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4 Maggio 2024
Stella Morra

8. Settimo sigillo: le vite degli altri

Commento a: Gv 6, 1-15


Buon pomeriggio a tutte e tutti. Ultimo passo, siamo alla conclusione provvisoria di questo percorso. Chissà se, come ci è capitato, ritorneremo su questo tema, magari fra vent’anni! Siamo partiti, se ricordate, dal punto in cui eravamo arrivati vent’anni fa, cioè che il potere ha un senso se è un potere che fa vivere, cioè se è un potere generativo, non affermativo. Allora ci eravamo fermati qui.

Durante il percorso condiviso quest’anno, ho cercato di individuare almeno alcune caratteristiche del potere, anche se non un profilo completo. La prima su cui ci siamo fermati, riflettendo sul testo di Davide e Uria, è che il potere può essere generativo se ha molte forme, se non è legittima un’unica forma del potere. Ogni riduzione di forme del potere, ogni classificazione che prevede uno e un solo percorso di potere, è molto pericoloso perché il potere unico si autotutela, tende a cancellare tutte le diversità possibili. Il secondo carattere, che discende direttamente da questo, era il carattere dell’autocomprensione di parzialità; il potere può stare in questa logica di essere un potere generativo se comprende se stesso sempre come parziale, in qualche misura, cioè come capace di mettersi insieme ad altri pezzi, ad altri soggetti, ad altre realtà. Poi nel passo successivo avevamo esaminato un caso specifico di questa parzialità, che però non è un caso qualsiasi, che è il caso uomini-donne, ricordate la figlia di Giairo e l’emorroissa. Lì si vedono bene due forme molto diverse di potere che non sono l’una più potente o meno potente dell’altra, anzi il potere della donna è molto potente, però è una forma decisamente diversa, perché quello è un po’ un caso simbolico di ogni diversità possibile del potere.

Qui ci sarebbe un lunghissimo discorso da fare. Culturalmente l’esorcizzazione di questa questione circa le donne ha costruito il patriarcato, cioè un grande aumento del valore simbolico del potere delle donne che hanno potere sulla vita, quindi è chiaro che hanno un potere simbolico molto forte, costruito a prezzo di essere totalmente marginali quanto al potere strettamente inteso o all’unica forma di potere che è un potere gerarchico. Questa situazione è ciò che le donne hanno dall’Ottocento spezzato, non accettando più questo equilibrio che creava una specie di situazione calma culturalmente: grande potere simbolico, “sei la luce nei miei occhi, ma a casa decido io” per dirla in modo molto banale. Spezzato questo equilibrio siamo in un’enorme transizione perché c’è sempre la tentazione sostitutiva cioè di dire “facciamo cambio, voi diventate simbolici e noi diventiamo potenti efficacemente”. Ma questo non va bene. La logica non è sostitutiva, la logica è cosa vuol dire integrare diverse forme di potere perché tutte collaborino per la generatività. I due passi successivi, il penultimo e l’ultimo, sono stati sui due caratteri abbastanza inevitabili rispetto al tema del potere che sono la forza e la gentilezza. Forme diverse di potere implicano generi di azione e generi letterari diversi, forti e gentili. E qui abbiamo già provato a dare alcune piegature più teologiche accoppiando il tema della gentilezza al tema della grazia e il tema della forza con il tema della perseveranza: perseveranza e grazia sono due caratteri della vita cristiana che hanno una grande rilevanza nelle figure del potere.

 

La lectio di oggi

Il testo di stasera è la prima metà del capitolo 6 del Vangelo di Giovanni, testo che abbiamo già percorso tante volte e che tutte le volte che lo ripercorro mi muove cose nuove, mi inquieta. Nel contesto del nostro percorso, in cui vi ricordate esploravamo un po’ i sigilli del libro, questo è il settimo sigillo da aprire: le vite degli altri. C’è un bel film, che forse avete visto, che si intitola “Le vite degli altri”, molto inquietante, che dice una cosa sostanziale e verissima: guardare le vite degli altri da fuori è l’unica cosa che ci è impossibile, nessuno di noi può vivere la vita di un altro, ma bisogna lavorare su questo “da fuori”, perché altrimenti siamo una minaccia, un’incombenza, non una relazione. E quindi bisogna un po’ capire che cosa vuol dire guardare le vite degli altri da fuori. Mi ha sempre molto colpito che Alessandro Barbero, lo storico, in un’intervista in cui gli veniva chiesto a cosa serve la scuola, sosteneva che la scuola serve a una sola cosa: a non essere costretti a vivere solo la propria vita, a conoscere le vite degli altri perché è l’unico modo per poter avere un terreno comune e dunque eventualmente educare cittadini, avere un patto sociale, con tutto quello che segue. Ma il punto di partenza è che la scuola serve a sapere come sono le vite degli altri, perché se no si è sempre costretti a vivere solo la propria vita. E trovo che è una bella definizione, che ben si inserisce nel nostro argomento. Abbiamo bisogno di conoscere le vite degli altri per non essere costretti a vivere solo la nostra e anche per eventualmente, se ci va, provare ad essere cristiani. Perché bisogna conoscere la vita di un Altro, che è radicalmente diverso da noi, che è Dio, che si è mostrato in Gesù Cristo con molte vicinanze, ma rimane un Altro, rimane qualcuno che in qualche modo guardiamo da fuori. Questo è un po’ l’orizzonte. Come al solito leggo il testo.

 

Il testo: Gv 6,1-16

6 1Dopo questi fatti, Gesù passò all’altra riva del mare di Galilea, cioè di Tiberìade, 2e lo seguiva una grande folla, perché vedeva i segni che compiva sugli infermi. 3Gesù salì sul monte e là si pose a sedere con i suoi discepoli. 4Era vicina la Pasqua, la festa dei Giudei.

5Allora Gesù, alzàti gli occhi, vide che una grande folla veniva da lui e disse a Filippo: «Dove potremo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?». 6Diceva così per metterlo alla prova; egli infatti sapeva quello che stava per compiere. 7Gli rispose Filippo: «Duecento denari di pane non sono sufficienti neppure perché ognuno possa riceverne un pezzo». 8Gli disse allora uno dei suoi discepoli, Andrea, fratello di Simon Pietro: 9«C’è qui un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci; ma che cos’è questo per tanta gente?». 10Rispose Gesù: «Fateli sedere». C’era molta erba in quel luogo. Si misero dunque a sedere ed erano circa cinquemila uomini. 11Allora Gesù prese i pani e, dopo aver reso grazie, li diede a quelli che erano seduti, e lo stesso fece dei pesci, quanto ne volevano. 12E quando furono saziati, disse ai suoi discepoli: «Raccogliete i pezzi avanzati, perché nulla vada perduto». 13Li raccolsero e riempirono dodici canestri con i pezzi dei cinque pani d’orzo, avanzati a coloro che avevano mangiato.

14Allora la gente, visto il segno che egli aveva compiuto, diceva: «Questi è davvero il profeta, colui che viene nel mondo!». 15Ma Gesù, sapendo che venivano a prenderlo per farlo re, si ritirò di nuovo sul monte, lui da solo.

16Venuta intanto la sera, i suoi discepoli scesero al mare.

 

Commento:

Testo molto conosciuto, sul quale vi chiederei di fare lo sforzo che Sant’Ignazio negli Esercizi chiama l’esercizio dell’immaginazione, del vedere ogni passaggio, del vedere tutte le singole cose che succedono una dopo l’altra, del non stare semplicemente dietro al racconto. Il racconto lo conosciamo, ce l’abbiamo nelle orecchie, ma bisogna proprio in qualche modo vedere un passo dopo l’altro, così come Giovanni ce lo racconta perché è un testo molto costruito dal punto di vista letterario. Inizia con i primi quattro versetti che sono chiaramente un titolo, sono proprio l’impostazione. E inizia così:

1Dopo questi fatti, Gesù passò all’altra riva del mare di Galilea, cioè di Tiberìade, 2e lo seguiva una grande folla, perché vedeva i segni che compiva sugli infermi. 3Gesù salì sul monte e là si pose a sedere con i suoi discepoli. 4Era vicina la Pasqua, la festa dei Giudei.

Il primo e l’ultimo versetto individuano due passaggi: “Dopo questi fatti, Gesù passò all’altra riva del mare di Galilea, cioè di Tiberìade” e “Era vicina la Pasqua, la festa dei Giudei” (vi ricordo cha Pasqua vuol dire passaggio e ricorda il passaggio del Mar Rosso).

Gesù passa all’altra riva apparentemente un po’ scappando e lo seguiva una grande folla, perché vedeva i segni che compiva sugli infermi, ma Gesù salì sul monte e là si pose a sedere con i suoi discepoli. Sembra mettersi un po’ da parte rispetto alla folla, con i suoi, e si mette a sedere.

Sull’altra riva è un altro punto di vista, la vita di qualcun altro, è proprio un altro luogo da cui guardare le cose. Ognuno di noi sa che certe volte è proprio il viaggiare fisico che è necessario; uno deve staccarsi da un posto, uscire, andare altrove per poter guardare le cose da un altro punto di vista. Gesù passa il mare (mare è una definizione un po’ abbondante, diciamo), ma comunque passa dall’altra parte del lago. Ma poi non basta: passa dall’altra parte del lago e sale sul monte, è un altro di un altro, cioè c’è un raddoppiamento dell’alterità.

Dall’altra parte, e poi progressivamente in avvicinamento, c’è la folla che ha visto i miracoli, la folla con la propria vita; sono tanti, un po’ confusi e confusionari, immagino non saranno stati 5.000, ma comunque erano un gruppo un po’ più vasto dei discepoli; hanno visto le guarigioni degli infermi. “Dopo questi fatti” si riferisce a quello che c’è prima: al capitolo 4 c’è la Samaritana, poi nel capitolo 5 ci sono i racconti di vari miracoli (cieco nato ecc.). La folla ha visto dei miracoli, cioè ha visto dei bisogni, dei desideri, delle domande risolti. E segue questo potere. Ovviamente Gesù potrebbe semplicemente “abitare questo potere”: “Avete visto che cosa ho fatto, dunque seguitemi, credete”. Non dico abitare questo potere semplicemente per la sua vanagloria, non è nel carattere di Gesù, insomma non è tanto vanitoso, ma rivolgendolo al bene, per l’evangelizzazione, per dire: “Avete visto quanto è bravo Dio, adesso vi spiego come dovete vivere.”

In questa tensione tra la folla e i miracoli c’è una domanda primaria che è la domanda di tutte le nostre vite adulte. Vivere è faticoso, tutti lo sappiamo, abbiamo guai grandi o piccoli, fatiche, cose belle anche, però, un sacco di grane. Se qualcuno ci desse una specie di bacchetta magica per risolverle, o almeno le più grosse, beh, perché no?

E Gesù va sul monte, crea un terzo: prima va sull’altra riva e poi va sul monte. Guarda le vite degli altri. Ci chiede di guardare lui come la vita di un altro, ma anche lui guarda la vita degli altri, la guarda dal punto di vista di Dio. Il discorso di Giovanni è chiarissimo nel presentare Gesù come il figlio di Dio, non solo attraverso le cose che fa o che dice, ma anche attraverso la sua collocazione spaziale geografica: qui Gesù si mette in alto, che è il luogo del divino, dove poi tornerà da solo sul monte. In Giovanni, Gesù va sempre sul monte a pregare, in un posto più vicino al Padre.

Gesù va sul monte con i suoi discepoli e la frase che conclude questo inizio è “Era vicina la Pasqua, la festa dei Giudei.” È un dato cronologico perché Giovanni costruisce tutto il Vangelo, anche forzando un po’ gli eventi perché i conti non tornano tanto, su una salita a Gerusalemme per celebrare la Pasqua. Al di là di questo dato cronologico è anche un dato sostanziale. Il passaggio è vicino, è la Pasqua di Gesù, la nuova Pasqua, non solo la festa dei Giudei che si sta avvicinando e c’è un passaggio all’altra riva ben più pesante. Non a caso questo versetto o quelli consimili (“passiamo all’altra riva” rivolto ai discepoli) vengono spesso usati nei ricordini dei defunti perché c’è dietro l’immagine di un passaggio radicale all’altra sponda, alla sponda che non conosciamo. La Pasqua, la festa dei giudei è vicina, ma è anche vicina la Pasqua di Gesù. Bisognerà un po’ tirare i conti e, in qualche modo, Gesù guarda la vita degli altri prima di tirare i conti.

5Allora Gesù, alzàti gli occhi, vide che una grande folla veniva da lui e disse a Filippo: «Dove potremo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?». 6Diceva così per metterlo alla prova; egli infatti sapeva quello che stava per compiere.

Questo alzare gli occhi, alzare lo sguardo, torna tantissimo in Giovanni. Se pensate a Giovanni 21, quando la Maddalena incontra quello che lei crede il giardiniere, che è il risorto, lei alza gli occhi, lui alza gli occhi. Ecco Gesù alza gli occhi e vede la vita degli altri, vede la folla. Quello che vede della vita degli altri è il bisogno, il bisogno che lo interpella: «Dove potremo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?».

La sua domanda a Filippo non è: “risolvete voi il problema”. Infatti poi si dice, “diceva così per metterlo alla prova, perché sapeva bene quello che stava per fare”. Questa messa alla prova è la messa alla prova del coinvolgimento; Gesù non si sottrae, farà quello che deve, ma il primo passo è mettere alla prova i suoi e dire: Vedete il bisogno? Vedete la vita degli altri? Che cosa il bisogno degli altri muove in voi?

Tantissime volte abbiamo detto che l’esperienza della grazia è questa esperienza di ciò che viene svegliato in me dal bisogno di colui o di colei che è amato, che ha bisogno di me e che sveglia in me delle capacità che spesso io non so nemmeno di avere, dei veri e propri miracoli che si mettono in movimento per rispondere al bisogno di un amato e che io riconosco come profondamente miei solo quando l’altro li sveglia, perché questa è l’esperienza della grazia. Per questo ci servono le vite degli altri, per risvegliare in noi la grazia.

7Gli rispose Filippo: «Duecento denari di pane non sono sufficienti neppure perché ognuno possa riceverne un pezzo».

Gesù si lascia svegliare dal bisogno della folla. “Che cosa sveglia in voi questa folla?”, sta chiedendo ai suoi. Io credo che questa domanda potrebbe farci venire i brividi se la rivolgessimo alle nostre realtà ecclesiali: che cosa sveglia in voi il bisogno del mondo? Di solito la risposta onesta è: quasi niente. La risposta un po’ migliore, ma anche un po’ più stupida, è quella di Filippo: facciamo quello che possiamo, organizziamo iniziative, poi mica dipende da noi. «Duecento denari di pane non sono sufficienti neppure perché ognuno possa riceverne un pezzo». Filippo ha ragione, è vero, è semplicemente vero, ma se quello che le vite degli altri svegliano in te e il bisogno delle vite degli altri sveglia in te è solo un realismo un po’ cinico, non c’è futuro, non c’è futuro e non c’è esperienza cristiana. Le vite degli altri devono sempre svegliare un po’ in noi una qualche forma di follia amorosa, che è molto destabilizzante evidentemente, ma non c’è alternativa.

8Gli disse allora uno dei suoi discepoli, Andrea, fratello di Simon Pietro: 9«C’è qui un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci; ma che cos’è questo per tanta gente?».

C’è l’altro discepolo, Andrea, fratello di Simon Pietro, che è a metà, prova a farsi svegliare, ma è un po’ incerto sulla bontà della sua risposta: “C’è qui un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci; ma che cos’è questo per tanta gente?”

In questi tempi, come credente, mi ritrovo ad affrontare una realtà contrastante nella mia vita: per alcuni versi ho molte bellissime soddisfazioni, anche una grande raccolta di frutti rispetto alla fatica di questi anni, ma per altri versi questo è un tempo della mia vita faticoso, molto faticoso, come se ci fossero desideri sopiti che non hanno ancora trovato la loro strada e il senso che il tempo è breve, non ce la posso fare (sono solo cinque pani d’orzo e due pesci). In questo tempo, quando mi interrogo sulla responsabilità e sul potere che ho rispetto agli studenti o nel mio luogo professionale, nel servizio ecclesiale che cerco di compiere, la mia domanda è proprio questa: “che cos’è questo per tanta gente?” Che non è una domanda sulla quantità, è una domanda sulla qualità. Tutto ciò di cui ci occupiamo, che amiamo, che facciamo, le iniziative, gli impegni, che cos’è questo per tanta gente? Mi sembra una domanda seria, non so, almeno per me lo è. Che cos’è la mia vita nel suo bene e nel suo male per tanta gente? Quanti pezzi avanzati si raccoglieranno? Perché è buffo, dopo si raccolgono dodici ceste a partire da cinque pani che nemmeno i cinque pani interi, senza che nessuno ne mangiasse, le avrebbero riempivano. Invece i pezzi avanzati riempiono dodici ceste. Che cos’è questo per tanta gente? Il giorno che uno muore, quante ceste si raccolgono nella sua vita? Personalmente questa domanda mi trafigge con una specie di dolcezza. Non la trovo per niente una domanda di ordine morale, non mi fa venire sensi di colpa o pensieri di ordine morale, ma la trovo fortemente una domanda vitale, generatrice. Che cos’è questo per tanta gente?

10Rispose Gesù: «Fateli sedere». C’era molta erba in quel luogo. Si misero dunque a sedere ed erano circa cinquemila uomini.

Gesù vede la vita della gente e quindi dice: “fateli sedere”. Giovanni specifica, perché per un posto desertico è notevole, che “c’era molta erba in quel luogo”. Come dire: mettetevi comodi. Gesù non dice ci penso io, non dice faremo così, non dice fidatevi di Dio, nessuna omelia, nessuna predica morale. Dice “mettetevi comodi” perché la grazia si ha nella comodità, non è un cilicio, la grazia si riconosce laddove la tua vita è raccolta da uno sguardo che prova a farti mettere comodo.

Qui ci sarebbe da ragionare un po’ su cosa vuol dire mettersi comodi, tra il passare all’altra riva e la Pasqua, perché dura poco. Sicuro sappiamo che dura poco mettersi comodi, perché si è tra un passaggio e l’altro, però quel pochino uno dovrebbe provare a goderselo. Tra il passare all’altra riva e salire sul monte e la Pasqua che è il passaggio finale, però in mezzo provare a stare un po’ comodi non sarebbe una brutta idea.

La gente dunque si sedette ed erano circa cinquemila uomini, anche qui probabilmente una stima un po’ esagerata, però è per dire che erano tanti. Ecco, sempre con la raccomandazione iniziale, provate a ricostruire i passaggi, a visualizzarli, non tanto la narrazione.

11Allora Gesù prese i pani e, dopo aver reso grazie, li diede a quelli che erano seduti, e lo stesso fece dei pesci, quanto ne volevano.

Gesù rese grazie, prima sui pani poi sui pesci, e li distribuì alla gente seduta, per quanto ne vollero. Non c’è condizione, non c’è qualificazione; niente è richiesto alla vita degli altri, se non che si mettano comodi e che esprimano quanti ne vogliono. Non c’è nessuna tessera, nessuna iscrizione, non c’è niente se non: mettetevi comodi/quanto ne volete. Ma c’è una condizione per Gesù, per lui, che lui renda grazie, che è lo stesso gesto che compirà per l’istituzione dell’Eucaristia, che è il gesto classico della Haggadah ebraica, della cena, anche del sabato ordinario ebraico, rendere grazie. Che in qualche modo è la sintesi dei sei sigilli precedenti: riconoscere la propria parzialità, riconoscere la grazia ricevuta, la pienezza della differenza (voi avete fame e io ho cinque pani) e la generatività. È tutto racchiuso in quel rendere grazie. Gesù si mette nel posto giusto, esercita un potere, il potere di moltiplicare i pani e i pesci, ma totalmente generativo, perché comincia dal rendere grazie, che non è un gesto di generica buona educazione, è proprio una ricollocazione di sé e poi può dunque generare per nutrire la fame della gente.

12E quando furono saziati, disse ai suoi discepoli: «Raccogliete i pezzi avanzati, perché nulla vada perduto». 13Li raccolsero e riempirono dodici canestri con i pezzi dei cinque pani d’orzo, avanzati a coloro che avevano mangiato.

Quando furono saziati, quando il bisogno che ha risvegliato in Gesù questo potere è colmato, disse ai suoi discepoli: «Raccogliete i pezzi avanzati, perché nulla vada perduto». Anche qui c’è, dal mio punto di vista, una ferita spirituale dolce, non dolorosa, ma fondamentale. Nulla va perduto perché ci sono tante altre fami da saziare. Noi non siamo Gesù, non siamo in grado di moltiplicare i pani, ma siamo in grado di usare i pezzi avanzati. E per questo Gesù ci raccomanda questo: «Raccogliete i pezzi avanzati, perché nulla vada perduto». Gesù deve fare una sola cosa, rendere grazie per trovare il suo potere. Noi dobbiamo rendere grazie e raccogliere i pezzi avanzati, abbiamo bisogno del trucco. Se no facciamo la fine di Filippo (duecento denari non basterebbero). E questo raccogliere i pezzi avanzati è il nostro lavoro.

In questo tempo mi capita spesso di pensare che essere cristiani vuol dire, dal mio punto di vista, almeno in questo tempo, essere dei raccoglitori di grazia avanzata. Certo i pezzi avanzati non sono belli come una bella pagnotta. I pezzi avanzati sono sbocconcellati, spezzati, non troppo eleganti, ma sono il nostro potere. Il nostro potere è raccogliere i pezzi avanzati della grazia, perché nulla vada perduto, nulla. E anche qui una delle domande che mi faccio, si vede che sto invecchiando, è di quali pezzi avanzati mi sarà chiesto conto.  Cosa avanzerà, perché il vero trucco è lasciare molti pezzi avanzati dopo di noi perché altri possano continuare a raccoglierli.

E poi, se non avessimo ancora capito che questo non è un discorso sentimentale né un discorso gastronomico, ma è un discorso sul potere, Giovanni mette i due versetti finali che ci chiariscano le idee:

14Allora la gente, visto il segno che egli aveva compiuto, diceva: «Questi è davvero il profeta, colui che viene nel mondo!».

La folla non si è spostata di un millimetro. All’inizio “lo seguiva una grande folla, perché vedeva i segni che compiva sugli infermi” e alla fine di tutto questo la folla riconosce che Gesù sa fare dei miracoli incredibili, ma non si è spostata.  Risultato evangelizzatore per Gesù: zero.

15Ma Gesù, sapendo che venivano a prenderlo per farlo re, si ritirò di nuovo sul monte, lui da solo.

Lo vogliono incasellare nell’unica forma di potere che conoscono, il potere di colui che in qualche modo esaudirà tutti i nostri bisogni. Se lo facciamo re, abbiamo risolto. Gesù di fronte a questo “si ritirò di nuovo sul monte, da solo”.

Questo testo mi sembra veramente un testo densissimo su questa questione dell’essere un potere generativo per la vita degli altri, capace di guardare la vita degli altri, di farsi svegliare dalla vita degli altri. Troppo spesso ci vogliamo occupare della vita degli altri senza che la vita degli altri ci svegli, cioè chiami in vita in noi ciò che riteniamo pericoloso o faticoso o compromettente. È più facile essere buoni che essere costruttori di grazia. La grazia è più faticosa.

Intervento. Mi veniva da fare un collegamento, quando tu parlavi di che cosa lasceremo, dei pezzi avanzati. A me è venuto da fare un collegamento con una frase che avevamo detto in una lectio passata in cui parlavamo della buona misura, pigiata, scossa e traboccante. Non sai bene cosa lascerai, non sai bene neanche cosa raccoglierai, però provi a seminare e, se provi a seminare spendendoti senza misurare troppo quello che investi, poi alla fine qualcosa raccogli tu e qualcosa lasci anche avanzato per gli altri.

Commento. Sì, assolutamente, il tuo collegamento è molto corretto, tra l’altro anche evangelicamente. Questo tema della misura sovrabbondante, del centuplo, dei pezzi avanzati è una delle forme in cui il Vangelo dice che c’è una sovrabbondanza della grazia. La grazia non è mai misurata, è sempre sovrabbondante. In fondo è interessante perché quello che avanza di più, la misura ben scossa, è quello che non per bontà, ma per sovrabbondanza non tieni per te, perché sei già pieno fino all’orlo. In fondo non è una forma di altruismo benevolo è proprio una figura di sovrabbondanza.

Intervento. Questa cosa però funziona solo nella misura in cui siamo coinvolti, cioè non siamo distanti, che in qualche modo non offriamo un pacchetto preconfezionato che non ci riguarda.

Commento. Esattamente, infatti questo è tutto il delicato gioco tra Gesù, Filippo, Andrea. Il problema è vedere le vite degli altri, ma non semplicemente vederle, farsi toccare, farsi svegliare. Questa io penso sia la questione seria più grossa dell’esperienza cristiana, cioè la necessità di esserci.  Che è già una cosa complicata tra umani; per ciascuno di noi è complicato rispetto a uno, due, tre persone, quelle più vicine a noi, a cui anche i sentimenti ci legano, la storia è condivisa. Esserci è veramente la condizione di possibilità, ma insieme è la cosa forse più difficile a cui siamo chiamati.

Intervento. Ho trovato molto significativo il tema delle briciole, dei pezzi avanzati. Mi ha fatto venire in mente il testo della donna di origine siro-fenicia in cui le briciole che cadono per i cagnolini insegnano a Gesù chi è Dio, che in qualche modo non è solo per gli ebrei, è un dono per tutti e deve allargare il suo dono a tutti.

Commento. Sono assolutamente d’accordo: questo tema dice di una potenza del poco, del pezzo avanzato, della fatica che a volte sembra concretizzarsi in poca roba, però ha un potere molto forte.

Intervento. Ascoltarti, mi ha scatenato la questione della fiducia. Se ho capito bene, allora, se il potere è un potere generativo, io che lo esercito vedo l’altro, gli altri, e genero qualcosa insieme a loro, consapevole che ci saranno delle ceste che avanzeranno. Mi ha fatto venire in mente il tema dell’eccedenza, ma a questo ho agganciato quello della fiducia, cioè che io, con gli altri, facciamo insieme delle cose, ma non si potrà fare tutto. Allora la questione è che quello che ho fatto era quello che potevo veramente fare, ma soprattutto la fiducia che c’è un Altro, c’è Dio che porterà a casa le cose come devono essere.

Commento. Certamente non è una passeggiata, è anche però una dinamica veramente sovrabbondante. La sovrabbondanza è il segno dell’ospitalità, della vita, del crescere. Abbiamo sempre più bisogno di vite sovrabbondanti e di poteri che rendano le nostre vite sovrabbondanti. L’esperienza che stiamo facendo in tanti, credo, nelle diverse parti del mondo, è di una storia che rende le nostre vite sempre più essiccate, piene di lotta per la sopravvivenza, in cui sembra che solo per arrivare alla sera dal mattino già devi mettere tutte le energie che hai a combattere con la burocrazia, l’ingiustizia. E noi siamo di quelli che stanno bene nel mondo, perché c’è qualcuno che deve mettere tutte le energie per cercare di mettere insieme un pasto. Sì, abbiamo bisogno di sovrabbondanza e di gratuità, questo è chiaro.

 

Fossano, 4 maggio 2024

Testo non rivisto dall’autore

 

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