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23 Novembre 2024
Stella Morra

2. Un popolo che spera e dispera

Commento a: Gs 24, 1-28


Buongiorno a tutti, secondo appuntamento: riassunto delle puntate precedenti. Quest’anno abbiamo cercato di intraprendere un percorso di riflessione sulla speranza; l’occasione materiale ultima è entrare progressivamente nella logica del Giubileo della Speranza che inizia a Natale, che è un giubileo cosiddetto ordinario, cioè quelli che cadono ogni 25 anni senza particolari ricorrenze. Poi, il gioco delle ricorrenze è divertente perché, essendo che la storia del cristianesimo è abbastanza lunga, ormai si trovano ricorrenze per qualsiasi cosa, quindi non c’è problema.

In particolare, il 2025 è anche il 1700° anniversario del credo di Nicea, che è il credo che recitiamo ancora adesso, ha il suo peso. Però, al di là di questo, l’opzione di Papa Francesco, nella sua responsabilità pastorale di scegliere il tema della speranza, è abbastanza chiara e molto concreta dal punto di vista di un pastore che si preoccupa del suo popolo. Guardando allo scenario mondiale, che questo sia un tempo di facile tendenza alla depressione, mi sembra il minimo. Se uno apre un giornale o fa due chiacchiere con qualcuno o anche solo – come nell’introduzione scrivevamo – cammina per strade delle nostre città che non siano proprio il centro, ma una strada un po’ più scartata, non è che quello che vedi ti riempie di voglia di vivere, entusiasmo e progettazione per il futuro. E la necessità della speranza è sicuramente – oltre che un desiderio umano – un tentativo di campare un po’ meglio, un po’ meno depressi; è però anche un’esigenza cristiana di primo livello. E in qualche modo noi ci vorremmo concentrare in particolare su questo secondo aspetto, interrogando la parola di Dio; cioè, vorremmo capire perché e che cosa significa la speranza cristiana come esperienza della fede, come esperienza che si fa nella fede e insieme esperienza che fa la fede. Cioè, come un’esperienza che noi facciamo nella fede, ma anche che costruisce il nostro modo di essere credenti.

E quindi, diciamo, cercando di superare una lettura un po’ ingenua, un po’ spirituale, romantica, più tipica di tempi più ottimisti, da boom economico, da situazione culturale più vitale in cui uno dice: “no, ma da tutto si impara, anche le cose negative ti insegnano qualcosa”. Che sono tutte cose più o meno vere, a buon senso, però, diciamo, non è che siano proprio una cosa che ti sostiene e che ha una sua consistenza; ma soprattutto – cosa che a me interessa particolarmente – non sono esattamente la direzione della parola di Dio. Che, come sempre, è più sostanziale e in qualche modo più esigente, ma anche più densa e più ricca.

Allora, la volta scorsa ci siamo soffermati su Luca 24, brano conosciutissimo, quello cosiddetto dei discepoli di Emmaus, che abbiamo già commentato insieme tante volte, ma che non finisce mai di stupirci.  Tradizionalmente nelle Lectio, il percorso che facciamo è sempre quello di cercare nel Primo Testamento strutture più antropologiche e poi nel Secondo Testamento vedere un po’ di più il carattere cristologico. Questa volta siamo partiti con un brano del Secondo Testamento, fortemente cristologico, perché è l’incontro con il Risorto; quindi, è proprio il centro del centro, ed è in qualche modo perché volevamo appunto dare un quadro di ordine generale, cioè un orizzonte, un’interpretazione di fondo sulla quale cominciare a muoverci poi, secondo altre varie singole dimensioni. Era un po’ l’idea della speranza come eccedenza, cioè la speranza non è ciò semplicemente, che ottimisticamente, oppure un po’ scaramanticamente dico: “speriamo che vada bene”; certo, questo lo facciamo tutti, speriamo che vada bene, è umano, è normale, ma la speranza di cui parliamo, la speranza che viene dal Signore, è un’altra cosa. In qualche modo è la stessa cosa, ma anche un’altra, e cioè l’esperienza di un’eccedenza, di partire da quell’esperienza di ciò che non governiamo, di ciò che non è nelle nostre mani. La speranza funziona come poi nella vita quotidiana funzionano i sacramenti, a fronte di un desiderio c’è l’esperienza di un’impotenza, i nostri desideri sono Extra-Large a fronte di una vita Small, e questo in qualche modo è il dramma della vita credente – abbiamo più cuore che vita, non so come dire. Il sacramento è proprio un esercizio di speranza in cui focalizziamo l’eccedenza del desiderio rispetto a quello che noi possiamo governare. Faccio sempre l’esempio del battesimo: quando nasce una vita nuova noi le vogliamo bene e ci auguriamo che sia felice, sana, amata, ricca, capace di amare, però lo sappiamo – perché statisticamente sappiamo – che prima o poi il male da qualche parte la prenderà, che noi possiamo fare tutto quello che vogliamo per proteggerla, prepararla, difenderla, attrezzarla, ma qualcosa succederà perché nella dinamica dell’esistenza non è in nostro potere proteggere in assoluto dal male una vita, che per di più non è la nostra, di cui dobbiamo riconoscere l’autonomia e la libertà. E allora i cristiani mettono quella vita che nasce nelle mani di Dio per dire: “ok, d’accordo, tu non compi i miei desideri, ma mantieni le tue promesse – come dice la conclusione del libro degli Atti, nessuna vita andrà perduta – quindi ti affidiamo questa vita piccola che nasce, perché noi desidereremmo che avesse tutto il meglio e che il male non la prendesse mai, sappiamo che non è il nostro potere e te l’affidiamo, perché tu compi le tue promesse”.

Allora la speranza si muove in questa logica: il riconoscimento della speranza delusa, dell’impotenza, come fanno i due sulla strada di Emmaus, e il non tirarsi indietro, il non sottrarsi di fronte all’eccedenza, a quel di più del desiderio, non smettere di desiderare per paura di essere delusi. Il che, come si capisce credo, non dice niente sull’esito finale. Dei due di Emmaus che aspettavano che fosse lui – “noi pensavamo che fosse lui che ci avrebbe liberato dai romani, che fosse lui il Messia di Israele” e Gesù che gli spiega delle scritture, di quello che dicevano, poi spezza il pane e loro lo riconoscono. Quando quei due tornano verso Gerusalemme da cui scappavano, non sappiamo se poi hanno vissuto in ogni giorno della loro vita l’esperienza profonda di essere liberati come Gesù li voleva liberi. Forse ci sono stati dei giorni ancora molto neri nella loro vita. Non dice del risultato, ma dice che non si sottraggono a continuare a desiderare che la loro speranza non sia riposta male, e a vivere su questa fedeltà al loro desiderio.

Sì, più o meno abbiamo ripreso l’orizzonte di fondo. L’altra volta, appunto, vedendo il testo un po’ più articolatamente, c’eravamo in particolar modo fermati su tre coppie di verbi: vedere e non vedere, spiegare e restare, guarire e curare. Erano un po’ le tre coppie di verbi che costruivano la dinamica di questa speranza profonda, vedere e non vedere, in cui salta un po’ la logica. Quando noi diciamo «lo vedo, dunque ci credo», per esempio, diciamo una sciocchezza, perché si crede quello che non si vede, perché se lo vedi non è che ci credi, se lo vedi ne prendi atto semplicemente. È vero che gli umani fanno spesso una bella resistenza a prendere atto; quindi, c’è anche un po’ di fede per prendere atto. Però la dinamica tra vedere e non vedere è una delle dinamiche fondamentali della speranza praticata, non solo teorica, ed è l’idea che esattamente i loro occhi si aprirono quando Gesù scompare. Questo ci dice Luca, quando scompare loro finalmente vedono quello che non c’è più, perché esattamente è questa dinamica tra presente, passato e futuro che si attua. Si mette in moto il collegamento tra ciò che hanno vissuto, l’esperienza del presente e quella del futuro, e quindi possono non sottrarsi, possono tornare indietro verso Gerusalemme.

Vedere e non vedere, spiegare e restare. Gesù spiega, ma non basta che spieghi. Finché spiega le scritture loro sentono ardere il cuore, ma ancora non capiscono tanto bene, non tornano indietro. Finché gli spiega le scritture restano nella locanda, e dicono a Gesù: “resta con noi perché si fa sera, fermati, ceniamo insieme, rimani qui”. E Gesù lo fa, resta, perché senza il restare la spiegazione non basta. C’è una dimensione di durata, questo lo riprenderemo anche nella lectio di stasera, perché è un aspetto fondamentale. C’è una dimensione di durata che è fondamentale, ma su questo torneremo.

E poi la conclusione, in qualche modo, tra guarire e curare: c’è una differenza tra guarire e curare: non tutte le cure portano alla guarigione, non tutte le guarigioni sono cura. La questione che Gesù pone è la cura, non la guarigione. La cura vuol dire esattamente il percorso che si fa a carico gli uni degli altri, che non si sottrae ancora una volta, per esempio all’eccedenza del dolore degli altri. Sopportare il dolore degli altri è una roba che dà di matto, infatti quasi più nessuno lo fa.

Appena tu dici che hai un problema, trovi subito qualcuno che ti spiega cosa dovresti fare, come potresti risolverlo, oppure che ti dice: “cosa vuoi, la vita… non prendertela”. E uno dice: “sì, sarà anche la vita, ma questa è la mia vita!”. E certe volte uno si vorrebbe solo sentir dire: “mi spiace”, solo “mi spiace”, già sarebbe qualcosa.

Ma l’ansia di risolvere è fortissima perché, se io ti dico “mi spiace” e basta, vuol dire che riconosco la mia impotenza – torniamo all’inizio – che sono posto di fronte a un’eccedenza, che è il tuo dolore, magari non è il mio direttamente, ma il tuo, di fronte al quale, anche se ti voglio bene, devo alzare le mani perché non posso fare niente. E questa cosa qui mi è insopportabile, quindi ti dico: “no, ma fai questo, fai quello, senti questo altro medico. Ah, hai sbagliato a fare così, dovevi fare così.” No? Ti spiego, ti spiego, ma non resto.

Credo che tutti siamo passati dentro queste esperienze. Allora, i tre coppie di verbi, vedere e non vedere, spiegare e restare, guarire e curare, dicono un po’ la dinamica, l’impasto. Sono gli ingredienti dell’impasto, di questa speranza che nasce dalla presa d’atto della propria impotenza, e che si mette a vivere su un’eccedenza. Questo è un po’, il riassunto della riflessione della volta scorsa, non so se vi ci ritrovate, se ritrovate i pezzi. Da qui in poi, appunto, partendo in qualche modo da un testo che poteva anche essere quello conclusivo, cioè riassuntivo, ma ho preferito mettere subito sul tavolo qual è il mio approccio.

La lectio di oggi

Partendo da lì, da adesso, per qualche Lectio, scendiamo un po’ nei dettagli, cioè, prendiamo dal Primo Testamento alcuni aspetti delle dinamiche della nostra vita come umani rispetto a questa questione qui. Quello di stasera è il testo quasi per intero del capitolo 24 del libro di Giosuè. È un testo che a me diverte molto, perché mi sembra una specie di testo da cowboy e indiani, un po’ epocale. È un genere letterario da film colossal americano degli anni Cinquanta, che tu vedi queste grandi masse di figuranti che si spostano, la polvere, le scene un po’ alla Ben Hur… E mi piace questo genere letterario nella Scrittura, mi diverte molto, perché poi, essendo un popolo povero abbastanza scassato, si gasano e fanno questi racconti, va bene, è bello. Il titolo che ho scelto è: “Un popolo che spera e si dispera.”

Il testo: Gs 24,1-28

24 1Giosuè radunò tutte le tribù d’Israele a Sichem e convocò gli anziani d’Israele, i capi, i giudici e gli scribi, ed essi si presentarono davanti a Dio. 2Giosuè disse a tutto il popolo:

«Così dice il Signore, Dio d’Israele:

«Nei tempi antichi i vostri padri, tra cui Terach, padre di Abramo e padre di Nacor, abitavano oltre il Fiume. Essi servivano altri dèi. 3Io presi Abramo, vostro padre, da oltre il Fiume e gli feci percorrere tutta la terra di Canaan. Moltiplicai la sua discendenza e gli diedi Isacco. 4A Isacco diedi Giacobbe ed Esaù; assegnai a Esaù il possesso della zona montuosa di Seir, mentre Giacobbe e i suoi figli scesero in Egitto.

5In seguito mandai Mosè e Aronne e colpii l’Egitto con le mie azioni in mezzo a esso, e poi vi feci uscire. 6Feci uscire dall’Egitto i vostri padri e voi arrivaste al mare. Gli Egiziani inseguirono i vostri padri con carri e cavalieri fino al Mar Rosso, 7ma essi gridarono al Signore, che pose fitte tenebre fra voi e gli Egiziani; sospinsi sopra di loro il mare, che li sommerse: i vostri occhi hanno visto quanto feci in Egitto. Poi dimoraste lungo tempo nel deserto. 8Vi feci entrare nella terra degli Amorrei, che abitavano ad occidente del Giordano. Vi attaccarono, ma io li consegnai in mano vostra; voi prendeste possesso della loro terra e io li distrussi dinanzi a voi. 9In seguito Balak, figlio di Sippor, re di Moab, si levò e attaccò Israele. Mandò a chiamare Balaam, figlio di Beor, perché vi maledicesse. 10Ma io non volli ascoltare Balaam ed egli dovette benedirvi. Così vi liberai dalle sue mani.

11Attraversaste il Giordano e arrivaste a Gerico. Vi attaccarono i signori di Gerico, gli Amorrei, i Perizziti, i Cananei, gli Ittiti, i Gergesei, gli Evei e i Gebusei, ma io li consegnai in mano vostra. 12Mandai i calabroni davanti a voi, per sgominare i due re amorrei non con la tua spada né con il tuo arco. 13Vi diedi una terra che non avevate lavorato, abitate in città che non avete costruito e mangiate i frutti di vigne e oliveti che non avete piantato».

14Ora, dunque, temete il Signore e servitelo con integrità e fedeltà. Eliminate gli dèi che i vostri padri hanno servito oltre il Fiume e in Egitto e servite il Signore. 15Se sembra male ai vostri occhi servire il Signore, sceglietevi oggi chi servire: se gli dèi che i vostri padri hanno servito oltre il Fiume oppure gli dèi degli Amorrei, nel cui territorio abitate. Quanto a me e alla mia casa, serviremo il Signore».

16Il popolo rispose: «Lontano da noi abbandonare il Signore per servire altri dèi! 17Poiché è il Signore, nostro Dio, che ha fatto salire noi e i padri nostri dalla terra d’Egitto, dalla condizione servile; egli ha compiuto quei grandi segni dinanzi ai nostri occhi e ci ha custodito per tutto il cammino che abbiamo percorso e in mezzo a tutti i popoli fra i quali siamo passati. 18Il Signore ha scacciato dinanzi a noi tutti questi popoli e gli Amorrei che abitavano la terra. Perciò anche noi serviremo il Signore, perché egli è il nostro Dio».

19Giosuè disse al popolo: «Voi non potete servire il Signore, perché è un Dio santo, è un Dio geloso; egli non perdonerà le vostre trasgressioni e i vostri peccati. 20Se abbandonerete il Signore e servirete dèi stranieri, egli vi si volterà contro e, dopo avervi fatto tanto bene, vi farà del male e vi annienterà».

21Il popolo rispose a Giosuè: «No! Noi serviremo il Signore».

22Giosuè disse allora al popolo: «Voi siete testimoni contro voi stessi, che vi siete scelti il Signore per servirlo!».

Risposero: «Siamo testimoni!».

23«Eliminate allora gli dèi degli stranieri, che sono in mezzo a voi, e rivolgete il vostro cuore al Signore, Dio d’Israele!».

24Il popolo rispose a Giosuè: «Noi serviremo il Signore, nostro Dio, e ascolteremo la sua voce!».

25Giosuè in quel giorno concluse un’alleanza per il popolo e gli diede uno statuto e una legge a Sichem. 26Scrisse queste parole nel libro della legge di Dio. Prese una grande pietra e la rizzò là, sotto la quercia che era nel santuario del Signore. 27Infine, Giosuè disse a tutto il popolo: «Ecco: questa pietra sarà una testimonianza per noi, perché essa ha udito tutte le parole che il Signore ci ha detto; essa servirà quindi da testimonianza per voi, perché non rinneghiate il vostro Dio».

28Poi Giosuè congedò il popolo, ciascuno alla sua eredità.

Commento:

Se uno legge il testo, dice: “ok, un popolo che spera, capisco; ma perché si dispera?… non c’è nel racconto che si dispera, sembra che spera e basta, no?” Ecco, allora vorrei lavorare un po’ su questo, sempre tenendo l’impostazione che ci siamo detti. Siccome è abbastanza lungo ne leggo un pezzettino alla volta, lo commento, non lo leggo tutto prima perché troppo lungo. Allora, inizia così:

1Giosuè radunò tutte le tribù d’Israele a Sichem e convocò gli anziani d’Israele, i capi, i giudici e gli scribi, ed essi si presentarono davanti a Dio.

Questo è l’inizio, come al solito i versetti iniziali di ogni pericope funzionavano un po’ da titolo; allora Giosuè, non è più la generazione di Mosè, è quella dopo. Appunto, in questi testi che riguardano gli anni da qui in poi gli ebrei hanno il problema della durata, che non esprimono così perché non sono dopo il 1900 quindi usano altre parole, ma il senso è sempre lo stesso: il problema della durata.

Cioè: l’Esodo, wow, grandioso! “Voglio cantare in onore del Signore, ha mirabilmente trionfato”, fantastico! Bel momento. Poi il deserto, beh, un po’ più tosto, però va bene, anche lì c’è una sua eroicità, no? Poi dice: adesso siamo arrivati, siamo qua, le promesse si sono compiute.

Ci ha detto: “vi darò una terra” e ci ha dato la terra. Ci ha detto: “avrete latte e miele” e lo vediamo – una serie di cose buone. Non è desertica, c’è il fiume Giordano che dà i suoi benefici alla terra, e allora? Adesso cosa succede? Il problema è la durata. E non è un caso che questa alleanza non la fa Mosè. Mosè, ricordate, muore sul monte Nebo, muore sull’orlo del Giordano, ancora al di là del fiume. E lui e quella generazione che hanno dubitato nel deserto non entrano nella terra promessa, entrano gli altri. Cosa devono fare? Sono l’altra generazione, sono quelli che non hanno dubitato nel deserto. Bravi, fighi.

E dunque il problema è la durata. Non so se qualcuno di voi è capitato di leggere uno dei libri di Recalcati che si chiama: Mantieni il bacio, che con il genere letterario di Recalcati – che può piacerci o no – ma ragiona in modo interessante su come si mantiene l’impulso dell’origine. Che cosa succede al secondo bacio? Il primo bacio rimane stampato nella memoria, e il secondo? E allora, lui dice, l’unica possibilità è che il secondo sia un nuovo primo bacio, che non ci sia mai un secondo, che sia sempre un nuovo primo. Adesso lo dico in modo che mi picchierebbe, però per capirci.

E qui è la stessa cosa, no? Il problema della speranza è il problema di una nuova prima alleanza, di una nuova prima fedeltà al non sottrarsi al desiderio che lotta con l’impotenza. Per questo Giosuè non parla con uno o con l’altro, raduna tutti, tutte le tribù di Israele a Sichem e convocò gli anziani, capi, giudici e scribi. E la cosa interessante è che Giosuè li raduna ed essi si presentarono davanti a Dio, non davanti a Giosuè. È una nuova prima alleanza, non è una seconda alleanza. È molto interessante perché questo luogo, Sichem, sarà ripreso nel Nuovo Testamento, un paio di volte, ma fondamentalmente il posto che abbiamo tutti in mente è l’incontro tra Gesù e la Samaritana, che si incontrano al pozzo di Sichem, “che Giosuè, nostro padre, scavò”, eccetera, eccetera. Non è un caso, non è che Giovanni si è distratto.

Giovanni fa una terza prima alleanza ed è l’alleanza in cui Gesù dice alla Samaritana “né qui, né in Gerusalemme, né su questo monte”, dirime la questione tra giudei e samaritani. Ancora una volta non sottrarsi al desiderio, al desiderio sovrabbondante della donna e dei samaritani, al desiderio sopito dei discepoli, che Gesù ha sete e sono andati a cercare da mangiare e così via. Ed è interessante perché Giosuè li raduna e loro si presentano a Dio. Lì è molto chiaro che la questione in ballo non è quella posta da Giosuè, non è la questione di chi è il miglior capo.

La questione è sostanziale, il popolo ce l’ha chiaro. La questione è: che cosa facciamo adesso? La promessa è compiuta, abbiamo la terra e dunque cominciano dalla memoria. Il primo è l’esercizio di memoria, come in Luca 24 in cui Gesù dice: “che cosa è accaduto?” e i discepoli cominciando gli dissero di quello che noi pensavamo che fosse lui, speravamo che fosse lui, ma sono passati tre giorni con tutto ciò…

2Giosuè disse a tutto il popolo:

«Così dice il Signore, Dio d’Israele:

«Nei tempi antichi i vostri padri, tra cui Terach, padre di Abramo e padre di Nacor, abitavano oltre il Fiume.

In tutto questo capitolo c’è questa cosa che torna, oltre il fiume – a parte farci venire in mente la poesia di Italo Calvino – questo oltre il fiume, oltre il Giordano, vanno e tornano e il richiamo a Mosè, cioè, è la consapevolezza che loro sono oltre a ciò che è successo a Mosè.

Mosè ha condotto il popolo fino al fiume e loro sono oltre il fiume. Anche qui, una delle domande interessanti sarebbe: qual è il nostro fiume? Oltre quale fiume siamo rispetto alle generazioni di credenti che ci hanno preceduto e che hanno sperato nel Signore?

Essi servivano altri dèi. 3Io presi Abramo, vostro padre, da oltre il Fiume e gli feci percorrere tutta la terra di Canaan. Moltiplicai la sua discendenza e gli diedi Isacco.

Oltre il fiume c’è un’altra storia, c’è un altro mondo. Io ho preso Abramo, vostro padre, da oltre il fiume; ricorderete che poi Giacobbe affronterà al passaggio del fiume l’angelo… cioè, è una figura forte quella di oltre il fiume. Lanciare oltre il fiume il proprio desiderio, l’eccedenza è al di là del fiume, è sempre. Io presi Abramo, vostro padre, da oltre il fiume e gli feci percorrere tutta la terra di Canaan, moltiplicai la sua discendenza e gli diedi Isacco. C’è un esercizio di memoria che comincia, questo esercizio di memoria mette a fuoco gli elementi significativi, il primo è oltre il fiume, di qua o di là dal fiume, e il secondo è questo, la discendenza.

4A Isacco diedi Giacobbe ed Esaù; assegnai a Esaù il possesso della zona montuosa di Seir, mentre Giacobbe e i suoi figli scesero in Egitto.

E uno dice: no, avete sbagliato direzione, era di là la terra promessa, non di qua, era oriente, non occidente. Perché siete andati in Egitto? Allora, Giuseppe, tutta la storia… Ma vedete com’è il racconto, a parte che gira intorno ai fiumi, al Nilo, al Tigri, all’Eufrate, al Giordano, più piccoletto… oltre il fiume le discendenze si dividono e prendono direzioni diverse, ma ci sono delle discendenze, la vera sostanza della speranza è che una discendenza ci sia.

5In seguito mandai Mosè e Aronne e colpii l’Egitto con le mie azioni in mezzo a esso, e poi vi feci uscire. 6Feci uscire dall’Egitto i vostri padri e voi arrivaste al mare. Gli Egiziani inseguirono i vostri padri con carri e cavalieri fino al Mar Rosso, 7ma essi gridarono al Signore, che pose fitte tenebre fra voi e gli Egiziani; sospinsi sopra di loro il mare, che li sommerse: i vostri occhi hanno visto quanto feci in Egitto.

Allora, oltre il fiume la discendenza; la direzione sbagliata, la storia è che va da un’altra parte, si va in Egitto, ma Canaan ne era di là e invece si va di qua, e dunque la liberazione, una liberazione che si innesta sulla invocazione – gridarono al Signore – e i vostri occhi hanno visto: non c’è più sostanza per la speranza; avete visto, è accaduto, c’è solo da riconoscere? No, c’è ancora un pezzo:

Poi dimoraste lungo tempo nel deserto. 8Vi feci entrare nella terra degli Amorrei, che abitavano ad occidente del Giordano. Vi attaccarono, ma io li consegnai in mano vostra; voi prendeste possesso della loro terra e io li distrussi dinanzi a voi.

Allora, il deserto, si ricomincia da capo; c’è una speranza perché non si vede e dunque arrivati nella terra degli Amorrei, terra abitata, vi tocca fare battaglia, prendeste possesso della terra.

Voi capite che nella lettura di questo genere si capisce perché per il popolo ebraico l’oggetto della speranza è la terra, si capisce non vuol dire: sono d’accordo, le conseguenze politiche che ne traggono sono quelle giuste – non sto dicendo questo – ma sto dicendo che si capisce qual è la logica, perché la terra è così importante e non ha prezzo, deve essere acquistata a qualsiasi prezzo e qui il Signore dice: io li distrussi dinanzi a voi. L’oggetto della speranza, dunque, è una terra. Però se confondiamo guarire e curare stiamo vedendo, molti secoli dopo, qual è l’effetto di questa roba. Terribile.

E poi ci sono tre versetti che io adoro:

9In seguito Balak, figlio di Sippor, re di Moab, si levò e attaccò Israele. Mandò a chiamare Balaam, figlio di Beor, perché vi maledicesse. 10Ma io non volli ascoltare Balaam ed egli dovette benedirvi. Così vi liberai dalle sue mani.

Questo è un episodio strano della scrittura, se avete tempo e voglia andatelo a leggere, sta al capitolo 22 dei Numeri, ed è un episodio bellissimo. Balak è un re, un re straniero, che vuole far fuori questi qua, che sono arrivati nel suo regno, secondo lui senza ragione, questi ebrei, e quindi, per essere sicuro, per non sperimentare la propria impotenza, se volete, chiama questo Balaam, che era uno stregone efficace e ben riconosciuto. Un profeta che vedeva il futuro, anticipava il futuro, ma anche uno capace di fare trucchi e trucchetti belli tosti, e gli dice: “Balaam, ok, prima che io vado in battaglia, tu fai una bella fattura, una bella maledizione sugli ebrei, così io vinco e siamo a posto!” e Balaam non riesce, non riesce a maledire, tutte le volte che prova a maledire, gli tocca benedire gli ebrei. Però la storia è tutta mediata dalla famosa asina di Balaam, che è l’asinella che lui usava per viaggiare, la sua macchina, che piglia per andare da Balak, e a un certo punto l’asina si impunta, e lui comincia a menarla per dirle: “vai!”, e lei niente, si impunta, perché l’asina è l’unica che vede un angelo con la spada sguainata che li ferma. Nessuno vede questo angelo se non l’asina, e l’asina comincia a parlare e gli dice a Balaam: “Non devi andare perché c’è un angelo che vuole fermarci…”, e Balaam dice: “ma che angelo! Non lo vedo! Sono io il veggente, mica tu!”. C’è una discussione tra l’angelo e il profeta che è bellissima, e alla fine però l’angelo si fa vedere anche da Balaam che dice: “No c’è davvero! Allora no, allora non vado” e l’angelo gli dice: “no, no, vai ma non potrai maledire” e quindi insomma c’è tutta questa storia. Lui fino all’ultimo prova a maledire, ma non ci riesce proprio, la potenza che lo abita non glielo permette.

E la cosa interessante su cui riflettevo è che, benché la figura di animali parlanti nella tradizione letteraria antica sia molto frequente, spessissimo gli animali sono saggi, nelle favole di Esopo sono gli animali che dettano la morale molto più degli umani, e in tutte le mitologie antiche ci sono animali di vario genere che parlano, nella Scrittura ce ne sono molto pochi per la precisione due, solo due in tutto il Primo Testamento: il serpente in Eden e l’asina di Balaam. Solo loro due, che sono interessanti perché hanno due funzioni opposte: il serpente è il cattivo della favola, dice la cosa cattiva, è il tentatore, il demone, quello che travia la donna e l’uomo. L’asina di Balaam invece è quella buona, una voce di Dio, il che dice che la scrittura non ha un’opinione sul fatto che gli animali parlano. Cioè, la scrittura ti dice che, quando delle notizie ti arrivano d’altrove, in modo un po’ inconsueto, possono venire da Dio ma anche no; il fatto che vengano d’altrove non garantisce che vengano da Dio. È già una bella notizia, non è che qualsiasi cosa un po’ strana viene da Dio, può venire anche dal demonio, quindi non prendiamola troppo sul serio. Secondo, non prendiamo troppo sul serio gli animali, le voci che arrivano d’altrove, quelle un po’ strane, perché se vengono dal maligno sono una tentazione, è meglio non prenderlo sul serio. Se vengono da Dio, anche se tu non ci credi, prima o poi Dio si fa capire in un modo più chiaro, quindi aspetta la comunicazione chiara. Trovo questa cosa abbastanza saggia come criterio fondamentale! Lo dico un po’ ridendo, l’ho raccontato un po’ così, ma non mi riferisco tanto evidentemente ai fenomeni soprannaturali, o pretesi tali, mi riferisco a una cosa molto più concreta e quotidiana. Molto spesso, io credo, siamo tentati, credo proprio sia una tentazione, di chiederci cosa vuole Dio da me…L’antica massima popolare che “Dio sa spiegarsi” e se non si spiega è un problema suo, non mio! Che dunque io dove capisco vado avanti, dove non capisco… si spieghi meglio…Trovo che sarebbe un buon criterio da adottare in termini generali. Mi sembra che l’asino parlante ci aiuti, poiché viene da Dio l’angelo alla fine si fa vedere e a quel punto anche Balaam dice: “no, ok come non detto, ho capito, ho capito!”. Però insomma leggete l’episodio di Balaam, è veramente bello.

11Attraversaste il Giordano e arrivaste a Gerico. Vi attaccarono i signori di Gerico, gli Amorrei, i Perizziti, i Cananei, gli Ittiti, i Gergesei, gli Evei e i Gebusei, ma io li consegnai in mano vostra.

E guardate qui come evolve: passato il fiume cambia qualcosa, non siamo più nel territorio degli altri dèi, siamo nella terra promessa. La domanda è: “ok adesso cosa possiamo fare, se la promessa è compiuta, non c’è più niente da sperare? Possiamo sottrarci alla fatica del desiderio?” Allora lui dice:

12Mandai i calabroni davanti a voi, per sgominare i due re amorrei non con la tua spada né con il tuo arco. 13Vi diedi una terra che non avevate lavorato, abitate in città che non avete costruito e mangiate i frutti di vigne e oliveti che non avete piantato».

Le battaglie precedenti sono vinte dagli eserciti, qui sono vinte dai calabroni, perché non è né con il tuo arco né con la tua spada che hai vinto questa battaglia, abitate in città che non avete costruito, mangiate frutti di qualcosa che non avete piantato, vi siete messi ad abitare nell’eccedenza. Accettare la vostra impotenza vi consente di abitare nell’eccedenza, in ciò che non dipende da voi e che è una sovrabbondanza. E alla domanda «e allora? e dunque?» risponde il versetto successivo:

14Ora, dunque, temete il Signore e servitelo con integrità e fedeltà. Eliminate gli dèi che i vostri padri hanno servito oltre il Fiume e in Egitto e servite il Signore.

Io non lo so, lo spererei di tutto cuore, se la mia riflessione fino a qui vi fa sentire questi versetti in un altro modo. Qui il problema non è dire dove metti la tua fede teorica, qui il problema è molto reale. Vuoi sottrarti alla potenza di una speranza basata sull’impotenza, vuoi tornare al di là del fiume, basarti sui carri, sui cavalieri, sulle spade, sugli archi o vuoi rimanere, passato questo fiume, ad abitare un’eccedenza impotente, che dunque di volta in volta a volte darà risultati: a volte no, a volte ti metterà apparentemente in situazioni di disastrosa necessità. Servire il Signore non vuol solo dire compiere i giusti rituali, rispettare la legge di purità…Cosa vuol dire servire il Signore o servire altri dèi? Lo tradurrei così: servire la potenza vivificante dello spirito che vi abita o accontentarvi del già noto, del già avuto, del già visto. E la postura di Giosuè è molto dura:

15Se sembra male ai vostri occhi servire il Signore, sceglietevi oggi chi servire: se gli dèi che i vostri padri hanno servito oltre il Fiume oppure gli dèi degli Amorrei, nel cui territorio abitate.

C’è una postura di fondo che nelle nostre vite ha dei punti di svolta in cui c’è poco da fare, o ti metti da una parte o ti metti dall’altra. Poi apparentemente quel giorno lì non cambia niente, però è un lento scivolare, fare un passo avanti o farne uno indietro o stare fermi.

Quanto a me e alla mia casa, serviremo il Signore».

Vedrete che Giosuè darà una risposta molto dura a questa affermazione, che uno dice: “dai dovresti essere contento”, dice: “scegliete adesso di qui di là”, questi ti dicono: “no, no, va bene, va bene”. E no! Ma non avete capito niente perché, se va bene solo per quello che avete visto, per la cura che avete già ricevuto, perché avete la terra e qui volete fermarvi e non scommettete su un’altra eccedenza, se vi basta questo non va bene. Infatti, dopo questa proclamazione di fede del popolo – e in questo senso – il popolo dispera, capisce male che cosa gli ha chiesto, perché si basa su quello che ha visto. I discepoli di Emmaus riconosceranno quello che non vedono più, è ben diverso.

16Il popolo rispose: «Lontano da noi abbandonare il Signore per servire altri dèi! 17Poiché è il Signore, nostro Dio, che ha fatto salire noi e i padri nostri dalla terra d’Egitto, dalla condizione servile; egli ha compiuto quei grandi segni dinanzi ai nostri occhi e ci ha custodito per tutto il cammino che abbiamo percorso e in mezzo a tutti i popoli fra i quali siamo passati. 18Il Signore ha scacciato dinanzi a noi tutti questi popoli e gli Amorrei che abitavano la terra. Perciò anche noi serviremo il Signore, perché egli è il nostro Dio».

19Giosuè disse al popolo:

Io mi sarei aspettata che gli dicesse: “ah bravi, meno male, rimaniamo tutti insieme a servire il Signore, che figo!” E lui invece dice:

«Voi non potete servire il Signore, perché è un Dio santo, è un Dio geloso; egli non perdonerà le vostre trasgressioni e i vostri peccati. 20Se abbandonerete il Signore e servirete dèi stranieri, egli vi si volterà contro e, dopo avervi fatto tanto bene, vi farà del male e vi annienterà».

La risposta è durissima e devo dire mi ha molto colpito la prima volta che l’ho letto, perché il racconto è epico, è da Ben Hur e quindi lì ti aspetti il trionfo, suoni di cimbali, sacrifici, fiamme, fumo, tutti contenti, no? E invece Giosuè dice: voi non potete servire il Signore, se questa è la vostra speranza, quello che avete visto, troppo poco, questo non dà durata, non dà fedeltà, questo è capitalistico.

21Il popolo rispose a Giosuè: «No! Noi serviremo il Signore».

22Giosuè disse allora al popolo: «Voi siete testimoni contro voi stessi, che vi siete scelti il Signore per servirlo!».

Risposero: «Siamo testimoni!».

Pensateci un attimo, è una frase pesante, pesante, tu sei il testimone contro di te. Ok, se lo volete scegliere senza aver capito, bene, il Signore vi educherà, vi condurrà, ma poi siete i testimoni contro voi stessi.

Salto qualche versetto in cui si ribadisce questo concetto e poi la conclusione.

25Giosuè in quel giorno concluse un’alleanza per il popolo e gli diede uno statuto e una legge a Sichem. 26Scrisse queste parole nel libro della legge di Dio. Prese una grande pietra e la rizzò là, sotto la quercia che era nel santuario del Signore. 27Infine, Giosuè disse a tutto il popolo: «Ecco: questa pietra sarà una testimonianza per noi, perché essa ha udito tutte le parole che il Signore ci ha detto; essa servirà quindi da testimonianza per voi, perché non rinneghiate il vostro Dio».

28Poi Giosuè congedò il popolo, ciascuno alla sua eredità.

L’ultima parola di questo lungo racconto di alleanza è eredità, che è qualcosa che tu aspetti alla morte di qualcun altro. Non è qualcosa che hai oggi. Oggi hai il diritto a un’eredità. I predicatori si sfiziano commentando la parabola del padre misericordioso dei due figli in cui dicono: “ah quello che va dal padre vivo e dice: ‘dammi la mia eredità’ è come se lo dichiara morto…” tutti vari ragionamenti…

Giosuè dice: “ok concludiamo l’alleanza, dunque ci va una legge” perché la legge è la chiave della libertà. La legge non lascia in balia delle interpretazioni. La legge è l’unica condizione per uscire dall’assolutismo e per questo tira fuori una grande pietra che ha udito, perché sia testimone. Uno dice: “ma ha detto: ‘voi siete i testimoni’?” Ok meglio due. Ci mettiamo anche la pietra. E poi congeda il popolo alla sua eredità, cioè a ciò che lo attende nel futuro.

Oggi ho chiacchierato particolarmente a lungo però questo testo mi sembra bello perché ci dice un primo aspetto che mi sembra abbastanza grande. Il soggetto è sempre un popolo non è un singolo. Questa è una dinamica comune, non individuale, ma è una dinamica per chiarire in quali termini la speranza si colloca, secondo l’itinerario credente. Non è nella logica della guarigione, del risultato, ma chiede una situazione di continua mobilità, di continuare ad abitare l’eccedenza e dunque è un problema di durata perché, quando alcune cose sembrano apparentemente raggiunte, esattamente come negli amori, perdiamo il piacere della conquista, il dubbio e l’adrenalina che l’incerto ci dà; e dunque non siamo più proiettati su un’eccedenza ma tendiamo a diventare abitudinari in un possesso, da un certo punto di vista.

 

 

Mattia: mi aspettavo da parte del popolo delle parole che convincano, delle parole diverse e invece il popolo ripete sempre la stessa cosa-

Stella: Eh, certo! Perché è proprio lì il problema, il popolo è arrivato a un punto, vuole tenersi quel punto raggiunto e ha paura di slanciarsi in un’altra situazione di impotenza. Giosuè cerca di spingere, di dire: “guardate è un Dio geloso, non potete servire al Signore se state fermi qua, se identificate ad esempio la terra con il raggiungimento della speranza”. E il popolo, almeno lì per quel tempo, non ce la fa, rimane bloccato nel ripetere sempre la stessa cosa. Che è da una parte un dato positivo, la sua fedeltà e gratitudine al Dio che li ha condotti alla libertà, ma dall’altra  ha l’incapacità di guardare oltre. Per questo sorgeranno i profeti, che hanno un altro sguardo; per questo, secondo almeno l’interpretazione della Bibbia, la storia di Israele evolverà in un regno, che solo per brevissimo tempo sarà un regno positivo, poi sarà diviso e costerà l’esilio, costerà di perdere la terra per rimettere in moto la dinamica del desiderio. Hai perfettamente ragione, quella è la dinamica, la costante ripetizione.

Enrico ha ricordato una strip dei Peanuts adatta alla situazione in cui Lucy è tutta imbronciata e Linus cerca di tirarla su di morale e gli dice: “vieni, siediti qua, guarda il tuo programma TV preferito, ti porto una coperta, ti porto la cioccolata calda…” ha molta cura di lei e le dice: “va meglio?” E lei gli dice: “ma è tutto perfetto, c’è solo una cosa che non hai considerato: io non voglio sentirmi meglio!”
Stella: Esattamente questo è il dilemma: io non voglio sentirmi meglio.

Marco: Due cose velocissime. Il primo impatto che ho avuto con questo capitolo di Giosué è che è una contro-omelia, è diversa da tutte le altre omelie che ho mai sentito, perché nessuno ha mai detto in chiesa la domenica: “guardate che il nostro Dio è un Dio geloso e che insomma ecco farà quello che farà”. E l’altra cosa invece è che capisco sempre di più perché è il Pentateuco, la Torah si ferma prima di entrare nella terra e questo fatto permetterà di usarla al ritorno dall’esilio, permetterà di usarla dopo il 70 e dopo il 135.

Stella: Esatto due osservazioni notevoli, perché effettivamente sono così, è questa la questione, la Torah si ferma a un certo punto prima al di qua del fiume e lascia aperto quello che succede dopo e sarà appunto riusabile.

Mattia: il versetto abitate in città che non avete costruito, mangiate viti e olivi che non avete coltivato eccetera, se letta alla lettera, per esempio dai coloni israeliani in questo momento, ha una potenza distruttiva allucinante.

Stella: E in effetti in questo momento ci è particolarmente visibile, perché proprio uno materialmente riconosce che se tu la pigli alla lettera… Però dall’altra parte secondo me è proprio il segnale della potenza salvifica, ma anche distruttiva e quindi della potenza assoluta, cioè del testo della Bibbia, che è veramente un testo vivo. Per cui così, come nella storia in tanti singoli passaggi, singoli versetti su diversi temi si è potuto usare malissimo (contro le donne, contro gli schiavi, contro i non credenti… dei disastri allucinanti!) così può essere un luogo di salvezza, di una vita in più. Che cosa vuol dire oggi quel versetto lì abitate in città che non avete costruito? Perché di per sé l’episodio è molto simile a quello che succede nei territori occupati, gli Amorrei, i Gerasei, saranno pure pagani, però si erano fatti le loro città, avevano piantato i loro ulivi, non è che rompevano le scatole a qualcun altro. E questi sono arrivati e hanno detto: “mio!” come la mettiamo? Così come George Bush ha potuto annunciare la guerra contro l’Iraq leggendo Deuteronomio; è possibile, no? E questo, secondo me, ci interroga moltissimo.

Domanda: ci sono correnti dell’ebraismo che contestano lo Stato di Israele perché lo ritengono una forma di idolatria, ma anche loro si rifanno alla stessa Torah…

Stella: Assolutamente, perché il problema è lo stesso. Al di là di quando alle elementari ci dicevano che la differenza tra i cristiani e gli Ebrei è che gli Ebrei non hanno riconosciuto Gesù, il Messia – che era un modo per spiegarlo ai bambini – però la questione è la stessa per noi come per gli Ebrei ed è la dinamica profonda tra guarigione e cura, per dirla con le parole che stiamo usando in questo momento, cioè tra il risultato e la sua staticizzazione, cioè il rendere statico e stabile un risultato raggiunto, che si chiami Stato, terra, ma anche istituzione, Chiesa, tutta questa roba. Oppure cosa vuol dire abitare in un movimento permanente, cioè nella capacità di nutrire la speranza della propria impotenza, che non è una roba da poco. Appunto questo vorrebbe essere un po’ il filo di approfondimento dentro cui andiamo in questo percorso di quest’anno: la speranza non si basa sul ciò che ho visto, sui risultati, sulla staticizzazione, ma si basa sull’esperienza costante della propria impotenza e sulla potenza del desiderio, invece.

Però il problema è di tutti, poi in questo momento ci viene molto più in mente il caso concreto, che abbiamo sotto gli occhi in un modo quasi plateale, impressionante quanto è forte. Però è vero che per esempio nello stesso ebraismo ci sono correnti che non riconoscono lo Stato di Israele, che lo ritengono idolatrico e così via, minoritarie, ma ci sono.

Fossano, 23 novembre 2024
Testo non rivisto dall’autore

Lectio 2024/2025

DataTitoloCommento a:
12 Ottobre 2024
Stella Morra
1. Sperare “qualcosa”
Lc 24, 13-35
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