecero ritorno a Gerusalemme, dove trovarono riuniti gli Undici e gli altri che erano con loro, 34i quali dicevano: «Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone!».

35Ed essi narravano ciò che era accaduto lungo la via e come l’avevano riconosciuto nello spezzare il pane.

 

Commento:

13Ed ecco, in quello stesso giorno due di loro erano in cammino per un villaggio di nome Èmmaus, distante circa undici chilometri da Gerusalemme, 14e conversavano tra loro di tutto quello che era accaduto. 15Mentre conversavano e discutevano insieme, Gesù in persona si avvicinò e camminava con loro. 16Ma i loro occhi erano impediti a riconoscerlo.

L’episodio comincia con la descrizione di una scena: ci sono due che camminano parlando tra di loro e si avvicina qualcuno – nei tempi in cui ci si spostava sostanzialmente a piedi, capitava che qualcuno si aggregasse, per non camminare da solo, e che bene o male venisse inserito nella conversazione. Ma questa, che solo apparentemente è una semplice descrizione di scena, evidenzia alcune caratteristiche molto importanti. La prima è «due di loro». Vuol dire “non uno da solo”: la prima caratteristica previa ad ogni esperienza di speranza cristiana è che da soli non si spera, che bisogna essere almeno due. Meglio ancora se «due di loro», cioè due che sono una parte di un gruppo più grande, variamente definito. Non erano nel gruppo dei dodici, perché nell’elenco degli apostoli Cleopa non compare. Erano due dei settantadue discepoli? Può essere, non conosciamo i nomi di tutti i settantadue. Erano due della folla che aveva seguito Gesù? Erano vicini o distanti a quei “loro”? La prima cosa bellissima di questo testo è che “due di loro” vuol dire “più di uno, che sono parte di un gruppo umano il cui confine non è chiaro, non si può dire chi c’era dentro e chi era fuori. E dunque la condizione previa per sperare è essere più di uno, ma anche essere parte di qualcosa, anche se non sappiamo bene dove passa il confine.

Due di loro erano in cammino” cioè: fermi non si spera, questa è l’altra caratteristica. Siamo abituati a pensare che scappavano, come abbiamo ascoltato in tante letture moralistiche nelle omelie. Ma tutto questo non c’è nel testo: questi andavano da Gerusalemme a Emmaus, non abbiamo nessun elemento per dire qual era il motivo per cui ci andavano. Sappiamo dal racconto che non ci arriveranno, che torneranno indietro. Però camminavano, questo viene detto e questo è discriminante. Camminare è sbilanciarsi, ad ogni passo ci si può inciampare. Ogni volta che alziamo un piede, per un nanosecondo siamo in equilibrio precario, siamo scoperti. Nella Scrittura camminare è come dormire, perché quando dormi non controlli, come quando cammini, hai sempre un attimo di sbilanciamento.

“Due di loro erano in cammino per un villaggio di nome Emmaus distante circa 11 km da Gerusalemme e conversavano tra loro” e questa è un’altra caratteristica previa: non basta essere due, non basta un’appartenenza non ben definita, non basta essere in cammino. Bisogna conversare. La parola scambiata è l’altro elemento importante: quando papa Francesco dice che la Chiesa che il Signore vuole è una chiesa sinodale, dice che la Chiesa deve ripartire dalla conversazione, dal parlarsi, all’interno come all’esterno, perché anche parlare è uno sbilanciamento. È molto facile mantenere le mani pulite se uno sta zitto, osserva e non si compromette mai. Un’antica legge ecclesiastica diceva che è meglio stare sempre in fondo, perché quando si fa dietrofront, si è in prima fila, pronti a ogni cambio di casacca.

Il conversare mette in gioco; si possono dire delle sciocchezze e sentirsi rinfacciare ciò che si è detto; si può condividere qualcosa che si pensa, che si sente proprio, con altri e nel momento in cui è stato detto, non lo si governa più, perché l’altro può capire male, può non capire, può non sentire. Non ho diritti d’autore sulla parola. Quindi: erano due, di loro, erano in cammino e conversavano. Ma di che cosa? Perché questo è l’elemento discriminante. “… di tutto quello che era accaduto”.

Una delle questioni su cui sto riflettendo e che vorrei condividere con voi, perché mi sembra che a vari livelli, tanto più in questo tempo sinodale, stia diventando decisiva, è che ci poniamo sempre la domanda sbagliata. La nostra domanda di fronte alla storia, alle cose che accadono è «che cosa ho fatto io?» oppure «che cosa hanno fatto gli altri? il mondo? I potenti?» oppure ancora «che cosa potrei fare?» «che cosa avrebbero potuto fare gli altri?» Sono tutte domande sbagliate, perché l’unica domanda che sta dalla parte della storia della salvezza è «che cosa è accaduto?» Faccio un esempio molto semplice. Al termine di una lezione la tentazione è chiedermi «che cosa ho fatto? ho fatto una buona lezione? sono stata chiara? ho spiegato bene? mi ero preparato bene?» Sono tutte domande legittime, ma l’altra faccia di queste domande sarebbe «che cosa hanno fatto gli studenti? sono stati attenti? hanno capito? hanno la preparazione previa per capire le cose che io gli sto dicendo?» Chiunque si occupi di didattica vi direbbe che queste domande hanno un loro ruolo, ma sono sbagliate nella sostanza, perché alla fine di una lezione devo chiedermi «che cosa è accaduto in quest’ora di lezione?» perché il mio rapporto con quella classe oggi come ieri, è unico e irripetibile. Posso fare cento volte quel corso, ma non sarà mai più così.

Quell’ora di lezione, unica e irripetibile, è l’occasione propizia. Se a un certo punto vedo che gli occhietti di uno studente brillano, significa che è accaduto ciò che doveva accadere. Uno studente si è mosso. E spero che, uno alla volta, si muovano anche altri. Metto in luce questa differenza – e mi conforta che Luca la metta in evidenza proprio all’inizio – perché chiedersi che cosa è accaduto e confrontarsi su questo, da una parte ci libera da inutili sensi di colpa, perché non tutto quello che accade dipende da noi, è programmabile, governabile: c’è un pezzo di novità della vita che accade, per la libertà degli altri, ma a volte assolutamente per caso: perché hai spiegato quella cosa cento volte e solo oggi ti viene in mente un buon esempio, oppure perché gli studenti hanno dormito bene la notte precedente e si sono svegliati di buon umore, quindi ascoltano con una disponibilità diversa… insomma, perché la vita è piena di grazia e quando diciamo grazia non diciamo una cosa pia e astratta, diciamo che la vita è sovrabbondante, ci offre tante occasioni perché le cose accadano, basta che non cerchiamo di imbrigliarla in dighe troppo strette, come abbiamo fatto con i fiumi, tutti chiusi nel cemento e il nostro territorio è preda di un disastro dopo l’altro. E spesso facciamo la stessa cosa con la vita.

Credo che la prima esperienza di Chiesa sarebbe questa, reimparare a conversare su quello che è accaduto, che ci è accaduto, che accade nel mondo, senza la pretesa di trovare soluzioni immediate, ma intanto provare a capire che cosa è accaduto e quali fattori vi hanno contribuito. Ci saranno fattori che dipendono da me, dagli altri; ci saranno dinamiche economiche o di altro tipo, ci saranno anche frammenti di grazia, e bisogna riconoscerli. Ma non c’è altro modo di riconoscerli se non quello di conversare tra noi, non c’è un libro che li spiega.

“Gesù in persona si avvicinò e camminava con loro”. Mi fa sorridere questo “in persona”, un po’ perché mi fa venire in mente il Catarella del commissario Montalbano – “di persona personalmente” – soprattutto perché Luca sta dicendo che non è un fantasma, non è una visione: Gesù in persona, proprio lui. Abbiamo riflettuto tanto, nel tempo del Covid, sulla differenza tra il vedersi a distanza o di persona. Abbiamo imparato anche che la distanza salvaguarda la sostanza, e meno male che c’è, quando non si può fare diversamente. Ma ci priva di tutta la parte informale della comunicazione, e ci siamo accorti di quanto sia importante. Gesù in persona si avvicina a loro, Ma i loro occhi erano impediti a riconoscerlo”. Messe le premesse, da qui Luca ci dice la frattura, la crepa da cui si comincia a ragionare sulla speranza. La crepa è quello che gli occhi non vedono. C’è un testo di Charles Peguy, che si intitola “Il mistero del portico della seconda virtù”, e si trova online in versione integrale, ed è una riflessione sulla speranza in forma poetica. Ad un certo punto del testo ci sono questi versi, molto belli: “la fede che preferisco, dice Dio, è la speranza”; (…) “perché la fede crede ciò che è” (…) “la carità ama ciò che è”, (…) “la speranza vede ciò che non è ancora (…) e ama ciò che sarà”. In questo gioco, tra il credere ciò che non è ancora e l’amare ciò che sarà, ritorna il tema degli occhi. Gli occhi sono impediti a riconoscere, gli occhi da soli non bastano. Vorrei riuscire a farvi sentire con forza la costruzione di questo passaggio di Luca, che è bellissimo in ogni singola parola.

 17Ed egli disse loro: «Che cosa sono questi discorsi che state facendo tra voi lungo il cammino?». Si fermarono, col volto triste; 18uno di loro, di nome Clèopa, gli rispose: «Solo tu sei forestiero a Gerusalemme! Non sai ciò che vi è accaduto in questi giorni?» Domandò loro: «che cosa?» Gli risposero: «ciò che riguarda Gesù il Nazareno, che fu profeta potente in opera e in parole davanti a Dio e a tutto il popolo; come i capi dei sacerdoti e le nostre autorità lo hanno consegnato per farlo condannare a morte e lo hanno crocifisso».

Che cosa è accaduto? Solo quello che si vede? Il risultato è un volto triste, se ciò che riconosciamo come accaduto è solo quello che si è visto: un profeta potente, in parole e opere davanti a Dio e a tutto il popolo, che però i sommi sacerdoti hanno consegnato. La cosa meravigliosa è questo Gesù, un po’ mentitore, che si prende cura del volto triste, chiede conto della tristezza e se ne fa carico. Sappiamo benissimo che una delle cose più faticose è farsi carico della tristezza degli altri, anche delle persone a cui teniamo. E siamo tutti molto gelosi della nostra tristezza, perché abbiamo paura che sia maltrattata, perciò tendiamo a non condividerla. Allora, a chiunque ci chieda «come stai?» rispondiamo «bene!» o al massimo «abbastanza bene!» e l’altro sorvola sull’abbastanza e risponde «ah, mi fa piacere!»

Il fondamento della speranza cristiana è nell’avere cura, nel farsi carico, cosa che è profondamente diversa dalla guarigione. Perché la gente va a Lourdes? Perché spera in un miracolo, ovviamente. E poi, nel 99% dei casi, il miracolo non accade. Ma la gente non torna con meno fede. Perché è l’andare a Lourdes che fa la differenza, non il miracolo. È l’esperienza, corporea, relazionale, di sentirsi parte «di loro», di un grande popolo sofferente, in cui il volto triste non è una colpa e in cui molti si prendono cura, Dio in primis, ma anche tutti quelli che consentono il viaggio, che accompagnano, trasportano. È questo il miracolo: la presa in carico, la cura, non la guarigione. Il 99% delle persone che vanno a Lourdes non ottengono il miracolo, ma non sono deluse nella loro speranza. Lo stesso tra coloro che fanno un’esperienza di religiosità popolare, un pellegrinaggio, un santuario: non sono focalizzati sul risultato, di solito non ottengono quello che chiedono, ma il loro problema non è la guarigione, è la cura.

È interessante l’accusa: «solo tu sei così forestiero?» dal volto triste nascono i confini, chi è “dei loro” e chi non lo è. Due di loro dicono «ma tu sei un forestiero, sei un migrante, vieni da altrove». E dopo aver detto ciò che è accaduto, ciò che si vede – cioè: essendo incapaci di vedere ciò che sarà e di amare ciò che non vedono ancora – dicono:

 21Noi speravamo che egli fosse colui che avrebbe liberato Israele; con tutto ciò, sono passati tre giorni da quando queste cose sono accadute.

«Noi avevamo una speranza, ma è passato del tempo». Quello che frega la nostra speranza è il tempo, è il ritardo della parusia. Stamattina ho fatto 45 minuti di attesa al telefono di un call center. Come capita a tutti, dopo i primi 5 minuti ti arrabbi; nei secondi 5 minuti immagini a quali torture potresti sottoporre che hai organizzato quel call center… e poi ti rassegni, tanto che, quando ti rispondono, ti stupisci, perché quasi non te lo aspetti più. In un brano bellissimo in “frammenti di un discorso amoroso” Roland Barthes dice che se sei in ritardo ad un appuntamento, non conviene arrivare poco in ritardo, perché arriveresti nel momento della rabbia e ne riceveresti di tutti i colori. Ma se arrivi molto in ritardo, poiché dopo la rabbia viene il momento del «quello non verrà più e io ne morirò» quando tu arrivi gli ridoni vita e invece di prenderti una sgridata sei accolto come il benefattore dell’umanità. Sappiamo tutti che funziona così: la speranza è questione di tempo, e poiché Dio lo sa, non ci lascia poco tempo, se no arriva la rabbia, come per quei discepoli: sono passati duemila anni e il Signore non è ancora tornato! Il tempo è una discriminante, la virtù provata – dice l’apostolo Paolo – che trasforma la speranza.

Poi c’è una meravigliosa glossa che si ricollega agli «occhi incapaci di riconoscere»:

22Ma alcune donne, delle nostre, ci hanno sconvolti; si sono recate al mattino alla tomba 23e, non avendo trovato il suo corpo, sono venute a dirci di aver avuto anche una visione di angeli, i quali affermano che egli è vivo.

Gli era stato già indicato cosa guardare, che cosa fosse accaduto: «gli angeli hanno detto alle donne che egli è vivo». Ma «ci hanno sconvolti»: perché non si vede, perché non l’abbiamo visto noi, perché la parola delle donne non è affidabile, perché gli angeli sì, ma… e nonostante Gesù avesse fatto risorgere Lazzaro… Dunque, non solo non vedono – tra ciò che è accaduto – ciò che sarà, ma non vedono nemmeno ciò che già è stato, perché è fuori dal confine, è al di là delle loro aspettative.

Noi siamo qui, in questo punto. Sulle condizioni previe – sempre migliorabili – più o meno ci siamo; ma quando arriviamo al punto dove passa il confine tra ciò che è accaduto, ciò che si è visto, i risultati ottenuti, quelli non ottenuti e dall’altra parte del ponte si vedono altre cose: c’è un’eccedenza di pura grazia che non dipende dal mio governo. I discepoli hanno fatto una figuraccia, perché sono scappati, mentre sono state le donne ad andare al sepolcro, a compiere un gesto di pietà, mica loro! E non hanno trovato il suo corpo. In fondo, se avessero trovato il cadavere, sarebbe stato più facile, faceva parte delle cose che sono accadute: i nostri sacerdoti lo hanno consegnato, lo hanno giustiziato e il cadavere è lì a testimoniare che è una storia finita, «possiamo metterci una pietra sopra, avevamo sperato e ci siamo sbagliati.» Invece, le donne li sconvolgono perché il corpo di Gesù non è più lì e gli angeli dicono che è vivo. E poi aggiungono anche:

24Alcuni dei nostri sono andati alla tomba e hanno trovato come avevano detto le donne, ma lui non l’hanno visto».

Come quando da bambino, guardando i thriller, ti veniva da dire «girati, girati, c’è l’assassino!», ti verrebbe voglia di dire a Cleopa: «è lui! svegliati, stai parlando con lui!» Ma loro non hanno visto quel Gesù in persona. Non ci si può fidare solo del fatto che il corpo non c’è.

25Disse loro: «Stolti e lenti di cuore a credere in tutto ciò che hanno detto i profeti! 26Non bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?». 27E, cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui.

Prima di tutto, Gesù spiega. E gli dice pure «stolti e lenti di cuore»: cos’altro bisogna fare? come ve lo posso far capire? Allora parte dal loro terreno abituale, da quello che loro conoscono: Mosè, i profeti, la loro cultura. Ma spiegare non basta: come sappiamo bene, le cose fondamentali della vita non si spiegano, serve altro, e Gesù aggiunge ciò che serve.

28Quando furono vicini al villaggio dove erano diretti, egli fece come se dovesse andare più lontano.

È l’antico sistema degli esseri umani, quello spiegato da Roland Barthes: il ricatto affettivo. «ti lascio, non chiamarmi più!», che in realtà significa «prova a non chiamarmi e vedi cosa ti succede!»

29Ma essi insistettero: «Resta con noi, perché si fa sera e il giorno è ormai al tramonto».

Oltre alla poesia di tanti canti religiosi, qui c’è proprio un’invocazione bambina che vuole andare al di là degli occhi che non vedono, ma se non sa come fare e dice «non andare via, ti sei fatto carico della nostra tristezza, ti sei preso cura di noi…»  e gli danno un motivo tecnico: non si va in giro a piedi col buio, non è prudente.

Egli entrò per rimanere con loro. 30Quando fu a tavola con loro, prese il pane, recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. 31Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero. Ma egli sparì dalla loro vista.

Ancora una volta, il riconoscimento avviene quando sparisce, perché gli occhi non bastano, perché ciò che accade non è ciò che si vede. Non sto facendo ragionamenti spirituali, sto dicendo una cosa molto concreta: nelle relazioni, di qualsiasi tipo esse siano, non possiamo pensare che tutta la verità si veda, perché non è così. Le cose importanti normalmente non si vedono, ma solo passando per le cose importanti si riesce a costruire. È un rischio, perché ciò che non è visibile non è detto che lo prendiamo per il verso giusto. Per questo bisogna avere speranza e fiducia. Egli sparisce alla loro vista, e il gesto che compie lo riconosciamo tutti, perché è un gesto eucaristico. Ma sottolineo un altro aspetto: è un gesto di cura e di nutrimento, la cura di cui ogni neonato ha bisogno per poter vivere. È un gesto primitivo, e nella liturgia è diventato molto elaborato.

Da qui una domanda: le liturgie sono esperienza di qualcuno che si prende cura di noi? E di noi che ci prendiamo cura gli uni degli altri? Perché questa è l’esperienza che dovremmo fare: la liturgia ci è data, e la Chiesa ci raccomanda di andare a Messa ogni domenica, perché ritiene che gli umani abbiano bisogno che, almeno una volta alla settimana, potendo vedere la loro vita, la loro storia personale e quella del mondo, dal punto di vista di Dio, vengano nutriti e possano tornare alla loro vita nutriti, con più speranza. Credo che uno dei motivi per cui noi cristiani facciamo molta fatica, sia che le nostre liturgie sono spesso un esercizio di ostinazione: cioè si va a Messa cercando di non perdere la fede, non sono tanto l’esperienza di qualcuno si prende cura di noi. È vero, siamo diventati un po’ complicati, forse abbiamo perso un po’ di semplicità, però è vero che è difficile vivere l’esperienza liturgica come esperienza di cura.

32Ed essi dissero l’un l’altro: «Non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre egli conversava con noi lungo la via, quando ci spiegava le Scritture?». 33Partirono senza indugio e fecero ritorno a Gerusalemme, dove trovarono riuniti gli Undici e gli altri che erano con loro, 34i quali dicevano: «Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone!».

35Ed essi narravano ciò che era accaduto lungo la via e come l’avevano riconosciuto nello spezzare il pane.

Succedono due cose: i discepoli non dicono «ha risolto i nostri problemi», ma dicono «non ardeva forse in noi il nostro cuore…?» Il criterio è ciò che è accaduto in loro, il nutrimento, l’energia che ne hanno avuto, la forza, la speranza. Di per sé non è accaduto niente, stavano andando a Emmaus, erano depressi, Gesù appare e sparisce, non gli ha detto «adesso restauro Israele», ma il loro cuore ardeva, questo è il criterio. Dall’altra parte questo significa rimettersi in cammino al contrario, e non gli frega niente del buio; partono senza indugio e tornano a Gerusalemme.

È il disegno con cui Luca ci indica il movimento della conversione, non nel senso di una conversione morale, proprio nel senso di una inversione ad u. Significa cambiare l’orientamento. Ed è interessante che nasca una nuova conversazione – «davvero il Signore è risorto, è apparso a Simone» e loro raccontano di averlo incontrato per strada – una conversazione su ciò che è accaduto e come l’hanno riconosciuto. Sono due le cose di cui dovremmo imparare a conversare: ciò che è accaduto e il come.

Fossano, 12 ottobre 2024

Testo non rivisto dall’autore

Lectio 2024/2025

DataTitoloCommento a:
23 Novembre 2024
Stella Morra
2. Un popolo che spera e dispera
Gs 24, 1-28
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