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11 Febbraio 2012
Stella Morra

5. Tra struttura e martirio

Commento a: At 6, 1-15


Premessa

La questione messa in gioco oggi è una di quelle decisive rispetto alla riflessione che andiamo facendo “alla ricerca di un corpo per la Parola: cristiani, chiesa e mondo”. Stiamo tentando di riflettere sulla questione della Chiesa, con lo stile proprio della Lectio: non è mai un approfondimento solo culturale, ma alcuni nuclei di questa riflessione sono gli stessi che creano problemi anche a livello di mediazione storico-culturale e non possono essere evitati.

La prima riflessione da cui siamo partiti, attraverso il brano di Giosuè, era quella “tra memoria e identità”: ci si sente legati gli uni agli altri se si hanno memorie condivise di una esperienza particolare. La memoria dell’esodo fa di Israele un popolo, e noi saremmo teoricamente interpellati dalla Chiesa come esperienza della memoria di un’identità comune, di un’esperienza forte comune, e bisognerebbe però capire qual è questa esperienza comune.

Il secondo passo era quello di Atti sulla questione dell’attesa. Da una parte si rimane uniti intorno a qualcosa che si ricorda di aver vissuto insieme, dall’altra si sta connessi se si è in attesa di qualche cosa, se si ha un progetto comune. Possiamo aver passato insieme cose importanti (la scuola superiore, per esempio), poi la vita è complicata, quelle persone rimangono sempre “speciali” per noi, ma se non hai più progetti e interessi comuni, inevitabilmente ti perdi.

Il terzo passo è il passaggio da questa struttura antropologica, umana, per cui ci sentiamo legati agli altri da un’esperienza comune. Uno dei dati caratteristici propri dell’esperienza della Chiesa è che l’origine a cui si guarda indietro è un’origine particolare (testo dell’Esodo, il sangue sulle porte): non un evento che abbiamo condiviso noi ma il sacrificio – dono di Cristo, l’esperienza di un agnello immolato, qualcosa che abbiamo ricevuto. Un inizio qualificante che ci segna, ci arricchisce, ma è anche un’esperienza strana, perché quando all’origine c’è un sacrificio, rimane anche un peso. Pensate al film “Il concerto” che abbiamo visto insieme. La riconvocazione di tutti i musicisi dell’orchestra nasce dal ricordo del sacrificio di Lea, la violinista, ma solo l’esperienza della bellezza riesce a far sì che vengano fuori tutti i non detti e si affrontino i sensi di colpa.

La volta scorsa abbiamo ragionato sul testo di 1ª Corinzi perché la domanda che sorge spontanea è questa: nell’esperienza umana si è legati da una memoria e da un progetto condivisi. Nel caso dell’esperienza cristiana lo specifico è la memoria condivisa di qualcosa che non abbiamo deciso noi, ma di un sacrificio – dono che ci è stato dato, e ne facciamo esperienza nel ricevere il battesimo, cioè qualcosa che non è una nostra scelta. Ma come si fa, concretamente, a rimanere legati intorno ad un sacrificio – dono? A qualcosa che non abbiamo scelto?

La questione comincia a diventare più interessante, perché la nostra esperienza non è tanto quella dell’origine, ma quella dello starci dentro e di dover decidere in quali modi ci stiamo. Il testo di 1ª Corinzi lavorava molto sui temi della Parola come edificazione: la Chiesa si caratterizza per le parole scambiate, la Parola di Dio scambiata e le nostre parole scambiate. Nel film citato si vede bene: la vicenda originaria ognuno se la teneva per sé, e nel silenzio era per tutti una fonte di angoscia. Quando la parola comincia a circolare, cominciano a dirsi delle cose, fino al momento del concerto in cui, quasi senza parole, si raccontano la pienezza della storia, tutto questo diventa un elemento positivo.

Questo è un po’ lo stesso ragionamento del testo: la profezia come parola scambiata, dotata di senso, accoglibile. Questo elemento è troppo sottovalutato nell’esperienza ecclesiale, che presenta due poli. Da un lato l’origine – che non è una scelta, un “club” a cui io decido di appartenere – ma il fatto che si sta nella Chiesa in quanto si riconosce di aver ricevuto un dono, un sacrificio, con tutta la complessità e l’ambiguità che questo procura, ad esempio l’aspettarci sempre più di ciò che riusciamo ad avere, l’attesa un po’ infantile di mondi felici, ecc. L’ambiguità di riconoscere che non è semplicemente un club di golf, in cui possiamo decidere le regole e chi non ci sta è fuori. L’altro polo è la parola scambiata: la consistenza del nostro legame non consiste nel fatto che ci vogliamo bene, che siamo amici. Queste cose possono esserci, rendono migliore la qualità umana dei nostri rapporti, ma sono un effetto secondario. La qualità del nostro stare e del nostro sentirci nella Chiesa, a casa nostra, non sta né in quello che facciamo (l’illusione moderna di appartenere se si è catechista, animatore…) né nella libera scelta e nella mancanza di ambiguità, ma sta nella qualità di una parola scambiata, che nel suo minimo è la Parola di Dio scambiata, garantita “per legge”. Perché la Parola annunciata nella liturgia, è scambiata bene, male, con buone o pessime omelie, ma è strutturale, non può non accadere nell’Eucarestia. Il problema è che molto spesso non andiamo molto oltre questo minimo. Investiamo su molte altre cose, ma questo minimo, la Parola di Dio scambiata tra di noi e le nostre parole scambiate tra di noi, non cresce tanto (la logica della profezia, come la definisce S. Paolo, non è usata come criterio generale).

Oggi, con il cap. 6 degli Atti, “tra struttura e martirio”, tocchiamo un nodo doloroso, quello dell’istituzione, della struttura. Poiché tutto questo accade, non in cielo, nei sogni, nei desideri, ma nella realtà, nella storia, si è dato una struttura che nel corso dei tempi ha preso forme, istituzioni, gerarchie… ed ha subito progressive riforme… Questo aspetto istituzionale è inevitabile, è l’incarnazione del fatto che le idee, di cui abbiamo detto prima, devono avere un corpo, ma è anche la fatica che i corpi fanno a stare dietro allo spirito, ai desideri: Ma la carne è anche principio di verificazione: sappiamo bene che abbiamo tante idee, ma poi è il nostro corpo a fermarci, a dire che dobbiamo prendere le cose in un altro modo, che ci siamo imbarcati in un delirio di onnipotenza; il corpo ci “insegna”, al negativo, che dobbiamo ripensare una serie di cose. Pensate ai rapporti sessuali tra le persone che si vogliono bene: i corpi smascherano. Ci sono desideri, pensieri o realtà di cui uno teoricamente è molto convinto, ma nel passaggio tra la teoria e la quotidianità di corpi – che non sono sempre perfetti, televisivi, funzionanti al 100%, ma che sono corpi normali, con pregi e limiti – in genere in molte storie rischia di generarsi un dramma, una fatica. Perché lì non menti. Perché insisto su questo? Perché noi abbiamo molto spesso una visione monofisita dell’istituzione: la struttura deve esprimere delle idee, ed è vero, ci sono principi e logiche che la struttura dovrebbe esprimere e servirle. Ma è vero anche il contrario: la struttura ha alcune leggi sue, alcune pesantezze – come un corpo – che ridimensionano le idee. Banalmente, se io decido da sola, faccio prima, se invece dobbiamo decidere in cinque ci mettiamo comunque un quarto d’ora di più… Da questo punto di vista la struttura mi insegna un tempo che non è il mio tempo. La struttura impedisce il narcisismo in modo non moralista, cioè mi impedisce di essere narcisista non per scelta ma per necessità. Non perché sono molto buono, ma perché se sto dentro una struttura non posso esserlo.

Questo è il nodo: dalle idee al corpo che queste idee hanno, nella Chiesa; dalla nostra memoria condivisa, dalla nostra progettualità comune al corpo istituzionale, ma anche dal corpo istituzionale che ci fa ricomprendere in modo non narcisista le idee. Il testo che ho scelto ha una tensione tra due parti, riassunte nel titolo “tra struttura e martirio”: l’organizzazione di un corpo corrisponde immediatamente a qualcuno che ci lascia le penne, cioè non è senza un costo. Partorire un corpo provoca un dolore, una morte reale o figurata, la morte del narcisismo, dell’essere totalmente autoreferenziali. Questo è uno dei motivi per cui le strutture ci fanno problema, hanno un sacco di limiti, vanno continuamente stimolate a diventare migliori. Ma non ci sarà mai la struttura perfetta, non perché nessuna struttura potrà mai essere perfetta, ma perché ognuno di noi vorrebbe essere il re, e nella misura in cui una struttura ti pone nella condizione di non essere il re, già non ci va bene.

Il testo

1In quei giorni, aumentando il numero dei discepoli, quelli di lingua greca mormorarono contro quelli di lingua ebraica perché, nell’assistenza quotidiana, venivano trascurate le loro vedove. 2Allora i Dodici convocarono il gruppo dei discepoli e dissero: «Non è giusto che noi lasciamo da parte la parola di Dio per servire alle mense. 3Dunque, fratelli, cercate fra voi sette uomini di buona reputazione, pieni di Spirito e di sapienza, ai quali affideremo questo incarico. 4Noi, invece, ci dedicheremo alla preghiera e al servizio della Parola». 5Piacque questa proposta a tutto il gruppo e scelsero Stefano, uomo pieno di fede e di Spirito Santo, Filippo, Pròcoro, Nicànore, Timone, Parmenàs e Nicola, un prosèlito di Antiòchia. 6Li presentarono agli apostoli e, dopo aver pregato, imposero loro le mani.
7E la parola di Dio si diffondeva e il numero dei discepoli a Gerusalemme si moltiplicava grandemente; anche una grande moltitudine di sacerdoti aderiva alla fede.
8Stefano intanto, pieno di grazia e di potenza, faceva grandi prodigi e segni tra il popolo. 9Allora alcuni della sinagoga detta dei Liberti, dei Cirenei, degli Alessandrini e di quelli della Cilìcia e dell’Asia, si alzarono a discutere con Stefano, 10ma non riuscivano a resistere alla sapienza e allo Spirito con cui egli parlava. 11Allora istigarono alcuni perché dicessero: «Lo abbiamo udito pronunciare parole blasfeme contro Mosè e contro Dio». 12E così sollevarono il popolo, gli anziani e gli scribi, gli piombarono addosso, lo catturarono e lo condussero davanti al sinedrio. 13Presentarono quindi falsi testimoni, che dissero: «Costui non fa che parlare contro questo luogo santo e contro la Legge. 14Lo abbiamo infatti udito dichiarare che Gesù, questo Nazareno, distruggerà questo luogo e sovvertirà le usanze che Mosè ci ha tramandato».
15E tutti quelli che sedevano nel sinedrio, fissando gli occhi su di lui, videro il suo volto come quello di un angelo.

Questo testo andrebbe letto insieme al capitolo 5 che lo precede ed al 7 che lo segue. Il cap. 7 contiene tutto il dibattito tra Stefano e i suoi accusatori. L’ultima parte recita così:

54All’udire queste cose, erano furibondi in cuor loro e digrignavano i denti contro Stefano.
55Ma egli, pieno di Spirito Santo, fissando il cielo, vide la gloria di Dio e Gesù che stava alla destra di Dio 56e disse: «Ecco, contemplo i cieli aperti e il Figlio dell’uomo che sta alla destra di Dio». 57Allora, gridando a gran voce, si turarono gli orecchi e si scagliarono tutti insieme contro di lui, 58lo trascinarono fuori della città e si misero a lapidarlo. E i testimoni deposero i loro mantelli ai piedi di un giovane, chiamato Saulo. 59E lapidavano Stefano, che pregava e diceva: «Signore Gesù, accogli il mio spirito». 60Poi piegò le ginocchia e gridò a gran voce: «Signore, non imputare loro questo peccato». Detto questo, morì.

Questa è la conclusione del capitolo 7, in mezzo c’è il lungo dibattito tra Stefano ed i suoi accusatori, ma mi interessava focalizzare l’attenzione sui versetti finali del cap. 7.

Ma cominciamo dall’inizio.

“1In quei giorni, aumentando il numero dei discepoli, quelli di lingua greca mormorarono…”. Dicevo che anche il cap. 5 andrebbe letto insieme al 6, perché vi si racconta l’episodio di Anania e Saffira: i due, di fronte alla proposta di mettere tutto in comune, cercano di “fregare” mettendo a disposizione solo una parte di ciò che hanno e muoiono stecchiti per la loro menzogna. È il primo esempio del conflitto. Poi il conflitto cresce, con l’incarcerazione di Pietro e degli apostoli, che poi vengono scarcerati e poi ancora, “In quei giorni, aumentando il numero dei discepoli, quelli di lingua greca mormorarono…”. Di solito, quando parliamo della prima comunità dei discepoli, ricordiamo solo i versetti in mezzo: “E la parola di Dio si diffondeva e il numero dei discepoli a Gerusalemme si moltiplicava…” eccetera, e ci dimentichiamo che tra un versetto e l’altro ci sono fatiche, confusioni, conflitti. Il conflitto è strutturale nella storia, dipende dal fatto che ognuno di noi ha un’inguaribile vocazione da primogenito, ognuno di noi ha se stesso come riferimento e non riesce ad uscirne. Che la ferita narcisistica, che tutti noi subiamo tra zero e tre anni, per cui cominciamo a scoprire di non essere il centro del mondo, ma di essere relativi a qualcun altro, una parzialità del mondo, genera per reazione il conflitto. Solo la Trinità è fatta di tre che sono uno, nel senso che sono così capaci di vivere la differenza, la relazione, la loro reciproca relatività come comunione da essere uno solo.

La questione del conflitto strutturale non è la condizione propria della comunità, ma la condizione per cui la comunità nasce. La comunità nasce per regolare il conflitto, per rendere il conflitto positivo e propositivo, una forza e non una distruzione. Per questo tutte le forme di comunità sono un problema, perché il problema è all’origine del mettersi insieme, non l’effetto. Il mettersi insieme è la cura, non la malattia. Se lascio la comunità e vado su un monte non vivo più conflitti, perché vivo in modo radicalmente autoreferenziale. Nella vita reale non esiste una situazione in cui non ci sia mai un conflitto. Sarebbe interessante provare a fare con cuore libero una rilettura di alcune leggi della Chiesa, ad esempio, delle quali si afferma che siano leggi che sanciscono un’esclusione. Chiediamoci se non è il contrario, se non c’è un’esclusione che la legge smaschera, e che anzi ci fa sentire un po’ meglio perché possiamo prendercela con la legge invece che con noi, per cui uno si sente più giusto…

“Aumentando il numero dei discepoli, quelli di lingua greca mormorarono…”. I greci si sentono diversi da quelli di lingua ebraica e cominciano a mormorare. Una quotidianità condivisa provoca conflitto. Se stiamo abbastanza lontani riusciamo ad essere più sereni. L’esperienza umana è imparare faticosamente la misura di vicinanza/distanza nelle relazioni, anche con le persone a cui vogliamo bene, perché vicinanze e distanze si coniugano a vari livelli. La sapienza cristiana nei secoli ha chiamato “castità” la misura di vicinanze/distanze. Poi è stata letta soltanto in relazione alla sessualità, ma la Chiesa ha chiamato virtù la capacità di ottimizzare il nostro essere esposti agli altri senza massimizzare il conflitto. È una difficile arte. Esposto come Gesù, al punto che con le braccia spalancate sulla croce gli viene ancora squarciato il petto, solo Gesù poteva resistere, noi non possiamo mai essere totalmente esposti.

Il problema sta nella quotidianità: in genere sono più arrabbiati con la comunità ecclesiale quelli che vi partecipano, perché vivono una quotidianità.

2Allora i Dodici convocarono il gruppo dei discepoli e dissero…”. Qui c’è una cosa interessante: in poche righe abbiamo due polarità: quelli di lingua greca e quelli di lingua ebraica, gli apostoli e i discepoli. Non è neppure trascorso un anno dalla morte del Signore e già c’è una comunità molto differenziata. Perché anche la differenziazione è strutturale. In particolare la differenziazione tra apostoli e discepoli è interessante per la nostra questione. La comunità non è una comunità di eguali nel senso di indistinti, anche questa è un’illusione, perché ciascuno di noi è assolutamente unico, l’altro che mi sta di fronte è comunque diverso da me, ed ha affinità con altri con cui non ne ho io.

Che cosa dicono i dodici? «Non è giusto che noi lasciamo da parte la parola di Dio per servire alle mense. 3Dunque, fratelli, cercate fra voi sette uomini di buona reputazione, pieni di Spirito e di sapienza, ai quali affideremo questo incarico. 4Noi, invece, ci dedicheremo alla preghiera e al servizio della Parola». Qui c’è un nodo molto grande: ad una prima lettura ci verrebbe da dire che ci sono le cose “spirituali” che spettano ai dodici, e poi c’è lo “sporco lavoro” di manovalanza, come servire alle mense, che spetta ai discepoli. E così la Chiesa si è strutturata: i vescovi e i preti, cui spetta il lavoro spirituale, e la gente normale, i laici, che fanno la bieca manovalanza, costruendo una contrapposizione tutta falsa. Ma nel testo non è così. Dei sette che vengono nominati, Stefano e Filippo hanno grandi ruoli di annuncio della Parola di Dio, non servono affatto alle mense, e sono proprio prima loro dei dodici a fare un lavoro di annuncio, testimonianza. Non solo, ma Paolo stesso testimonierà che bisogna lavorare con le proprie mani, vivere del proprio lavoro, che non c’è contrapposizione.

Allora, quale logica sta dietro a questo brano? Qui si dice, in primo luogo, che non c’è contrapposizione ma differenziazione, che viene spiegata in relazione al servizio alla Parola ed alle mense perché questo è il problema di cui si parla. Se c’è bisogno, Stefano oppure Filippo si occupano della Parola di Dio, ma non è quello il problema, cioè non è un dato esclusivo, è una differenziazione rispetto ad un problema reale, quello della distribuzione dei pasti alle mense. E di volta in volta la differenziazione si rifà a seconda dei problemi. Nello stesso tempo la situazione dei dodici è un po’ diversa: sono i testimoni della resurrezione ed è chiaro che sono loro che si configurano come riferimento, ma nei termini di cura della comunità. Anche loro non si occupano solo dell’interno, ma il loro dovere primo è aver cura della comunità, che cresca e si mantenga, perché sono i testimoni della resurrezione. Hanno una specie di supervisione, come chi deve sorvegliare le dinamiche interne, ma non è una suddivisione rispetto alle cose da fare.

“Piacque questa proposta a tutto il gruppo e scelsero…”. La proposta deve funzionare per tutto il gruppo, per i discepoli e per i dodici, ma non sono solo questi ultimi che decidono. Li presentarono agli apostoli e, dopo aver pregato, imposero loro le mani”.
C’è un ruolo degli apostoli, a cui vengono presentati i sette scelti. È come se la comunità avesse una sua autonomia, poi gli apostoli operano una supervisione e impongono le mani.

Dietro questo gesto c’è un problema molto grosso, l’istituzione del diaconato. L’imposizione delle mani è il gesto proprio dell’ordinazione, nasce nella bibbia come invocazione della discesa dello Spirito; ad un certo punto, quando si vuole distinguere l’ordinazione dei presbiteri dalla discesa dello Spirito nel Battesimo, si cambiano tutti i gesti propri dell’imposizione dello Spirito: non è più l’imposizione delle mani, che resta nel gesto di consacrazione nell’Eucarestia e nell’ordinazione sacerdotale. Perché man mano che si presentano i problemi, si crea una struttura gerarchica e si vuole riservare il gesto dell’imposizione delle mani al livello più alto, che è quello legato agli apostoli. Vaticano II reintroduce nuovamente il gesto dell’imposizione delle mani in molte celebrazioni, perché vuole tornare a collegarlo all’invocazione dello Spirito come dato generico e perché tenta di spezzare questa logica piramidale. Non solo, ma il Concilio introduce nuovamente il diaconato permanente, cioè la possibilità che ci siano uomini, anche sposati, che rimangono diaconi e non accedono al sacerdozio. Vaticano II riprende l’idea originaria e la ristruttura dicendo: ci sono tre gradi del sacerdozio, l’episcopato, il presbiterato e il diaconato. In Vaticano II non si capisce se il diaconato è il più basso grado del sacerdozio oppure il più alto grado della laicità. Il diaconato tende ad essere un luogo di confine, ma giuridicamente i diaconi fanno parte dell’ordine, e questo è importante.

Da questo punto di vista dovremmo ripensare un po’ come funzionano le nostre comunità: la comunità come istituzione nasce come regolazione e custode della conflittualità e in particolare il ruolo di supervisori della comunione ce l’hanno gli apostoli e i loro successori. Ma gli altri, i discepoli, non hanno un dovere, una necessità di essere riconosciuti dagli apostoli, fanno le loro cose e gli apostoli intervengono in maniera negativa a fermare ciò che non è legittimo. Non hanno bisogno di autorizzazione, anche se il dialogo è costante. I diaconi finiscono per assumere concretamente un ruolo visibile: sono quelli che vanno, che fanno, che si trovano nelle situazioni concrete e parlano, decidono, scelgono. Le nostre comunità rimangono molto “apostolocentriche”, nella concretezza infatti il prete è un po’ il padrone della comunità e noi stessi gli chiediamo l’autorizzazione. Nutriamo reciprocamente questo ruolo, senza vivere la nostra esperienza di battezzati che non hanno bisogno di autorizzazione alcuna e il cui far parte di una comunità significa far parte di una circolazione di parola e accettare la sfida di una istituzione che mette un limite al mio narcisismo, di una istituzione che si pone di fronte a me come l’esperienza concreta e visibile di un “altro”. Rimaniamo tutti ragazzini che hanno bisogno dell’autorizzazione paterna e quindi cercano di tirare l’istituzione dalla propria parte invece di essere interlocutori adulti di un’istituzione che rappresenta la frustrazione del proprio narcisismo.

Se i vescovi dicono qualcosa contro la pena di morte, tutti quelli che sono contrari plaudono al pronunciamento, mentre tutti quelli che sono a favore stigmatizzano l’intrusione delle gerarchie nelle leggi dello stato laico. Nessuno dice ciò che andrebbe detto, e cioè: quale istanza questo pronunciamento sta salvaguardando? Che cosa mi dice che io non avevo ancora pensato? Da questo punto di vista mi interessano di più i pronunciamenti dei vescovi su cui io non sono d’accordo, perché mi dicono che c’è qualcosa da pensare che io non ho ancora pensato. Il problema non è se dicono una cosa giusta o sbagliata, la loro funzione è quella di mettersi di fronte a me e dire un’altra cosa, di farmi vedere un altro punto di vista, di costringermi a non ascoltare solo il mio punto di vista.

Infatti, nella tradizione tridentina, nemmeno di fronte al Magistero infallibile c’è vincolo di coscienza. Se io ho fatto tutto quanto stava in me per capire la posizione della Chiesa e alla fine, in coscienza, non me la sento di crederla, si dice che io per legge di foro interno sono autorizzata a non crederlo e mi viene richiesto semplicemente di non dirlo ad altri per non causare scandalo (solo in caso di Magistero infallibile). Anche in questo caso ho il diritto di continuare a rimanere della mia opinione, avendo fatto tutto ciò che mi era possibile per capire.

Pensate a come noi consideriamo al contrario il Magistero: ci incavoliamo di brutto quando dice qualcosa che non ci piace, in compenso non conosciamo quasi niente di prima mano, non facciamo nessun esame di coscienza nel senso forte di questo termine – cioè un esame pacato, approfondito e anche colto, facendoci aiutare se serve – di qual è l’istanza che quel pronunciamento prende in considerazione. Il mio diritto di non essere d’accordo è salvaguardato, ma io devo fare l’operazione di tener conto di cosa l’altro di fronte a me dice. È esattamente come nell’esperienza di coppia: quando, a 15 anni ci si innamora del poster dell’attore preferito, è fantastico, perché quello sta lì, appeso alla parete, non ha nessuna opinione. Ma in un amore reale l’altro che sta di fronte a me, per quanto amato e per quanto mi ami, rimane un’alterità con la sua libertà, le sue idee, la sua sensibilità; molto concretamente, semplicemente con il suo “esserci” ci costringe a tener conto di un altro punto di vista. L’istituzione è esattamente questo, l’“altro” di fronte a noi.

“E la parola di Dio si diffondeva e il numero dei discepoli a Gerusalemme si moltiplicava grandemente; anche una grande moltitudine di sacerdoti aderiva alla fede”. Questo è un magnifico versetto, molto citato, peccato che subito prima ci siano le mormorazioni e subito dopo un martirio… ed è proprio così: la comunità cresce in mezzo a queste tribolazioni, “a tribolazioni di uomini e consolazioni di Dio”, come si dice in un altro passo.

Stefano intanto, pieno di grazia e di potenza, faceva grandi prodigi e segni tra il popolo”. Stefano fa molto più di un discepolo, fa tutt’altro. “Allora alcuni della sinagoga (…) si alzarono a discutere con Stefano, ma non riuscivano a resistere alla sapienza e allo Spirito con cui egli parlava”. Stefano fa segni e prodigi e chi lo vuole danneggiare parla, discute, con lui. Qui si stabilisce un criterio fondamentale per la comunità che si costituisce come un corpo reale: la comunità prima di discutere, fa. Il nostro problema non sono coloro che a parole dicono che non sono d’accordo con noi, il nostro problema è che i nostri segni e prodigi non si vedono. E su questo, nel corso della storia ci siamo confusi tanto, tante volte, ci siamo preoccupati più di rintuzzare le parole che non di essere dei luoghi di segni e prodigi. Tutte le volte che la Chiesa come istituzione si incasina un po’ da questo punto di vista, se la piglia più in teoria che nella pratica, la devozione popolare fa risorgere apparizioni, guarigioni, miracoli, che sono un po’ strane cose. È come se la sensibilità popolare cercasse luoghi di segni e prodigi non nel senso di qualcosa di straordinario, ma di qualcosa che si veda, che si tocchi, che sia un fatto, e poi lo cerca come sa cercarlo, cioè in modi strampalati e spesso non carini. Ma il problema non è questo, ma la fede dei semplici che è l’“altro” rispetto all’istituzione, e che cosa le sta dicendo? Forse più che di 7 incontri di catechesi, 8 di preparazione al matrimonio, 15 di prebattesimale, ecc., abbiamo bisogno di luoghi dove la salvezza si veda, si sperimenti, e se non ce li abbiamo nell’ordinario andiamo a cercarli nello straordinario. Se guardate gli ultimi tre secoli, verificate che ad ogni punto “basso”, povero, dell’esperienza di Chiesa corrisponde una moltiplicazione delle apparizioni, dei miracoli, delle cose strane.

Lo abbiamo udito pronunciare parole blasfeme contro Mosè e contro Dio». E così sollevarono il popolo, gli anziani e gli scribi, gli piombarono addosso, lo catturarono e lo condussero davanti al sinedrio”. È esattamente la conformazione di Stefano a Gesù, gli viene fatta la stessa accusa di Cristo.

Alcune parole, infine, su Saulo, nei versetti finali del cap. 7. Sapete tutti che su Paolo c’è una questione, perché è considerato un apostolo anche se non è stato una testimone della resurrezione. Da un certo punto di vista la successione apostolica per lui viene stabilita attraverso l’apparizione di Gesù risorto sulla via di Damasco. Ma secondo me non è casuale che qui ci venga detto che Paolo è testimone del primo martirio. Cioè, per Paolo c’è una duplice esperienza di successione apostolica: da una parte, per via diretta, attraverso l’apparizione del risorto, ma il passaggio del testimone avviene anche per via indiretta, attraverso la chiesa, e sta negli occhi di Saulo che vedono il primo martirio. Vedono colui che, conformato a Cristo, muore come Cristo. E c’è un senso forte, fuori di straordinario: in fondo ci fa comodo pensare che per Paolo tutto sia avvenuto nello straordinario, sulla via di Damasco, perché siccome a noi non è avvenuto così, siamo tranquilli, non ci riguarda. In realtà la via ordinaria è questa: coloro che sono conformati a Cristo diventano la testimonianza della resurrezione del Cristo per coloro che assistono al loro martirio. E il martirio non è necessariamente la morte per lapidazione, ma per esempio il martirio di fronte all’istituzione, l’esercizio costante dell’istituzione come altro da sé, il rigore e l’ascesi necessarie per non chiamarsi mai fuori e non smettere mai di essere intelligenti, rimanere l’“altro” dell’istituzione, non stare in una comunità come una cuccia calda che mi tiene in piedi perché non so stare in piedi da solo. Rimanere in questa ascesi, in questo “martirio” che è lo stare di fronte alla comunità.

Fossano, 11 febbraio 2012

(testo non rivisto dal relatore)

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