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25 Gennaio 2025
Stella Morra

4. Segni che fanno sperare

Commento a: Ger 1, 1-12


In questo percorso che ha come tema la speranza, nel primo incontro ci siamo confrontati sul testo famoso dei Discepoli di Emmaus (Lc, 24). Diversamente dalla scansione abituale, a partire da testi dell’Antico Testamento, per arrivare al Nuovo, abbiamo iniziato con uno sguardo generale intorno a due questioni fondamentali. La prima, la speranza come eccedenza. La speranza è diversa dall’aspettativa, perché poggia su un’eccedenza. La seconda questione, l’insieme delle tre grandi tensioni che Luca indicava come il luogo possibile dell’esercizio della speranza: la tensione tra vedere e non vedere, tra spiegare e restare e tra guarire e curare. Abbiamo individuato questa cornice e poi, nel secondo incontro, abbiamo ripreso il normale andamento descrittivo, a partire dall’Antico Testamento.

Ci siamo soffermati sul brano di Giosuè 24, sul tema dell’alleanza, della speranza che nasce da una legge di libertà. La contraddizione apparente tra la legge come obbligo, e la libertà: invece è la legge che consente la libertà. Proprio perché la legge c’è, il popolo può tornare libero dall’Egitto, perché non c’è più il Faraone, non c’è più un potere assoluto. C’è Dio e poi tutti, re compreso, sono sottoposti alla legge. E questa legge, dunque, diventa per il popolo una legge di libertà.

Il terzo testo, che abbiamo visto prima di Natale, è il capitolo 35 di Isaia, in cui ci siamo regalati parole di speranza: “Si rallegrino il deserto e la terra arida”. Le parole di Isaia dicono che c’è una strada, c’è una possibilità, un incoraggiamento.

 

La lectio di oggi

Questa sera percorriamo un testo che mi piace molto, ma oltre a piacere molto a me, è un testo per alcuni versi molto strano. All’apparenza è abbastanza facile, non ha significati oscuri, si capisce abbastanza facilmente con l’aiuto delle note della Bibbia di Gerusalemme, eppure è un testo molto complesso dal punto di vista del contenuto. Sono i primi dodici dei diciannove versetti del capitolo primo di Geremia. Una parte di questi versetti è conosciuta come la vocazione di Geremia, ma dal quarto in poi. I primi tre vengono normalmente tralasciati. È una cosa che non mi piace, quindi non li lascio fuori. Ho lasciato fuori gli ultimi perché, dal mio punto di vista, ribadiscono la parte che mi pare veramente significativa, quella dei primi dodici versetti.

Il testo: Ger 1,1-12

1 1Parole di Geremia, figlio di Chelkia, uno dei sacerdoti che risiedevano ad Anatòt, nel territorio di Beniamino. 2A lui fu rivolta la parola del Signore al tempo di Giosia, figlio di Amon, re di Giuda, l’anno tredicesimo del suo regno, 3e successivamente anche al tempo di Ioiakìm, figlio di Giosia, re di Giuda, fino alla fine dell’anno undicesimo di Sedecìa, figlio di Giosia, re di Giuda, cioè fino alla deportazione di Gerusalemme, avvenuta nel quinto mese di quell’anno. (Questi sono i versetti che normalmente vengono tralasciati in quella che viene definita “la vocazione di Geremia”, perché sono pieni di nomi e di date, come se non ci dicessero niente di significativo)

4Mi fu rivolta questa parola del Signore:
5«Prima di formarti nel grembo materno, ti ho conosciuto,
prima che tu uscissi alla luce, ti ho consacrato;
ti ho stabilito profeta delle nazioni».
6Risposi: «Ahimè, Signore Dio!
Ecco, io non so parlare, perché sono giovane».
7Ma il Signore mi disse: «Non dire: «Sono giovane».
Tu andrai da tutti coloro a cui ti manderò
e dirai tutto quello che io ti ordinerò.
8Non aver paura di fronte a loro,
perché io sono con te per proteggerti».
Oracolo del Signore.
9Il Signore stese la mano
e mi toccò la bocca,
e il Signore mi disse:
«Ecco, io metto le mie parole sulla tua bocca.
10Vedi, oggi ti do autorità
sopra le nazioni e sopra i regni
per sradicare e demolire,
per distruggere e abbattere,
per edificare e piantare».
11Mi fu rivolta questa parola del Signore: «Che cosa vedi, Geremia?». Risposi: «Vedo un ramo di mandorlo». 12Il Signore soggiunse: «Hai visto bene, poiché io vigilo sulla mia parola per realizzarla».

Commento:

Il libro di Geremia è particolare, avrebbe bisogno di un lungo ragionamento dal punto di vista esegetico. Ma abbiamo tutti nelle orecchie qualche brano della storia di Geremia, ad esempio il racconto del vasaio. Geremia è una strana figura di profeta. Quasi tutti i profeti si ritraggono alla chiamata, poi la accolgono. Geremia all’inizio protesta un poco, dopo lo farà molto di più, man mano che andrà avanti nel ruolo di profeta. Questa è la prima sua caratteristica. La seconda è che i profeti normalmente lavorano per lo più sulla parola: ricevono una Parola da Dio, e quella parola dicono, annunciano. Geremia è il grande profeta dei segni. Annuncia la Parola, come vedremo anche in questo testo, ma è profeta dei segni profetici. Profeta di strani comportamenti, oggetti, materialità che dovrebbero essere chiari. Dovrebbero, perché non lo sono quasi mai.

Riprenderà questo tema il profeta Ezechiele, ma solo su un segno che è quello del libro. Ad Ezechiele viene detto «mangia il libro», lui lo fa e dice: «Io lo mangiai e fu per la mia bocca dolce come il miele» (Ez. 3, 1-3). Ma questo succede al tempo della seconda legge, dopo il ritorno dall’esilio. Quel segno è molto plateale per il popolo, perché è stato ritrovato – questo è il racconto leggendario – il rotolo della legge di Mosè. Geremia invece si colloca subito prima dell’esilio in Babilonia e usa segni che sono meravigliosamente moderni. Allora come ora, siamo immersi in una gran confusione, non si capisce nulla di ciò che succede. E spesso quello che sta succedendo porta a chiedersi: «se questo è il segno, io cosa dovrei fare? Io cosa c’entro?» Per questo mi pare che Geremia sia un profeta molto attuale. È grande il caos sotto il sole, quindi la situazione è ottima per la rivoluzione, come diceva quel tale.

In più Geremia ha una storia strampalata. In realtà non sappiamo chi fosse Geremia, non abbiamo grosse notizie. Normalmente nei libri antichi quando si dice, ad esempio, «parole di Daniele», significa che si cerca attribuire il testo ad un nome riconosciuto e stimato da tutti. E qui si fa più o meno la stessa operazione, solo che la si fa un po’ male. Mi spiego: «parole di Geremia, figlio di Chelkia, uno dei sacerdoti che risiedevano ad Anatot». Quindi un ruolo importante dal punto di vista religioso. Peccato che la stirpe di Chelkia che risiedeva ad Anatot sia famosa per essere una stirpe di sacerdoti scalcagnati, tendenzialmente un po’ idolatri, esattamente uno dei motivi – la degenerazione del sacerdozio – indicati dai profeti come causa della deportazione in Babilonia.

Poiché il sacerdozio degrada, il popolo viene purificato portandolo in Babilonia, dove il ruolo sacrale dei sacerdoti non si riesce più a salvaguardare. Deve riessenzializzarsi e quindi purificarsi. Quindi Geremia è di stirpe sacerdotale sì, ma un po’ scalcinata, che risiede in un territorio della tribù di Beniamino – molto amata tra le dodici tribù – ma il territorio di Anatot era il peggiore dei territori della tribù di Beniamino. Una bella ambiguità, e questo è uno degli elementi per cui questo versetto mi piace molto. E poi si dice:

A lui fu rivolta la parola del Signore al tempo di Giosia, figlio di Amon, re di Giuda, l’anno tredicesimo del suo regno.

Secondo i calcoli degli storici, si parla più o meno del 627-625 a.C.

3E successivamente anche al tempo di Ioiakìm, figlio di Giosia, re di Giuda, fino alla fine dell’anno undicesimo di Sedecìa, figlio di Giosia, re di Giuda, cioè fino alla deportazione di Gerusalemme, avvenuta nel quinto mese di quell’anno.

L’anno della deportazione in Babilonia è il 587 a.C.. Quindi stiamo parlando di una quarantina d’anni, mica due giorni – a proposito della questione della durata in rapporto alla speranza, su cui abbiamo riflettuto la volta scorsa. Una delle questioni chiave della durata è, come diceva De Lubac, «sopravvivere alle proprie scomuniche e alle proprie riabilitazioni è fondamentale nella Chiesa». Devi essere longevo, se no muori scomunicato. Invece se riesci a vivere ancora un po’, alla fine finisci cardinale, come lui. Quindi, c’è una durata, un’insistenza di Dio rispetto a un tempo, un’insistenza non solo personale nei confronti di Geremia, ma anche rispetto a tutto il popolo, alla legge di libertà che si è dato. Un’insistenza che non significa un happy end:

«fino alla fine dell’anno undicesimo, cioè fino alla deportazione di Gerusalemme, avvenuta nel quinto mese di quell’anno».

Geremia accompagna il suo popolo con questa parola profetica, con i segni di speranza, non verso la liberazione, come Mosè e poi Giosuè, non verso un happy end dove la speranza viene colmata – il testo dell’altra volta, «si rallegri il deserto e la steppa arida», ma verso una deportazione, cioè un lungo tempo che solo un re straniero, Ciro, farà finire. Non ci sarà più un liberatore del popolo dal suo interno. Proviamo a riflettere su questa dinamica trasportata nell’oggi, perché secondo me qui c’è parecchio materiale.

È molto facile per noi dire che anche l’esilio in Babilonia è stata un’esperienza salvifica, perché ha consentito la purificazione. Pensiamo al libro di Tobia, che è una ricomprensione, una purificazione. Verissimo. La deportazione è stato un passaggio salvifico, perché si è capito che la salvezza non viene dall’interno, ma è lo straniero che salva. Una cosa non da poco, fantastica, ma tutto questo si è capito dopo. Che cosa vuol dire per Tobia e Tobi, o per Ruth e la suocera, per i libri sapienziali, per i libri profetici, mantenere la speranza? Che cosa vuol dire riconoscere qual è il re straniero che porta salvezza? Come si riconosce il re straniero?

Geremia prepara il suo popolo a questo passaggio con segni di speranza, non con parole di speranza. Lo dico con parole contemporanee per spiegarmi in fretta – ed è uno dei punti che io adoro di Geremia: il libro di Geremia è il più sacramentale dei testi nell’Antico Testamento. Tutti abbiamo studiato il catechismo e sappiamo che un sacramento, richiede materia, forma e ministro: un oggetto – qualcosa che riguarda la realtà, come l’acqua, il pane, l’olio; una forma, cioè una formula, parole che facciano da contenitore e da senso dei gesti e dell’oggetto; un ministro, cioè un soggetto vivente. Senza queste tre cose non si dà la presenza della grazia.

Geremia è il più sacramentale dei personaggi dell’Antico Testamento perché in questo suo testo c’è un soggetto, il soggetto – duplice, lui e insieme il suo popolo – che sta percorrendo un pezzo di storia complesso, confuso, non facile. C’è una materia che è la storia, ma anche le cose, i segni, e c’è una forma, e la forma è la Parola di Dio rivolta a lui e di cui lui si fa ri-significatore, proprio come intendeva Umberto Eco, cioè ridare un significato vitale, vivente a quelle cose e al loro accadere una dopo l’altra. Lo sforzo delle nostre intelligenze, della nostra psiche, la fatica che ognuno di noi è chiamato a fare nel momento in cui, di fronte alla sua vita, deve ritrovare nuovi equilibri tra pezzi di relazioni, di avvenimenti, di cose che ha scelto, di cose che non ha scelto; tutto ciò di cui le nostre vite sono fatte, che in parte dipende da noi, ma in gran parte no. Ogni volta noi dobbiamo fare la fatica di ri-significare questo insieme per dire che si può vivere, e si può vivere anche bene. La materia che è la nostra vita, la forma che sono le parole. La negoziazione ri-significante e il ministro, cioè la soggettività di uno e di un popolo insieme, mai una soggettività totalmente solitaria. Questo è un aspetto molto importante di Geremia, il posto in cui si mette rispetto agli altri profeti, ognun dei quali ha le sue caratteristiche.

4Mi fu rivolta questa parola del Signore:
5«Prima di formarti nel grembo materno, ti ho conosciuto,
prima che tu uscissi alla luce, ti ho consacrato;
ti ho stabilito profeta delle nazioni».

Qui ci sono quattro verbi che sono la struttura della nostra esistenza: «prima di formarti ti ho conosciuto», che è il desiderio di ciascuno di noi: essere riconosciuto, possibilmente subito, per non dover fare nemmeno la fatica iniziale. È il motivo per cui i nostri rapporti genitoriali sono così importanti nella vita: sono il primo riconoscimento, e a seconda di come i nostri padri e le nostre madri ci hanno riconosciuto, noi siamo cresciuti in un modo o in un altro, perché quel marchio rimane, nel bene e nel male. «Prima che tu uscissi alla luce» cioè «prima che tu cominciassi a fare qualsiasi opera buona o qualsiasi disastro, qualsiasi relazione con un altro da te», prima di tutto questo io «ti ho consacrato e stabilito profeta delle Nazioni», cioè «ti ho trovato un posto al mondo, preciso e prezioso». E scusate se è poco… È la fatica di un’esistenza, essere riconosciuti: mentre ci si forma, non solo nel grembo materno, ma anche nel diventare adulti, nel crescere, nello scegliere. Essere riconosciuti e, venendo alla luce, cioè aprendosi all’esterno, essere consacrati e stabiliti, cioè avere un posto prezioso al mondo… io ci starei! Ma che cosa risponde Geremia?

6Risposi: «Ahimè, Signore Dio!
Ecco, io non so parlare, perché sono giovane».

Ci sono qui due livelli di lettura: il primo è che i profeti scelti erano tutti un po’imbranati. Non ce n’è uno che dica, «sì, guarda, parlare mi viene bene, è una cosa che so fare!». Mosè balbettava, Amos faceva il pastore quindi non era colto, Isaia era un peccatore, aveva parole sbagliate, Geremia è troppo giovane…. O Dio ha un manager del personale che è un disastro assoluto, che trova solo candidature totalmente inadeguate al lavoro che deve fare, oppure ci sarà qualche motivo, no? Perché la differenza tra l’adeguatezza degli strumenti umani o l’autopercezione di adeguatezza al compito assegnato è sempre così gigantesca? Ci viene in mente un pensiero un po’ devoto, nel senso che ovviamente nessuno è all’altezza di Dio, quindi, un po’ di falsa umiltà non guasta… Ma la Scrittura non funziona così, la Scrittura ci dice una cosa precisa, cioè che le vite non sono cucite su misura, anche se questa è un’illusione che tutti abbiamo.

E che in effetti se davvero volessimo quello, appunto, a «prima di formarti nel grembo materno ti ho conosciuto, prima che uscirsi alla luce ti ho consacrato, ti ho stabilito profeta delle nazioni», uno direbbe ci sto. Perché tutti dicono «no, grazie»? Perché le vite non sono mai costruite su misura, tagliate e cucite come abiti sartoriali. E tutto sommato, meglio così, perché se tutto funzionasse come preordinato non ci sarebbe nessuno spazio per ciò che è nuovo, ciò che germoglia, ciò che ci stupisce, ciò che dona un’altra possibilità. Perciò la reazione di fronte al modo che Dio ha di darci una collocazione al mondo è sempre quella di dire no, ho da fare, sono giovane, non so parlare, sono balbuziente… C’è sempre un’inadeguatezza di sé rispetto al desiderio di un altro, perché la parola di un altro, anche nella nostra esperienza umana, è sempre interruzione, anche quando è una parola amorosa è una ferita del nostro narcisismo, per dirla in termini tecnici. La parola che un altro mi rivolge è sempre grata, bella, carina, ma è l’interruzione del mio essere figlio unico e primogenito del mondo e la Parola del Signore lo è molto di più, per cui siamo inadeguati a quell’interruzione.

Quando i bambini stanno giocando e tu gli dici «è ora di cena, venite!», la risposta automatica è «cinque minuti!», perché non è mai il momento giusto, non può esserlo per definizione, perché è interruzione in un mondo che loro si sono costruiti o si stanno costruendo, e come puoi permetterti di interromperlo? Allora ci vogliono un po’ di manovre genitoriali per non frustrare troppo la capacità di costruire mondi e insieme però anche fargli capire che a un certo punto bisogna venire a cena. Non sempre urlare, ma c’è un equilibrio da ritrovare, perché la parola dell’altro è sempre interruzione. Questa tesi la trovate nel capitolo 1, che è bellissimo, del libro “Che cosa possiamo sperare?” di Ghislain Lafont, che rilegge la creazione in questo senso: l’altro come interruzione.

La cosa carina è che il Signore non nega la difficoltà:

7Ma il Signore mi disse: «Non dire: «Sono giovane».
Tu andrai da tutti coloro a cui ti manderò
e dirai tutto quello che io ti ordinerò.

Ma il Signore mi disse «non dire sono giovane, non rifiutare l’interruzione. Tu andrai da tutti coloro a cui ti manderò e dirai tutto quello che ti ordinerò, vai da tutti per dire tutto. C’è una esigenza di totalità così radicale che Dio non prende neppure in considerazione l’obiezione di Geremia, gli dice «non dirlo, lascia perdere, non è quello in ballo, tu vai da tutti per dire tutto». E Dio aggiunge:

8Non aver paura di fronte a loro,
perché io sono con te per proteggerti».
Oracolo del Signore.

L’unica cosa che Dio prende in considerazione è quella che Geremia non ha detto, la sua paura: «non aver paura, perché io sono qui». C’è un’eccedenza che non è la tua gioventù, non è la tua capacità di parlare, non è la tua forza o la tua intelligenza su cui appoggiarti per andare da tutti a dire tutto. Punto. Non può e non deve succedere altro. E poi c’è il primo segno, apparentemente inspiegabile.

9Il Signore stese la mano
e mi toccò la bocca,
e il Signore mi disse:
«Ecco, io metto le mie parole sulla tua bocca.
10Vedi, oggi ti do autorità
sopra le nazioni e sopra i regni
per sradicare e demolire (due verbi al negativo),
per distruggere e abbattere (altri due verbi al negativo),
per edificare e piantare (due verbi al positivo)».

Nel Libro di Isaia il Signore aveva toccato le labbra con il carbone ardente, un’esperienza un attimo più preoccupante. Qui tocca le labbra con la mano, è il segno del contatto, che è il contatto ma è anche con-tatto, con gentilezza. Pensate al gesto dell’Emorroissa che tocca il mantello di Gesù, al gesto con cui Gesù guarisce il sordomuto della nascita toccandogli orecchie e labbra: un contatto che diventa segno per parole pronunciate con autorità, non parole qualsiasi. «Metto le mie parole sulla tua bocca, ti do autorità». C’è una lettura ottocentesca del sacramento dell’unzione degli infermi in base alla quale vengono unte tutte le parti del corpo con cui si può avere peccato, per ottenere il perdono: le mani, la bocca ,eccetera. Ma c’è anche un’altra lettura, anche più antica, patristica, di questo gesto sacramentale: l’unzione della bocca è l’autorità che ci viene restituita. Nel momento della morte, secondo la fede cristiana, la pienezza della nostra autorità si ricostruisce perché non abbiamo più bisogno di negoziarla. In Dio ritroviamo totalmente la nostra autorità. Avremmo da ragionare un po’ su questa cosa.

Secondo me è molto interessante il fatto che anche qui si stabilisce una tensione, come in Luca, ma la tensione è più a favore della distruzione che della costruzione. Quattro verbi di distruzione e due di edificazione. Però è chiaro che il luogo della speranza è questa tensione tra distruzione ed edificazione, tra usare il passato e usare il futuro, tra spiegare e restare, tra guarire e curare e così via. Nella tensione che si crea, tra atteggiamenti di cui uno sembra più gratuito, positivo, ma non tanto intelligente, l’altro sembra più realista, più negativo, più costoso. Ecco, la tensione tra queste due cose è il luogo della speranza.

E poi ci sono i versetti 11 e 12, che sono una meraviglia.

11Mi fu rivolta questa parola del Signore: «Che cosa vedi, Geremia?». Risposi: «Vedo un ramo di mandorlo». 12Il Signore soggiunse: «Hai visto bene, poiché io vigilo sulla mia parola per realizzarla».

Qui la costruzione è un gioco di parole ebraico tra il mandorlo e vigilare, che hanno radici vicine, In altre parole, Dio dice «hai visto bene, perché io vigilo sulla mia parola per realizzarla», in relazione a quello che Geremia ha visto, il mandorlo, ma nella traduzione questo gioco di parole si perde. Qui non c’è molto di più, ma si sono immaginati significati che nel testo non ci sono. Il ramo di mandorlo è poetico, è un’immagine quasi giapponese, esteticamente bella. La parola che viene rivolta però è una parola chiave, «che cosa vedi?» Geremia vede una cosa bella, un mandorlo fiorito, ma Dio dice «Hai visto bene, perché io vigilo sulla mia parola per realizzarla», perché la bellezza ce la farà …e si stanno avviando alla deportazione. Il segno della bellezza, la sua piccolezza, la sua fragilità, come di un ramo di mandorlo fiorito, è più forte di qualsiasi cosa.

Qui a me vengono in mente due quadri di Van Gogh, uno che si intitola proprio “il ramo di mandorlo” e l’altro “natura morta con ramo di mandorlo”, e tutti e due sono legati a due episodi molto interessanti della sua vita, rispetto alla nostra riflessione. “Il ramo di mandorlo”, un grande ramo di mandorlo su fondo azzurro, è stato realizzato per regalarlo a suo fratello, quando gli è arrivata notizia che aveva avuto un figlio che aveva chiamato Vincent, come lui. In un tempo abbastanza oscuro della vita di Van Gogh, un tempo in cui i suoi fantasmi mentali non gli davano requie, questo bambino che nasceva gli era sembrato un segno di primavera da onorare con la rappresentazione del primo fiore che fiorisce, il mandorlo, e dunque il piccolo Vincent come il primo fiore che annuncia una nuova generazione. L’altro quadro, “natura morta con mandorlo”, è la rappresentazione di un libro con un rametto di mandorlo fiorito dentro un bicchiere, ed è stato dipinto quando ha deciso di trasferirsi in Provenza. Arrivato in febbraio ad Arles, ha raccolto un rametto di mandorlo già fiorito, se l’è messo in un bicchiere in camera e poi l’ha ritratto con un libro; un piccolo segno di fioritura in questo inverno interno ed esterno.

Negli anni ‘70 il versetto che ci ripetevamo tutti era un versetto del libro di Isaia: «Sentinella a che punto è la notte?» (Is, 21, 11) Eravamo più speranzosi nelle dinamiche della storia, ci sembrava che le sentinelle potessero vedere a che punto era la notte. Mi sembra che questo versetto 11 di Geremia si adatti di più alla nostra situazione attuale: 11Mi fu rivolta questa parola del Signore: «Che cosa vedi, Geremia?». Risposi: «Vedo un ramo di mandorlo».  Non sappiamo se la notte è avanzata o no, nessuno di noi riesce ad azzardare pronostici, se siamo vicini alla deportazione in Babilonia o a tempi di libertà, ma vediamo la potenza di una vita fragile che fiorisce e che, anche semplicemente in un bicchiere, può continuare a fiorire per un po’; e possiamo sentirci dire «hai visto bene perché io vigilo sulla mia parola per realizzarla», e questa mi sembra l’indicazione di questo testo.

I versetti finali del capitolo, che sono quelli che non ho messo nella citazione, dal 13 al 19, dicono un’altra dimensione che personalmente trovo faticosa, in questa fase, quindi non li commento. È la dimensione della trasformazione di Geremia, secondo le parole del Signore, in lotta e resistenza: «stringi la veste ai fianchi, mettiti l’armatura, combatti…» Forse perché non ho molta energia, non mi riesce facile questo aspetto. Allora mi fermo al ramo di mandorlo, il massimo che di questi tempi riesco ad accettare come vigilanza sulla Parola di Dio che si realizza. Naturalmente, spero che voi proseguiate sui versetti di resistenza, stringiate la veste e continuiate il combattimento…

Fossano, 25 gennaio 2025

Testo non rivisto dall’autore

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