Stella Morra
7. Perché sperare?
Ci stiamo avviando ormai al termine del nostro percorso. Questa è l’ultima lectio prima di Pasqua e mi sono chiesta a lungo se dare a questo testo un tono più festivo. Tuttavia, mi è sembrato importante mantenere questo tema della speranza un po’ coi piedi per terra. La domanda fondamentale, in questo contesto, secondo me è: “Perché sperare?” Nel nostro percorso — senza richiamare tutti i passaggi uno per uno — abbiamo visto come la cornice di riferimento fosse il testo di Luca 24, con la speranza intesa come eccedenza. Da lì sono scaturite molte riflessioni: speranza e legge, parole, segni, domande di speranza. Nell’ultima lectio, attraverso il racconto del peccato originale, abbiamo riflettuto su come, pur nella forza della speranza, il dramma e la tragedia restino realtà innegabili. L’interruzione che l’altro pone, specie quando l’altro è il male, è un’interruzione inevitabile, non si può negarla.
La lectio di oggi
Per questa lectio, ho scelto di compiere un salto più netto all’interno del Nuovo Testamento, selezionando un passo di Luca che ci invita a riflettere proprio su questo interrogativo: “Perché sperare?” Perché, in fondo, la tentazione sarebbe quella di pensare che non ci sia nulla in cui sperare: la vita è complicata, punto. Se le cose vanno bene, tanto meglio; se invece vanno male, pazienza.
Questo capitolo di Luca è esegeticamente molto complesso. Non vi propongo tutta la storia esegetica, anche perché si tratta di uno di quei capitoli “assemblati”, in cui gli evangelisti raccolgono e mettono insieme vari frammenti rimasti. Quando hanno redatto i Vangeli, dopo aver ricostruito organicamente la storia di Gesù, si sono ritrovati con quelli che tecnicamente vengono chiamati logion: brevi frasi o discorsi significativi, potenti, ma privi di un contesto narrativo preciso. A questi si aggiungono piccoli episodi, memorie importanti per la comunità, che gli evangelisti non volevano escludere, pur non trovando loro una collocazione sistematica nel racconto. Così, alcuni capitoli “di collegamento” diventano veri e propri collage di questi frammenti: un po’ come un cartellone da cantastorie, con tante piccole scene messe una dopo l’altra. Dal punto di vista narrativo servono a collegare un capitolo al successivo, ma, allo stesso tempo, testimoniano l’importanza attribuita a quei pezzi, al punto da non volerli abbandonare. Mentre, ad esempio, il discorso delle Beatitudini ha una struttura ampia, coerente, che tutti ricordavano — con il Padre Nostro posto alla fine — e quindi era chiaro che quello era un capitolo che era necessario mettere, questi frammenti avrebbero forse potuto essere tralasciati. Il fatto che invece siano stati conservati dimostra quanto fossero ritenuti preziosi dalla comunità primitiva, pur nella consapevolezza della loro natura frammentaria.
Gli evangelisti li assemblano secondo criteri propri, più o meno logici, e per questo troviamo alcune parole o episodi ripresentati in contesti e momenti diversi del ministero di Gesù. Non è sempre possibile sapere dove siano effettivamente accaduti. Ogni evangelista li caratterizza secondo la propria linea di fondo: Matteo, ad esempio, costruisce il suo Vangelo attorno al rapporto con la Legge, e dunque collega questi frammenti proprio a questo tema. Per esempio i “guai” che in Matteo seguono le beatitudini sono un tipo di testo di questo genere.
Luca, invece, utilizza come filo narrativo molto ordinato il cammino di Gesù verso Gerusalemme, perché per lui è fondamentale il passaggio dalla periferia al cuore della religione ebraica, al Tempio, dove Gesù morirà. Così, anche in questo capitolo, Luca infarcisce i frammenti selezionati di riferimenti a questo tema, quasi a voler dire: “questi episodi rafforzano il mio messaggio”. Si tratta, dunque, di un capitolo molto frammentato, e questa frammentarietà sarà evidente nel momento in cui lo leggeremo per intero. Nella liturgia, infatti, si preferisce valorizzare le singole unità letterarie, dividendo la lettura in sezioni. Ma, se si legge il testo di seguito, si percepisce chiaramente il continuo passare da un tema all’altro.
Dei primi tre brevi episodi, che non commenteremo oggi, due vengono comunque letti nella liturgia.
Il primo episodio riguarda il racconto dei galilei che Pilato aveva fatto uccidere e dei galilei morti sotto il crollo della torre di Siloe: fatti di cronaca, eventi tragici, di fronte ai quali la gente interroga Gesù sul perché di tali disgrazie. Gesù, secondo il racconto di Luca, risponde: “Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subìto tale sorte? No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo.” Un messaggio che può apparire duro, soprattutto se isolato dal contesto. Tuttavia, inserito all’interno del capitolo, diventa più chiaro. La prima premessa che emerge è molto forte: la questione chiave non è la colpa. Non si tratta di stabilire chi ha più peccato o di stilare graduatorie di colpe. La colpa, in questo discorso, è completamente fuori gioco: non è il centro della questione. Il nodo vero, invece, è la conversione. Questo è il messaggio della prima scena.
La seconda scena, anch’essa letta nella liturgia, è quella della parabola del fico che non dà frutti. Dice così: “Un tale aveva piantato un albero di fichi nella sua vigna e venne a cercarvi frutti, ma non ne trovò. Allora disse al vignaiolo: “Ecco, sono tre anni che vengo a cercare frutti su quest’albero, ma non ne trovo. Taglialo dunque! Perché deve sfruttare il terreno?”. Ma quello gli rispose: “Padrone, lascialo ancora quest’anno, finché gli avrò zappato attorno e avrò messo il concime. Vedremo se porterà frutti per l’avvenire; se no, lo taglierai”. E questo è uno dei temi centrali del Vangelo di Luca: la misericordia ha tempo. Non è questione di colpa, ma anche se non porti frutti, c’è tempo. Si può ancora zappare intorno, concimare, fare delle cose e vedere se i frutti arrivano. Però, diciamo, la questione non è né la colpa né i risultati, se vogliamo usare un linguaggio più attuale.
Il terzo episodio che, mi pare, non viene mai letto nella liturgia dice: “Stava insegnando in una sinagoga in giorno di sabato. C’era là una donna che uno spirito teneva inferma da diciotto anni; era curva e non riusciva in alcun modo a stare diritta. Gesù la vide, la chiamò a sé e le disse: “Donna, sei liberata dalla tua malattia”. Impose le mani su di lei e subito quella si raddrizzò e glorificava Dio.” Si tratta di una piccolissima guarigione, raccontata in modo molto sintetico: una donna viene guarita senza pronunciare una sola parola, e tutto avviene di sabato. Questo episodio diventa l’innesco per il ragionamento che segue, e rappresenta la seconda parte della terza scena.
Ricordiamo brevemente le tre scene: la prima è quella dei morti sotto la torre, la seconda è la parabola del fico sterile, la terza si apre con questa guarigione, che potremmo chiamare la parte A. E devo dire che, nel nostro linguaggio e nella nostra simbolica contemporanea, l’immagine di una donna che si raddrizza ha un impatto particolarmente forte, soprattutto in questi giorni. Una figura che torna dritta sulle proprie gambe, capace di autonomia, dignità, presenza: non più chinata. È proprio da qui che comincia la parte del capitolo 13 di Luca su cui si concentra la lectio di oggi.
Il testo: Lc 13,14-35
Terza scena, parte B
13 14Ma il capo della sinagoga, sdegnato perché Gesù aveva operato quella guarigione di sabato, prese la parola e disse alla folla: «Ci sono sei giorni in cui si deve lavorare; in quelli dunque venite a farvi guarire e non in giorno di sabato». 15Il Signore gli replicò: «Ipocriti, non è forse vero che, di sabato, ciascuno di voi slega il suo bue o l’asino dalla mangiatoia, per condurlo ad abbeverarsi? 16E questa figlia di Abramo, che Satana ha tenuto prigioniera per ben diciotto anni, non doveva essere liberata da questo legame nel giorno di sabato?». 17Quando egli diceva queste cose, tutti i suoi avversari si vergognavano, mentre la folla intera esultava per tutte le meraviglie da lui compiute.
Quarta scena
18Diceva dunque: «A che cosa è simile il regno di Dio, e a che cosa lo posso paragonare? 19È simile a un granello di senape, che un uomo prese e gettò nel suo giardino; crebbe, divenne un albero e gli uccelli del cielo vennero a fare il nido fra i suoi rami».
20E disse ancora: «A che cosa posso paragonare il regno di Dio? 21È simile al lievito, che una donna prese e mescolò in tre misure di farina, finché non fu tutta lievitata».
Quinta scena
22Passava insegnando per città e villaggi, mentre era in cammino verso Gerusalemme. 23Un tale gli chiese: «Signore, sono pochi quelli che si salvano?». Disse loro: 24«Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti, io vi dico, cercheranno di entrare, ma non ci riusciranno. 25Quando il padrone di casa si alzerà e chiuderà la porta, voi, rimasti fuori, comincerete a bussare alla porta, dicendo: «Signore, aprici!». Ma egli vi risponderà: «Non so di dove siete». 26Allora comincerete a dire: «Abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza e tu hai insegnato nelle nostre piazze». 27Ma egli vi dichiarerà: «Voi, non so di dove siete. Allontanatevi da me, voi tutti operatori di ingiustizia!». 28Là ci sarà pianto e stridore di denti, quando vedrete Abramo, Isacco e Giacobbe e tutti i profeti nel regno di Dio, voi invece cacciati fuori. 29Verranno da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno e siederanno a mensa nel regno di Dio. 30Ed ecco, vi sono ultimi che saranno primi, e vi sono primi che saranno ultimi».
Sesta e ultima scena
31In quel momento si avvicinarono alcuni farisei a dirgli: «Parti e vattene via di qui, perché Erode ti vuole uccidere». 32Egli rispose loro: «Andate a dire a quella volpe: «Ecco, io scaccio demòni e compio guarigioni oggi e domani; e il terzo giorno la mia opera è compiuta. 33Però è necessario che oggi, domani e il giorno seguente io prosegua nel cammino, perché non è possibile che un profeta muoia fuori di Gerusalemme».
34Gerusalemme, Gerusalemme, tu che uccidi i profeti e lapidi quelli che sono stati mandati a te: quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli, come una chioccia i suoi pulcini sotto le ali, e voi non avete voluto! 35Ecco, la vostra casa è abbandonata a voi! Vi dico infatti che non mi vedrete, finché verrà il tempo in cui direte: Benedetto colui che viene nel nome del Signore!».
Commento:
Ho scelto di trattare le prime tre scene solo come premesse, e non di approfondirle troppo, semplicemente perché conosco me stessa: se mi fossi dilungata su quelle, probabilmente non sarei riuscita a commentare il resto del capitolo. Invece, desidero arrivare fino in fondo, perché mi sembra che questo sia un capitolo davvero ricco e bello, composto da frammenti. È proprio un capitolo che richiama l’espressione di Giovanni 6: “Colligite fragmenta!” — “Raccogliete i pezzi avanzati”— riferita alla moltiplicazione dei pani.
Anche qui, i frammenti non vanno sprecati: sono pezzi che possono ancora nutrire, perché parlano a noi, oggi. Parlano alla nostra fame: una fame complessa, confusa, affaticata, che rispecchia la difficoltà del tempo che stiamo vivendo, con tutto ciò che ci accade intorno.
Allora, la prima faccenda è che il capo della Sinagoga si altera perché Gesù opera una guarigione di sabato. Ma è interessante la questione, non parla a Gesù, parla alla folla e dice:
14[…] «Ci sono sei giorni in cui si deve lavorare; in quelli dunque venite a farvi guarire e non in giorno di sabato».
Non riproverà lui perché guarisce, ma la folla perché viene a farsi guarire. E questa è un’antica storia. È colpevole il desiderio? È colpevole il desiderio di una vita guarita? E Gesù risponde spiegando non solo che non è colpevole il desiderio, ma non è colpevole nemmeno chi risponde al desiderio di una vita guarita. Ma in primo luogo scaccia ogni idea che il desiderio di una vita guarita abbia dei giorni prestabiliti, abbia una legge o se volete, come abbiamo detto nel secondo incontro, stabilisce una legge di libertà. La legge serve per essere più liberi, non meno liberi. E quindi replica così:
15…] «Ipocriti, non è forse vero che, di sabato, ciascuno di voi slega il suo bue o l’asino dalla mangiatoia, per condurlo ad abbeverarsi? 16E questa figlia di Abramo, che Satana ha tenuto prigioniera per ben diciotto anni, non doveva essere liberata da questo legame nel giorno di sabato?»
Mi sembra davvero evidente quanto questo versetto sia attuale, no? Stiamo assistendo a quella che sembra quasi una mezza fine del mondo, solo perché sono aumentati i dazi sulle merci [1]. Va bene, è comprensibile: questo crea un grande scompiglio. Ma pensiamo a un’altra cosa: sono crollate le borse quando si sono chiusi i confini alle persone? No. Le persone possono essere lasciate annegare in mare o respinte in modo violento, trattate come delinquenti. Ma se invece si muovono le merci e qualcuno osa aumentare il prezzo per farle circolare, allora sì, scoppia lo scandalo. È davvero strano, no? Gesù dice: “Ma come? Di sabato voi slegate l’asino e il bue per portarli ad abbeverarsi, e vi scandalizzate se questa donna — che nemmeno ha chiesto di essere guarita — viene liberata dalla sua malattia?”. Lei non ha chiesto nulla: è stato Gesù a vederla e a decidere di guarirla.
Questo versetto mi ha fatto davvero riflettere a lungo su come i nostri criteri di giudizio si spostino lentamente, quasi impercettibilmente, in nome di un realismo che è sì vero, giusto e necessario, ma che, spostandosi poco alla volta, finisce per farci perdere il senso profondo delle cose. Alla fine non ci ricordiamo più che l’aumento dei prezzi delle merci non è solo un problema per gli industriali che non sanno bene cosa fare, ma è un problema perché tanti figli di Dio resteranno piegati sotto il peso dell’ingiustizia. Quello che mi colpisce molto è anche la frase: “Non doveva forse essere liberata da questo legame?”. Gli animali e gli esseri umani devono essere sciolti dai legami. Qui, la parola “legame” richiama probabilmente l’immagine concreta di slegare il bue e l’asino dalla mangiatoia, e così, nella stessa logica, Gesù scioglie e libera la donna. Ma questo, per noi oggi, è altrettanto interessante: abbiamo anche noi bisogno di essere liberati dai legami? Sicuramente dai legami iniqui, ma quali sono questi legami oggi? Si può davvero sperare solo se si è raddrizzati, se si ha la pienezza della propria dignità; ma si può sperare anche solo se si è sciolti da quei legami ingiusti che ci trattengono e ci opprimono.
In questi giorni al Sinodo [2], ho riflettuto molto su quanto sottili e insidiosi siano i legami che ciascuno di noi si porta dentro. Un po’ la vanagloria, un po’ la paura, un po’ la voglia di apparire come il salvatore di ogni situazione, o ancora l’idea di dover sempre verificare e affermare la propria autorità: sono tutti esempi di legami iniqui. E poi ci sorprendiamo se facciamo fatica a sperare. È davvero difficile sperare se si è legati a una mangiatoia: non puoi giocarti l’eccedenza, perché sei bloccato lì, non puoi andare da nessun’altra parte. Forse, in questa Settimana Santa, sarebbe utile e interessante riflettere proprio su questo: come possiamo davvero scioglierci dai legami iniqui? Perché, e lo dico innanzitutto per me stessa, “lasciare andare” è una delle cose più difficili del mondo.
È interessante la duplice reazione alle parole di Gesù:
17Quando egli diceva queste cose, tutti i suoi avversari si vergognavano, mentre la folla intera esultava per tutte le meraviglie da lui compiute.
Lo stesso gesto può generare vergogna o gioia: è evidente che tutto dipende dai legami. Se sei prigioniero, ti dà fastidio vedere altri che sono liberi, o almeno più liberi di te. Magari perché hanno più aria dentro, perché non si fanno troppi problemi, perché si muovono con maggiore gratuità, senza essere schiacciati su sé stessi. È una storia antica, di cui parliamo da tanto tempo nell’Atrio: se una persona riesce a morire un po’ più ampia dentro di come è nata, è già un ottimo risultato. Significa avere conquistato un po’ più di spazio, morire meno rigidi, anche solo di poco, nella fiducia che il Signore porterà questo percorso a compimento. Ma almeno quel poco tocca a noi: dobbiamo provare a farlo, a sciogliere almeno le corde più grosse. Questa seconda parte del terzo episodio lo dice molto chiaramente: la colpa non c’entra (episodio 1), i risultati non c’entrano (episodio 2), i legami invece sì, c’entrano eccome. E quindi, quando il Sinodo Universale, nel suo documento finale, parla di “conversione delle relazioni”, dice una cosa verissima. Le relazioni profonde, legami, non sono solo i rapporti di amicizia, accoglienza o gentilezza con gli altri: sono anche le relazioni che ho con me stesso, con la Chiesa, con Dio, con le cose, con il potere, con tutto ciò che ha un valore simbolico. I mille legami che tessono l’arazzo della mia vita possono essere sia la rete su cui mi muovo e mi allargo, sia la prigione in cui mi rinchiudo.
Quarto episodio, dunque.
18Diceva dunque: «A che cosa è simile il regno di Dio, e a che cosa lo posso paragonare? 19È simile a un granello di senape, che un uomo prese e gettò nel suo giardino; crebbe, divenne un albero e gli uccelli del cielo vennero a fare il nido fra i suoi rami».
20E disse ancora: «A che cosa posso paragonare il regno di Dio? 21È simile al lievito, che una donna prese e mescolò in tre misure di farina, finché non fu tutta lievitata».
Un albero che diventa casa per tutti gli uccelli del cielo, e poi ancora il lievito che una donna prende e mescola con la farina finché la farina stessa diventa un’altra cosa. Non diventa lievito, ma può diventare pane. Sono due grandi metafore di cambiamento.
Quando nel Vangelo troviamo esempi del Regno di Dio, si tratta sempre di azioni, non di concetti astratti. Anche qui, dove grammaticalmente si dice che il Regno è “simile a un granello di senape” — quindi apparentemente un semplice complemento oggetto — in realtà ciò che conta è l’azione: la crescita del granello di senape, che da piccolo seme muore nella terra, diventa un grande albero e offre riparo a tutti gli uccelli. Questo è il vero senso del paragone, anche se formalmente sembra indicare solo un oggetto.
Ancora più evidente è l’esempio del lievito: sì, è un oggetto, ma la cosa davvero importante è che viene mescolato alla farina e, nel tempo, la fa lievitare e la trasforma in qualcosa di nuovo. Come sapete, nei Vangeli si trovano diverse similitudini per descrivere il Regno di Dio: sono sempre azioni — l’uomo che esce a seminare, e così via. Qui Luca conserva due immagini che sembrano quasi minime, ma proprio per questo ci dicono qualcosa di essenziale: l’orizzonte che si apre grazie a legami che liberano è l’orizzonte della trasformazione.
È l’orizzonte del cominciare piccoli e finire grandi, del crescere e del lievitare; ed è anche l’orizzonte in cui non si cerca di trasformare tutto a misura propria, ma si accetta che sia proprio il sé a diventare qualcosa di nuovo. Il granello di senape, di per sé, non aveva certo il desiderio di diventare casa per tutti gli uccelli del cielo, ma quando cresce e si fa albero frondoso lo diventa naturalmente, perché ha spazio. Allo stesso modo, il lievito si disperde nella farina e diventa pane per nutrire. Nessuno potrebbe mangiare il lievito da solo: così com’è, non nutre; ma il pane sì, e come! Proprio perché il lievito si è mescolato con la farina. Per costruire il Regno di Dio serve un’azione che mescoli il mio con l’altro, e che ci trasformi entrambi — un processo in cui tutti dobbiamo accettare di lasciarci trasformare. È lo stesso principio, perdonatemi se insisto su questo esempio, che ho visto nell’esperienza del Sinodo: la soluzione buona non la pensa uno solo a tavolino, ma nasce vissuta dai molti, quando insieme trovano una strada che viene compartecipata. E quella strada poi non resta uguale a come era stata pensata all’inizio, ma si trasforma in una soluzione condivisa, un percorso da fare insieme. Ognuno poi la interpreta secondo la propria sensibilità, certo, ma questa occasione sinodale ha preso il via grazie ad alcuni interventi che hanno sbloccato uno stallo: è stato un gesto di semina, un gesto di speranza, un segnale forte del non voler spaccare, ma di voler proseguire insieme. E questo processo è lievitato in buon pane, in una soluzione che ha permesso a tutti di trovare un terreno comune. È sciocco chi si lamenta dicendo che si doveva fare in altro modo: no, è proprio questa trasformazione che nutre. La trasformazione in sé, al di là del risultato.
A cosa è simile il Regno di Dio? Il Regno di Dio è la nostra speranza. Non tanto — o non solo — perché ci regalerà un mondo dove gli agnelli dormiranno accanto ai lupi senza paura, o dove le armi saranno trasformate in aratri (anche se speriamo che succeda davvero!), ma perché nel frattempo ci offrirà qualcosa di altrettanto potente: una grande doglia di trasformazione. Ci chiederà di mescolarci, e forse anche di sperderci un po’, lasciandoci trasformare dall’altro e, a nostra volta, trasformando l’altro. Non è la colpa a stare al centro, non sono neppure i risultati: sono i legami, e la grande speranza sta proprio qui. Ciò che possiamo davvero sperare è un Regno di Dio che, passo dopo passo, ci trasforma, che nel tempo ci rende diversi da noi stessi, più grandi, più aperti, più vivi di quello che eravamo.
La quinta scena è questa scena escatologica che Luca apre risegnando il suo tema, cioè dicendo:
22Passava insegnando per città e villaggi, mentre era in cammino verso Gerusalemme.
Riprende il filo della sua narrazione: Gesù sta camminando verso Gerusalemme, verso quello che sembra il peggiore dei risultati possibili — la sua morte — e insieme verso la migliore trasformazione possibile, la risurrezione. Liberandosi dei legami iniqui, mano a mano. Senza colpa, perché lui lo è senza colpa. Cammina verso Gerusalemme e un tale gli chiede:
«Signore, sono pochi quelli che si salvano?»
La domanda è bella, ma posta in questo modo, dopo aver sentito parlare del regno di Dio, ti verrebbe da dire: “Ma che ingenuo, non si tratta di salvarsi individualmente!” Qui si vede bene che siamo di fronte a frammenti di discorsi, pezzi diversi incollati insieme. Il poveretto che ha posto la domanda, forse non aveva sentito Gesù parlare del granellino di senape e del lievito. Ma la domanda è legittima anche per noi, che sappiamo che la questione non è salvarsi, perché ogni tanto ci ritroviamo a chiederci la stessa cosa: “Se la speranza è questa cosa così complicata, ce la potremmo fare o no? Io, ce la faccio? Perché io ho solo la vita mia, non ce n’ho un’altra.”
E Gesù dice una cosa dura e bella, che non vuol dire che dimentichi la misericordia, tutt’altro, ma non indica strade facili:
24«Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti, io vi dico, cercheranno di entrare, ma non ci riusciranno.»
E come al solito, usa una metafora: quella del padrone di casa. A un certo punto il padrone chiude la porta. È un’immagine potente, perché, diciamolo, noi umani capiamo davvero solo il linguaggio della fine del tempo. Quelli rimasti fuori bussano: «Signore, aprici!» Ma lui risponde: «Non so di dove siete». In altri Vangeli troviamo la frase: «Non vi conosco», ma Luca la formula diversamente, perché qui Luca vuole mettere il discorso dopo — «Abbiamo mangiato e bevuto con te, hai insegnato nelle nostre piazze!» — quindi non può far dire al padrone: «Non vi conosco». E quindi gli fa dire: «Non so di dove siete».
È come dire: “Siamo sempre andati a Messa la domenica, siamo anche dei cristiani bravini, ci siamo impegnati in parrocchia, abbiamo fatto e detto…”. Che va bene. Ma non è questo che qualifica. Il padrone insiste: «Non so di dove siete. Allontanatevi da me, voi operatori di ingiustizia». Questo è il criterio: operatori di ingiustizia. Ed è un criterio paradossalmente molto chiaro, anche in tempi molto scuri e complicati come i nostri.
Ognuno di noi conosce i propri luoghi, le proprie relazioni, le proprie responsabilità di Chiesa, di famiglia, di lavoro e forse dovrebbe chiedersi solo questa cosa: “Io opero giustizia?”
Realisticamente fin dove capisco, perché queste sono le cose che ci caratterizzano come umani, non siamo Dio, non siamo onnipotenti, né conosciamo la verità tutta intera. Quindi realisticamente e fin dove capisco: “Io opero giustizia?” In fondo questa è la domanda delle domande, la condizione per sperare.
29Verranno da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno e siederanno a mensa nel regno di Dio.
Essendo di nuovo per l’ennesima volta a dieta, mi sembra veramente un’immagine escatologica questa mensa festiva, questo banchetto che non ingrassa, dove si può sedere e mangiare e essere contenti con tutti quegli altri. E speriamo di essere tra quelli che verranno da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno. Questo mi pare il corrispettivo del racconto di Giovanni che dice che Gesù risorto ci precede in Galilea. Verranno da dove meno ve lo aspettate, non pensate che quelli di cui si sa da dove vengono, vengano tutti da Gerusalemme o da Betlemme o da Nazaret: vengono da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno, ma di quelli il padrone sa da dove vengono perché li è andati a raccogliere uno per uno e li ha aiutati a non essere operatori di ingiustizia.
30Ed ecco, vi sono ultimi che saranno primi, e vi sono primi che saranno ultimi».
Devo dire che preferisco questa versione di Luca che è limitativa, che non dice: i primi saranno gli ultimi e gli ultimi saranno i primi, tutti i primi e tutti gli ultimi. Dice che vi sono dei primi che saranno ultimi e degli ultimi che saranno primi. Non basta mettersi in ultima posizione per essere sicuri. È il rovesciamento radicale della speranza come eccedenza, la legge diventa un’altra, la logica diventa un’altra, i primi non sono più primi o non obbligatoriamente e gli ultimi non sono più ultimi o non obbligatoriamente.
E quindi poi c’è la sesta scena che è l’applicazione del criterio. È bellissimo perché Gesù ci fa vedere attraverso Luca questo percorso, quando arriva alla conclusione i farisei gli dicono:
«Parti e vattene via di qui, perché Erode ti vuole uccidere».
E Gesù dice:
«Ecco, io scaccio demòni e compio guarigioni oggi e domani; e il terzo giorno la mia opera è compiuta.
“Oggi e domani, e poi il terzo giorno”: certo, ha una valenza simbolica — un chiaro richiamo alla resurrezione e a tutto ciò che il numero tre rappresenta nella Scrittura. Ma, al di là dei riferimenti simbolici, il senso profondo è questo: se c’è ancora giustizia da compiere, demoni da scacciare, guarigioni da realizzare, allora si va avanti. E non importa quanto costi.
Gesù risponde con forza: «Dite a quella volpe: io ho un’opera da compiere, e la compirò. Però è necessario che oggi, domani e il giorno seguente io prosegua nel cammino, perché non è possibile che un profeta muoia fuori di Gerusalemme».
Onestamente, dal punto di vista esegetico non è chiarissimo cosa significhi questa affermazione, perché in realtà quasi nessun profeta è morto a Gerusalemme: sono morti quasi tutti altrove. Tuttavia, ciò che conta qui è il senso simbolico che Luca sta tracciando: il cammino verso Gerusalemme rappresenta l’immagine della città come cuore della presenza di Dio con il suo popolo, il luogo dove tutto si manifesta e si rende visibile. Ed è proprio lì che si renderanno visibili la morte di Gesù e, poi, la sua resurrezione. Ma subito dopo, Gesù se ne andrà: tornerà in Galilea, la Galilea delle Genti, cioè abbandonerà immediatamente Gerusalemme.
E qui c’è il lamento su Gerusalemme, che è un lamento strano. Tutti ricordiamo abbastanza il primo versetto:
34Gerusalemme, Gerusalemme, tu che uccidi i profeti e lapidi quelli che sono stati mandati a te
Spesso questo versetto viene citato per dire: “Ah, voi che non mi riconoscete per quello che sono, un profeta, e voi, disgraziati di Gerusalemme, che lapidate i profeti!” Solo che c’è la seconda metà del versetto, che è davvero strana, perché se questa è la maledizione… beh, va bene anche essere maledetta, non c’è problema.
… quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli, come una chioccia i suoi pulcini sotto le ali, e voi non avete voluto! 35Ecco, la vostra casa è abbandonata a voi! Vi dico infatti che non mi vedrete, finché verrà il tempo in cui direte: Benedetto colui che viene nel nome del Signore!».
Cioè, la nostra casa ci è stata data, l’abbiamo voluta… divertiamoci pure, è affidata a noi. Ma guardate che è davvero strana questa cosa. E se ci guardiamo intorno, oggi, o leggiamo due volte il giornale, viene da pensare: ma non è che Dio ha davvero lasciato la nostra casa a noi? Forse si è stancato di tutta questa storia.
Poi arriva l’ultimissima parte del versetto: «Non mi vedrete — non mi riconoscerete — fino al giorno in cui potrete dire: Benedetto colui che viene nel nome del Signore!» Cioè, lo riconosceremo. Proprio come accade, per riallacciarmi all’inizio di questo percorso, ai discepoli di Emmaus: si aprono loro gli occhi nel momento in cui lui sparisce, e finalmente lo vedono quando non c’è più.
È come dire che tutti, anche Gerusalemme — il cuore religioso che ha voluto in qualche modo tenere per sé la presenza di Dio — anche Gerusalemme dirà: Benedetto colui che viene nel nome del Signore!. Riprenderà l’antica lode dei salmi per dire benedizione a colui che viene da fuori, entrando in Gerusalemme.
E allora perché sperare? Sperare perché, se non si tratta di colpa né di risultati, ma di liberare i legami per un regno di Dio che è trasformazione, sapendo che non è a costo zero e che il criterio è operare giustizia… se è così, ce la possiamo fare. Al di là, in fondo, delle nostre vittorie e sconfitte quotidiane, che certo possono ferirci e rendere la vita difficile, ma non possono fermarci.
Fossano, 5 aprile 2025
Testo non rivisto dall’autore
[1] Nel 2025 l’amministrazione Trump ha innescato un “guerra” commerciale imponendo dazi elevati sulle merci importate negli Stati Uniti.
[2] Dal 31 marzo al 4 aprile 2025 si è svolta la seconda Assemblea Sinodale delle Chiese in Italia.
Lectio 2024/2025
Data | Titolo | Commento a: | |
---|---|---|---|
12 Ottobre 2024 Stella Morra | 1. Sperare “qualcosa” | Lc 24, 13-35 | Leggi di più |
23 Novembre 2024 Stella Morra | 2. Un popolo che spera e dispera | Gs 24, 1-28 | Leggi di più |
21 Dicembre 2024 Stella Morra | 3. Parole che fanno sperare | Is 35, 1-10 | Leggi di più |
25 Gennaio 2025 Stella Morra | 4. Segni che fanno sperare | Ger 1, 1-12 | Leggi di più |
15 Febbraio 2025 Stella Morra | 5. Domande che fanno sperare | Rm 8, 18-35 | Leggi di più |
22 Marzo 2025 Stella Morra | 6. Tra dramma (dal bene al male) e tragedia (dal male al bene) | Gen 3, 1-24 | Leggi di più |