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3 Dicembre 2011
Stella Morra

3. A partire da un sacrificio

Commento a: Es 12, 1-14


Premessa

Stiamo ragionando sulla comunità cristiana, sull’essere comunità. Avevamo impostato la questione dicendoci che siamo tutti adulti e ciascuno fa la sua parte, ciò che gli spetta. Ma il problema è, da un lato, capire come possiamo fare la nostra parte e dall’altro lato la questione sul piatto è la relazione tra due parole molto usate ed abusate quando si parla della Chiesa e cioè “comunione” e “comunità”.

Da una parte tendiamo tutti a fare ragionamenti molto spirituali del tipo “la chiesa è un luogo di comunione…” ragionamenti verissimi come tensione a diventarlo, dall’altra parte tutti abbiamo l’esperienza concreta di comunità che è difficile chiamare comunità in senso psicologico e sociologico, perché va già bene se si costruisce un buon rapporto tra un gruppetto di persone, se si va almeno un po’ d’accordo col parroco… insomma, è abbastanza complicato applicare all’esperienza ecclesiale i criteri con cui a livello umano si intende la parola “comunità”.

Dall’altra parte questa idea di comunione così alta, zuccherosa, perfetta, è la garanzia che non si realizzi mai da nessuna parte, ci sarà solo nel Regno dei cieli… Quando diciamo “la famiglia è un luogo dove ci si vuole bene”, ed è vero, il problema è che non è che ci si vuole bene in modo astratto e zuccheroso: ci si vuole bene un giorno dopo l’altro e fa parte del volersi bene il fatto che a volte ci sono delle tensioni, non ci si capisce, bisogna rimodularsi su nuovi equilibri, come quando i figli crescono, per esempio.

In sintesi: come ciascuno di noi può fare la propria parte? L’unico modo per fare la propria parte è fare l’animatore liturgico o il catechista? Se vai “solo” a messa la domenica, non fai parte della comunità? E poi, la tensione fra comunione e comunità.

Nella prima Lectio abbiamo affrontato il testo dell’alleanza di Sichem, in cui il tema dominante era la relazione tra memoria ed identità. Ciascuno di noi ha una propria memoria legata al tema dell’appartenenza alla Chiesa, se no non si porrebbe neppure il problema. Se ce lo poniamo è perché c’è stato un passaggio, un’esperienza, una o più persone incontrate, che ci hanno fatto pensare che quello fosse un luogo cui valeva la pena di appartenere. Ma nel mutare della nostra vita facciamo fatica a tenere insieme le due cose, memoria e identità, per cui si rischia di diventare nostalgici – “com’era bello quando eravamo adolescenti e andavamo ad Acceglio…”. Memoria di qualcosa che ha segnato in profondità e contemporaneamente difficoltà a fare di questo un’identità reale, concreta, che non sia solo un ricordo nostalgico.

Il secondo passo che abbiamo affrontato era tratto dagli Atti degli Apostoli, il testo della guarigione dello storpio. Questo testo è un po’ l’altra faccia del primo: il testo di Giosuè ha un tono, appunto, da Vecchio Testamento, una grande assemblea rumorosa che fa pensare ad un colossal hollywoodiano, mentre la guarigione dello storpio ha un tono più esistenziale, lo comprendiamo meglio, ma la nostra attesa è la stessa: da una parte c’è la memoria, dall’altra c’è l’attesa di una benedizione, di una guarigione, di qualcosa che muova il nostro domandare, ma non sappiamo neppure cosa ci aspettiamo.

Che effetto ci aspettiamo che abbia la partecipazione alla vita ecclesiale? In genere sappiamo abbastanza bene che cosa non vogliamo: non ci piacciono i preti arroganti, le prediche troppo lunghe… Ma che cosa ci aspettiamo che sia una comunità ecclesiale di cui sentirsi veramente parte, senza essere soffocati né imprigionati, ma potendo continuare ad essere quello che siamo? Qual è la guarigione che ci aspettiamo? Credo che sia abbastanza difficile rispondere a queste domande.

In questi primi due testi mi sono soffermata su quattro parole che caratterizzavano il contesto. Nell’assemblea di Sichem “temete il Signore e servitelo con integrità e fedeltà” (Giosué 24, 14). Temere, Servire, Integrità, Fedeltà.

Nel brano degli Atti “Ora, fratelli, io so che voi avete agito per ignoranza, (…) convertitevi dunque e cambiate vita, perché siano cancellati i vostri peccati e così possano giungere i tempi della consolazione (…) Bisogna che il cielo lo accolga fino ai tempi della ricostituzione di tutte le cose” (Atti 3, 17 – 20). Ignoranza, Conversione, Consolazione, Ricostituzione.

Teniamo sullo sfondo queste quattro più quattro parole: quello che compete a noi e alla nostra memoria è temere e servire con integrità e fedeltà, quello che forse desideriamo è che si rompa l’ignoranza, che tutti insieme sappiamo convertirci in modo che giungano tempi di consolazione e ricostituzione.

Nella nostra esperienza di rapporti umani questa duplice questione è così chiara e contemporaneamente così difficile: in un amore, un affetto, un’amicizia, ciascuno di noi può metterci di suo solo il fatto di provare ad essere una brava persona, di provare a fare del proprio meglio, di rispettare la vita dell’altro, di servirla quando ci riesce, di fare in modo che l’altro possa godere a pieno della sua vita con la totalità di sé e con l’impegno della propria libertà. Il problema è che ci si aspetterebbe che succeda che si rompa l’ignoranza, l’ignorarsi, che ci sia un conoscersi reciproco, una conversione, un convergere, un cominciare a desiderare le stesse cose perché questo sia di consolazione e di ri-costituzione di qualcosa di nuovo, di una vita che è sempre la stessa ma in qualche modo viene ri-costituita, ri-organizzata.

Questa cosa, apparentemente molto semplice, che descrive il nostro movimento profondo quando ci giochiamo in un rapporto con un altro, è così complicato farla funzionare, ha un prezzo così alto… già solo decidere dove si va in ferie – io amo il mare, tu la montagna – diventa una cosa su cui non si riesce a tenere insieme questi 4 + 4 verbi, se io cedo per far piacere a te, per servire la tua vita, non mi sento ricostituito, perché una mia parte è negata, e così via.

Le quattro parole del brano di Giosuè sono l’indicazione di ciò che ciascuno può fare su di sé, a prescindere dall’altro; ma non posso spezzare l’ignorarsi, senza l’implicazione della libertà dell’altro, non posso produrre consolazione né ricostituire la nostra esistenza se la libertà dell’altro non fa la sua parte.

Teniamo sullo sfondo queste parole perché mi sembrano la trama che ci può guidare per rimettere insieme “comunità” e “comunione” senza eccessive attese spirituali di perfezione, sapendo che cosa ci aspettiamo dal concreto.

Con il testo di oggi torniamo all’antico testamento, al capitolo 12 dell’Esodo, testo conosciutissimo, quello delle prescrizioni per la celebrazione della pasqua ebraica. Siamo talmente abituati a sentire la narrazione di questo brano che non ci accorgiamo che i tempi sono sfasati, le spiegazioni sono sempre confliggenti: il libro dell’Esodo mette insieme narrazioni che si riferiscono ad episodi diversi della storia di Israele – ci sono stati molti esodi dall’Egitto. Il testo ne fa un collage, e alcune cose vengono raccontate più volte, a causa di un lavoro non troppo ben fatto da un punto di vista redazionale. Ma da un punto di vista spirituale questa lettura ci dice che non si arriva mai tutti insieme nello stesso posto. Esodo, che è il racconto fondativo del popolo eletto, una comunità, ci racconta con efficacia il fatto che ognuno ci arriva un po’ alla volta.

Il testo non è il racconto dell’evento, cioè il passaggio del mar Rosso, ma delle prescrizioni per la celebrazione liturgica della pasqua, prescrizioni che vengono date prima, poi succede l’evento e poi la pasqua si celebra dopo. E’ come se Gesù avesse detto, all’inizio del suo ministero pubblico: “celebrerete la messa così…”, poi avviene il sacrificio sulla croce e poi noi celebriamo quell’evento che in realtà è accaduto dopo che lui ci aveva detto come avremmo dovuto celebrarlo.

C’è una sovrapposizione di piani.

Il testo

1Il Signore disse a Mosè e ad Aronne in terra d’Egitto: 2«Questo mese sarà per voi l’inizio dei mesi, sarà per voi il primo mese dell’anno. 3Parlate a tutta la comunità d’Israele e dite: “Il dieci di questo mese ciascuno si procuri un agnello per famiglia, un agnello per casa. 4Se la famiglia fosse troppo piccola per un agnello, si unirà al vicino, il più prossimo alla sua casa, secondo il numero delle persone; calcolerete come dovrà essere l’agnello secondo quanto ciascuno può mangiarne. 5Il vostro agnello sia senza difetto, maschio, nato nell’anno; potrete sceglierlo tra le pecore o tra le capre 6e lo conserverete fino al quattordici di questo mese: allora tutta l’assemblea della comunità d’Israele lo immolerà al tramonto. 7Preso un po’ del suo sangue, lo porranno sui due stipiti e sull’architrave delle case nelle quali lo mangeranno. 8In quella notte ne mangeranno la carne arrostita al fuoco; la mangeranno con azzimi e con erbe amare. 9Non lo mangerete crudo, né bollito nell’acqua, ma solo arrostito al fuoco, con la testa, le zampe e le viscere. 10Non ne dovete far avanzare fino al mattino: quello che al mattino sarà avanzato, lo brucerete nel fuoco. 11Ecco in qual modo lo mangerete: con i fianchi cinti, i sandali ai piedi, il bastone in mano; lo mangerete in fretta. È la Pasqua del Signore! 12In quella notte io passerò per la terra d’Egitto e colpirò ogni primogenito nella terra d’Egitto, uomo o animale; così farò giustizia di tutti gli dèi dell’Egitto. Io sono il Signore! 13Il sangue sulle case dove vi troverete servirà da segno in vostro favore: io vedrò il sangue e passerò oltre; non vi sarà tra voi flagello di sterminio quando io colpirò la terra d’Egitto. 14Questo giorno sarà per voi un memoriale; lo celebrerete come festa del Signore: di generazione in generazione lo celebrerete come un rito perenne.

Commento

Parto da quest’ultima parola perché vorrei riuscire a trasmettervi con potenza questo concetto: questo non è il racconto della pasqua. La pasqua è quello che succede, cioè la morte dei primogeniti e l’uscita dall’Egitto. Questo è il racconto del rito che fa memoria della pasqua, è il racconto di una celebrazione liturgica e il popolo ascrive al significato della festa di pasqua il suo essere popolo, al fatto che Dio li ha liberati dalla schiavitù d’Egitto ed è diventato il loro Dio. Ma ciò che loro sperimentano è la celebrazione liturgica della festa di pasqua: dopo questo episodio non sono più schiavi in Egitto. La comunità si fa su una memoria, e su una memoria liturgica. Quando noi diciamo di un cristiano che va “solo” a messa la domenica, commettiamo un errore fondamentale. A noi sembra che andare a messa la domenica sia il minimo, invece è il massimo: è lì che c’è la comunità, non altrove.

E’ vero che spesso il nostro rito liturgico somiglia più ad una cerimonia che ad un rito, è vero che spesso è celebrato in fretta, che è diventato una formalità routinaria tale che per noi diventa il minimo, ma la comunità si fonda su questo rito. Fare la nostra parte rispetto all’essere chiesa è innanzitutto partecipare alla Memoria, prendendo il proprio corpo e portandolo lì. E non necessariamente perché, partecipando, capiamo, facciamo, impariamo…: semplicemente con la potenza del dire “sono qui!”, esattamente come in un rapporto in cui, alla fine, la questione che conta davvero è “esserci”. Poi possiamo anche passare il tempo a discutere se andare al mare o in montagna, ma questo possiamo farlo perché il rapporto c’è e mi interessa. Se no, uno se ne va al mare e l’altro in montagna, come si fa tra sconosciuti.

Come un rito perenne”. Abbiamo già parlato altre volte della ritualità, e ci siamo scontrati col fatto che per noi la dimensione simbolico – rituale non dice più niente, è il minimo, è una questione di devozione personale, di cerimonia. Non è qualcosa di significativo: per noi i cristiani impegnati sono quelli che fanno catechismo, che partecipano alle riunioni, e così via. Come se fare gruppo, fare riunioni, costituisse la Chiesa.

A livello teorico siamo tutti convinti che è l’Eucarestia a fare la Chiesa. Però un parroco è convinto che la sua parrocchia funzioni se ci sono tante attività, non se si celebra bene. Diciamo che una parrocchia è molto viva se c’è il gruppo della Cresima, degli adolescenti, la Caritas, ecc. Però sul celebrare diciamo: “Cosa vuoi, il parroco è fatto così… io non lo reggo tanto, allora vado a messa da un’altra parte…”. Ne facciamo quasi una questione di gusto personale. Forse dovremmo tornare a chiedere ai nostri parroci che celebrino bene e che il rito della Memoria sia il centro della vita della Comunità.

All’inizio del testo, come al solito, c’è uno di quei giochetti carini che a volte la Scrittura ci propone: Il Signore disse a Mosè e ad Aronne in terra d’Egitto: «Questo mese sarà per voi l’inizio dei mesi, sarà per voi il primo mese dell’anno. Parlate a tutta la comunità d’Israele e dite…”. C’è una triangolazione, perché il Signore non parla a tutta la casa di Israele? Oppure perché non parla solo ad Aronne, l’uomo del sacro, ma anche a Mosè – il condottiero, quello che si è sporcato le mani, ha ucciso l’egiziano…?

Su questa duplice figura – Mosè ed Aronne – il popolo d’Israele mantiene la distinzione tra il sacerdote e il capo della comunità. Nella nostra tradizione, per una serie di motivi, a partire dal ‘700 in poi il sacerdote è anche il capo della comunità, e questa sovrapposizione ci ha fatto perdere un po’ di pezzi. Qui ci sono entrambe le figure, ma la cosa interessante qui è la triangolazione: il Signore parla loro e dice “parlate alla comunità d’Israele…”. Ciò che la comunità vede non è il Signore, ma Mosè ed Aronne.

Che cosa vediamo noi? Che cosa ci aspettiamo di vedere? Da una parte abbiamo questa idea di comunicare direttamente col Signore, dall’altra ci pare che tutte le forme di comunità siano troppo poco. Ma questo brano ci dice che nella Storia non ci è dato altro se non le facce di quelli che credono, gli uni le facce degli altri, e che forse bisogna ritrovare la Parola del Signore gli uni nelle facce degli altri. Perché è ciò che si vede. E’ occasionale ed eccezionale vedere il Signore, quello che si vede sono Mosè e Aronne.

Questo sarà confermato e sintetizzata nell’esperienza dei discepoli e del popolo con Gesù: quello che si vede è Gesù “Non è costui il figlio del falegname?”. Poi lui dice di essere il Figlio di Dio, e domanda ai suoi “voi chi dite che io sia?”. Quello che si vede non è una meraviglia, quello che ci è dato nella Storia è sempre un’esperienza di ambiguità, di qualcosa che non coincide mai con ciò che è, di qualcosa in cui bisogna guardare oltre, attraverso, dentro.

E viene detto: “Questo mese sarà per voi l’inizio dei mesi, sarà per voi il primo mese dell’anno…”. L’inizio è piantato in questo rito che fa memoria non della pasqua, ma di un’immolazione, l’uccisione dell’agnello. Sarà l’evangelista Giovanni a riprendere questa immagine dell’agnello e ad applicarla a Gesù in croce. Per noi è automatico pensare che l’agnello immolato è la figura di Gesù. Ma di per sé ciò che viene detto al popolo è che l’inizio di tutti i mesi si radica in un rito che è un’immolazione, un sacrificio. Questa è un’idea tosta per noi: è già difficile l’idea dei “sacrifici”, ma cosa pensiamo quando diciamo la parola “sacrificio”, al singolare? Pensiamo all’aspetto pagano, il sacrificio dei galli sull’ara degli dei? Oppure all’aspetto giuridico, per cui il sacrificio è qualcosa che viene offerto al dio per placarne l’ira? Alla radice di questo popolo sta il rito di memoria di un sacrificio, da lì si comincia a contare il tempo, è il fondamento.

“Ciascuno si procuri un agnello per famiglia, un agnello per casa”. Questo povero agnello non c’entrava niente. E’ l’immagine dell’innocenza, non nel senso di santità, ma nel senso della casualità. La ragione culturale della scelta è perché erano nomadi ed allevatori, ma di per sé questo agnello che figura è? Di una debolezza assoluta? Di uno che non ha una libera scelta? Questo sacrificio raggiunge un livello di ingiustizia e di illogicità raro. Come si dirà più avanti, bisogna immolare l’agnello per salvare i primogeniti, cioè quelli che “c’entrano”. Bisogna sacrificare qualcuno che non c’entra per salvare quelli che nella storia c’entrano.

“Un agnello per casa…”. E’ una faccenda personale: nessuno è chiamato fuori, riguarda tutti, uno per uno. Noi fatichiamo a capire questo: come funzionano le nostre comunità è un fatto terribilmente personale. Come viene fatto il catechismo è un fatto personale anche se non abbiamo figli che lo frequentano, non possiamo preoccuparcene solo se e quando siamo a quel punto. Qui viene detto chiaramente, “un agnello per famiglia, un agnello per casa”.

E’ bello che si dica: “calcolerete come dovrà essere l’agnello secondo quanto ciascuno può mangiarne”. E poi si concluda: quello che al mattino sarà avanzato, lo brucerete nel fuoco”. Come a dire “tanto è chiaro che calcolerete male”. E’ necessario far bene tutti i calcoli sapendo che tanto non funzionerà, che nella Storia le cose non funzionano, che bisogna prevedere fin dall’inizio un’altra strada. Aspettarsi una comunità sapendo che non funzionerà.

Il vostro agnello sia senza difetto, maschio, nato nell’anno”. Il sommo dei pregi, in questa cultura maschilista, l’agnellino perfetto: l’offerta, il sacrificio, il dono non si fa con gli scarti, si fa con la merce preziosa. Il sacrificio da cui tutto ha inizio si fa con il meglio del meglio.

“Lo conserverete fino al quattordici di questo mese: allora tutta l’assemblea della comunità d’Israele lo immolerà al tramonto”. Questo gesto, questo sacrificio perfetto va consumato come un fatto personale, in ogni famiglia e in ogni casa, ma tutti insieme nello stesso momento.

Preso un po’ del suo sangue, lo porranno sui due stipiti e sull’architrave delle case”. Questo sacrificio porta con sé un dono: il sangue. Il rapporto tra dono e sacrificio è abbastanza complicato, perché nella nostra cultura i doni si comprano. Ma sappiamo bene che cosa significa aver cura e passione per la vita dell’altro e fare un dono alla vita dell’altro, cosa che, in genere, implica un sacrificio. Non c’è nessun vero dono “gratis”. Noi abbiamo reso simbolico questo sacrificio attraverso il denaro: per fare un dono bisogna, almeno, pagare. E’ la forma più stilizzata del rapporto tra dono e sacrificio. Infatti si dice comunemente che la cosa essenziale non è l’oggetto, ma quanto tempo ci hai messo per pensarlo e per sceglierlo, perché per noi il tempo è un bene più prezioso del denaro, ed è un sacrificio grande. Perciò abbiamo trovato mille modi sociali per fare dei doni senza spendere tempo, per eliminare la dimensione di sacrificio strettamente connessa al dono.

In questo caso il dono è archetipico, in tutte le culture il sangue ha un senso forte: l’agnello dona il suo sangue, l’immagine della vita stessa, e questo sangue viene posto sugli stipiti delle porte come un marchio di riconoscimento, di identità: la vita di un altro ci dà un nome.

Questo è uno dei nodi su cui facciamo più fatica nei confronti della Chiesa: l’inizio non dipende da un nostro “mi impegno, scelgo di partecipare…” ma è la vita di un Altro che ci dà un nome, ci mette in uno spazio di consolazione e di salvezza. Di fronte a questo noi non possiamo fare niente, non possiamo pagare, non possiamo meritarlo.

Qui entra in gioco un altro elemento archetipico fondamentale, il fuoco: “Non lo mangerete crudo, né bollito nell’acqua, ma solo arrostito al fuoco, con la testa, le zampe e le viscere. Non ne dovete far avanzare fino al mattino: quello che al mattino sarà avanzato, lo brucerete nel fuoco”. La purificazione si fa col fuoco, ciò che resiste al fuoco è duraturo, l’inferno… possiamo metterci dentro tutto l’immaginario che le culture hanno legato a questo elemento.

Questo non è un sacrificio qualsiasi, riguarda il sangue e il fuoco, non si può mangiare né crudo né cotto nell’acqua, non si può ammorbidire, deve essere un sacrificio potente, violento, radicale, non ci sono sconti possibili.

Ecco in qual modo lo mangerete: con i fianchi cinti, i sandali ai piedi, il bastone in mano; lo mangerete in fretta”. I primi tre elementi sono la raffigurazione del viaggiatore, di chi sta partendo. Nell’antichità nessuno si sarebbe messo a mangiare vestito da pellegrino: viaggiare era faticoso, e quando finalmente ci si fermava si posava il bastone, si toglievano i sandali, si lavavano i piedi, ci si metteva comodi e poi si mangiava. Qui si dice che bisogna mangiare pronti a partire, e si specifica “lo mangerete in fretta”. Molti testi rabbinici si domandano il senso di questa prescrizione, che viene data molto tempo prima di quando deve realizzarsi, insieme a quella degli azzimi. C’era il tempo per lievitare il pane e per mangiare con calma, perché questa fretta? La risposta dei rabbini è, in varie forme, sempre la stessa: il dono, come il sacrificio, ci arriva sempre alla sprovvista. La salvezza ci coglie sempre impreparati. Se no non si chiama salvezza, dono, sacrificio, ma risultato di un progetto, di una pianificazione. Qui il problema è organizzarsi su un inatteso, su un inaudito, su qualcosa che non potevamo darci con il nostro percorso.

Poi dice bene che cosa succede agli altri: “In quella notte io passerò per la terra d’Egitto e colpirò ogni primogenito (…) Il sangue servirà da segno in vostro favore (…); non vi sarà tra voi flagello di sterminio (…). Questo giorno sarà per voi un memoriale; (…) lo celebrerete come un rito…”. Troviamo di nuovo quattro passaggi, quattro parole per la nostra collezione: la morte, il favore, il memoriale, il rito.

C’è la morte degli Egiziani che non hanno sacrificato l’agnello: c’è un legame complesso tra il sacrificio e la morte, tra la morte dell’agnello, una morte che dà vita, e la morte degli Egiziani, che è una punizione. C’è una morte, un sacrificio, un sangue che genera benedizione, almeno per gli Ebrei; questa benedizione produce la necessità di ricordare, di fare memoria, e questa memoria produce la necessità di un rito, della ripetizione rituale di questo sacrificio.

Dietro questo testo c’è l’idea che una comunità si costituisce al suo inizio in un sacrificio. Nel corso della storia del cristianesimo questa idea è stata usata, spesso, molto male. Pensate ai tempi in cui entrando in una comunità religiosa il primo impatto era con un concetto di sacrificio tale per cui il soggetto non decideva, veniva schiacciato, perdeva la sua personalità e la sua identità. Anche nelle nostre comunità è stato così, perché a volte farne parte ha significato rinunciare alle proprie opinioni, “sacrificarsi per il bene comune”.

Questo è dovuto ad una cattiva comprensione: il sacrificio non è quello che facciamo noi, ma quello che riceviamo. Il sacrificio è quello dell’agnello perfetto. Di questa dinamica noi riceviamo il dono, non il sacrificio. Questo sacrificio è già stato compiuto, è quello di Gesù, agnello immolato. La nostra comunità, il nostro stare insieme, ha inizio in un sacrificio, che non è il nostro, ma quello di Gesù e noi siamo quelli che si sono trovati dalla parte “giusta” del sangue, non siamo come gli Egiziani, che si sono trovati dalla parte sbagliata rispetto al sacrificio.

Il volto di questo sacrificio per noi è il dono. Certo, è il dono che deve passare nel fuoco, e questa, probabilmente, è la parte che ci spetta: riconoscere il sacrificio e passare per il fuoco, purificare questo dono ricevuto. Ma non è il nostro sacrificio, perché noi non siamo l’agnello senza difetto. Noi siamo i figli di Israele che vedono solo Mosè e Aronne, e non direttamente Dio, e che, ponendo sugli stipiti delle porte il sangue dell’agnello, come quelli avevano detto loro di fare, pensano “io, speriamo che me la cavo” – e se la cavano, perché “grandi cose ha fatto il Signore” per loro.

Questa ha una conseguenza immediata: non siamo quelli che hanno scelto la cosa giusta, che hanno tutte le risposte e possono rompere le scatole al mondo spiegandogli come si fa e, forti dei propri sacrifici, dire “guardate, che comunità che abbiamo!”. Noi siamo quelli che stanno sotto la logica del dono. Il sacrificio di un altro, la vita di un altro, ci ha dato un nome che è un nome fortunato, un nome di benedizione, di favore. E in nome di questo favore noi facciamo posto ad altri in questa casa, condividiamo l’agnello facendo in modo che basti per tutti e che altri possano entrare sotto il segno del favore. E ci ricordiamo – perché il memoriale non è solo liturgico – che all’origine non c’è né una scelta, né un diritto, né una comprensione di cose “giuste”, né da parte mia né da parte degli altri, ma c’è il dono ricevuto dal sacrificio della vita di un altro.

Ogni tanto siamo autorizzati a pensare che forse alcuni fratelli non valevano quel sacrificio. Ma siccome la stessa cosa si può pensare di noi, dopo che l’abbiamo pensato ci diciamo che chi dona, dona a chi vuole, secondo la parabola degli operai dell’ultima ora.

Il popolo ebraico è figlio della promessa, noi siamo figli del dono, di un sacrificio compiuto che, come dice la lettera agli Ebrei, è l’unico e l’ultimo sacrificio: “Cristo infatti (…) non deve offrire se stesso più volte, come il sommo sacerdote che entra nel santuario ogni anno con sangue altrui: in questo caso egli, fin dalla fondazione del mondo, avrebbe dovuto soffrire molte volte. Invece ora, una volta sola, nella pienezza dei tempi, egli è apparso per annullare il peccato mediante il sacrificio di se stesso” (Eb. 9, 24 – 26).

Il dono è instaurato. Da questo punto di vista ritengo che valga la pena riflettere sul tema del sacrificio1.

Fossano, 3 dicembre 2011

(testo non rivisto dal relatore)


1 Suggerimenti bibliografici sul tema del SACRIFICIO:

  • Mauss Marcel – Henry Hubert, Saggio sul sacrificio, Morcelliana, 2002, € 13,00; si tratta di un classico dell’antropologia culturale, che spiega il senso del sacrificio nelle culture e nelle religioni.
  • Vanhoye Albert, Dio ha tanto amato il mondo. Lectio divina sul sacrificio di Cristo, Paoline, 2007, € 8,50.
  • Bubbio Paolo Diego, Il sacrificio. La ragione e il suo altrove, Città Nuova, 2004, € 11,00; si tratta di una riflessione di taglio filosofico.
  • Rivista Filosofia e teologia, XXII (2008) 1, Il sacrificio e la croce (acquistabile on line sul sito www.filosofiaeteologia.it).
  • Gardusi Nicola, Tragedia e dramma: il sacrificio come forma della vita. La proposta di Ghislain Lafont, Cittadella, 2011, € 16,80.
  • Alla voce “René Girard” di Wikipedia, ci sono in fondo, nella sezione Collegamenti esterni, delle interviste registrate interessanti (specie quella a Uomini e profeti).

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