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12 Maggio 2012
Stella Morra

8. Comunità eucaristica

Commento a: Lc 24, 13-35


Siamo all’ultimo passo della nostra riflessione; la conclusione di oggi è l’apertura sulle riflessioni che faremo, in estate, sulla struttura eucaristica come il paradigma, il modello portante della vita cristiana.

Nell’Ottocento c’è stato un grande filone di cui noi sentiamo gli aspetti più concreti: la cosiddetta spiritualità eucaristica, con le quarant’ore, l’adorazione… Poiché in quel tempo non si faceva la Comunione, cioè non ci si nutriva del corpo di Cristo, si erano costruite una serie di cose intorno.

La vita cristiana ha una forma attraverso l’Eucarestia. O è secondo lo stile, il metodo, il modello eucaristico o non è. Ci sono stati successivamente dei cambiamenti, abbiamo ritrovato un rapporto più reale con il gesto eucaristico e dentro questo, comprendiamo meglio come la paradigmaticità dell’Eucarestia non è solo che un fatto di spiritualità individuale, ma in qualche modo è il modello della vita condivisa dei cristiani. Nell’Ottocento prevaleva l’aspetto istituzionale, il tema dell’autorità. Essere battezzati era “costume” diffuso e ti dava la possibilità di essere dentro la Chiesa e di salvarti. Tale struttura funzionava da modello, mentre la forma eucaristica era lasciata al modello individuale. Il secondo passo, a cinquant’anni da Vaticano II, è assumere la struttura eucaristica prima come forma del nostro essere comune e successivamente anche come forma individuale. È il tema a cui approdiamo con la Lectio. Oggi, come cerchiamo di capire che cos’è che costituisce un corpo ecclesiale? Come cerchiamo di capire questo dare un corpo, che è diverso dall’appartenere, aderire, associarsi? Dare un corpo nel senso che scrive Paolo: Cristo è il corpo e voi siete le membra (1Cor 12,1-14). Il legame che c’è tra le membra del corpo non è un legame occasionale, ma strutturale.

Siamo partiti con la prima lectio con il tema “Giosuè e l’identità”. Noi abbiamo delle membra condivise, come dice la Bibbia, in modo conflittuale.

Abbiamo ragionato successivamente sul testo del sacrificio: la croce di Cristo è un evento bruciante, che scuote.

Nel terzo passo abbiamo lavorato sul come. C’è stata quella riflessione sulla profezia, sulla parola scambiata (che ho tradotto con “conversazione” più che con “profezia”). La parola scambiata, che non è  chiacchiera, interpreta la realtà, diventa il circuito, il sangue che connette le membra del corpo. La parola di Dio arriva all’ultima cellula periferica del corpo, nutre e torna indietro, arricchisce tutti.

Abbiamo poi ragionato sul martirio: è il testo di Atti su Pietro, Cornelio e i pagani.

Come si sta dentro questa conversazione? Che prezzo ha?

Ne parliamo oggi attraverso il capitolo 24 di Luca, dal versetto 13 in poi: un testo molto famoso conosciuto come “i discepoli di Emmaus”.

La comunità lucana non viene dall’ebraismo, ma dal mondo pagano ed ha il nostro stesso problema, chiamato tecnicamente il ritardo della Parusia. Cioè, perché c’è la storia? Che cosa stiamo aspettando che accada ancora? Che cosa abbiamo da fare adesso dal momento che Gesù è già venuto? In questo testo l’evangelista cerca di rispondere a queste domande fondamentali. Che sono poi le nostre stesse domande.

Matteo ha il problema di legittimare Pietro (cioè un problema gerarchico), quindi dopo la Risurrezione ha una serie di passaggi per mettere Pietro al posto giusto. Giovanni ha il problema di spiegare in che relazione siano la fede e l’amore, il capire e il buttarsi (il Risorto e la Maddalena, Giovanni e Pietro sul lago).

Luca 24 è un testo chiave riguardo al Risorto e alla sua significazione per tutti quelli che vengono dopo. In questo capitolo presenta l’apparizione a Maria Maddalena, poi il racconto di Emmaus (che è solo di Luca) e infine l’apparizione ai Dodici.

Il testo

13Ed ecco, in quello stesso giorno due di loro erano in cammino per un villaggio di nome Èmmaus, distante circa undici chilometri da Gerusalemme, 14e conversavano tra loro di tutto quello che era accaduto. 15Mentre conversavano e discutevano insieme, Gesù in persona si avvicinò e camminava con loro. 16Ma i loro occhi erano impediti a riconoscerlo. 17Ed egli disse loro: «Che cosa sono questi discorsi che state facendo tra voi lungo il cammino?». Si fermarono, col volto triste; 18uno di loro, di nome Clèopa, gli rispose: «Solo tu sei forestiero a Gerusalemme! Non sai ciò che vi è accaduto in questi giorni?». 19Domandò loro: «Che cosa?». Gli risposero: «Ciò che riguarda Gesù, il Nazareno, che fu profeta potente in opere e in parole, davanti a Dio e a tutto il popolo; 20come i capi dei sacerdoti e le nostre autorità lo hanno consegnato per farlo condannare a morte e lo hanno crocifisso. 21Noi speravamo che egli fosse colui che avrebbe liberato Israele; con tutto ciò, sono passati tre giorni da quando queste cose sono accadute. 22Ma alcune donne, delle nostre, ci hanno sconvolti; si sono recate al mattino alla tomba 23e, non avendo trovato il suo corpo, sono venute a dirci di aver avuto anche una visione di angeli, i quali affermano che egli è vivo. 24Alcuni dei nostri sono andati alla tomba e hanno trovato come avevano detto le donne, ma lui non l’hanno visto». 25Disse loro: «Stolti e lenti di cuore a credere in tutto ciò che hanno detto i profeti! 26Non bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?». 27E, cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui.

28Quando furono vicini al villaggio dove erano diretti, egli fece come se dovesse andare più lontano. 29Ma essi insistettero: «Resta con noi, perché si fa sera e il giorno è ormai al tramonto». Egli entrò per rimanere con loro. 30Quando fu a tavola con loro, prese il pane, recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. 31Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero. Ma egli sparì dalla loro vista. 32Ed essi dissero l’un l’altro: «Non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre egli conversava con noi lungo la via, quando ci spiegava le Scritture?». 33Partirono senza indugio e fecero ritorno a Gerusalemme, dove trovarono riuniti gli Undici e gli altri che erano con loro, 34i quali dicevano: «Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone!». 35Ed essi narravano ciò che era accaduto lungo la via e come l’avevano riconosciuto nello spezzare il pane.

“Ed ecco in quello stesso giorno due di loro erano in cammino per un villaggio di nome Emmaus, distante circa 11 km da Gerusalemme, e conversavano tra loro di tutto quello che era accaduto”.

Questi primi due versetti, che costituiscono il titolo, dovrebbero suonare alle nostre orecchie in modo esplosivo. Contengono una serie di elementi fondamentali: l’identità, la memoria, un gruppo costituito.

“In quello stesso giorno”, cioè il giorno della Resurrezione. Luca mette al centro la questione del tempo; la parola chiave è l’ora: l’ora di Gesù, l’ora dello Spirito, l’ora che il Padre testimoni. Da quando Gesù risorge, succede tutto, “In quello stesso giorno” o quasi, è un giorno lungo, come se la Resurrezione di Gesù instaurasse un giorno che non ha tramonto, il giorno di cui parla l’Apocalisse (Ap 1,10). È “il primo giorno della settimana” (Gv 20,1), quindi la Domenica. La Chiesa riprende questa idea nella liturgia, facendoci celebrare sette settimane di tempo pasquale. Che rimandano ai sette giorni della creazione. Sette volte sette, cioè tutto il tempo per tutto il tempo; non c’è più nulla che sfugge a questo. Durante il tempo di Pasqua, nel testo del prefazio si legge “in questo giorno, in cui Cristo è risuscitato dai morti”.

La comunità di cui Luca sta per parlare, è una comunità eucaristica, vive nel giorno della Pasqua non in modo magico ma volontaristico. La prima caratteristica di una comunità eucaristica, è che sa di essere al di là di ciò che sperimenta, e questo è il giorno della Risurrezione. Non è più il giorno della sfida, in cui Gesù incontrando chi gli chiede un miracolo, domanda: “Tu credi?”.

Nel giorno della Risurrezione, indipendentemente da ciò che si risponde, che uno abbia o meno problemi a riconoscerlo (come Tommaso), che lo si sappia o no, si abita nella luce del risorto. La comunità cristiana testimonia che il mondo è dentro la Risurrezione di Cristo.

Nell’ultimo secolo viviamo un cristianesimo come se fossimo sempre nel giorno della sfida, come se il centro dell’Evangelo fosse la domanda “Tu credi?”. Luca, ci dice, che, nel momento in cui siamo nell’esperienza della Chiesa, noi siamo nel giorno della Risurrezione, non della sfida. Cioè nel giorno in cui tutto viene riassunto in Cristo.

“Due di loro”, non “uno di loro”. Significa che fanno parte di un gruppo più grande. Questa è la condizione della Chiesa. Siamo sempre preoccupati di quelli che in parrocchia non vengono, abbiamo il problema di essere ecclesialmente tutti. Una comunità eucaristica parte dal principio che “due di loro” stanno facendo quello che ritengono giusto fare, giocandosi totalmente, così come si vedrà dopo, e ciò basta! L’eccesso di generosità ci fa vivere in una logica in cui è come se la Chiesa avesse un qualcosa già assodato e il suo problema fosse solo convincere gli altri. In fondo continuiamo ad avere una logica di espansione geografica, ma le terre sono finite.

“Erano in cammino”. I due discepoli compiono due azioni: camminano e parlano, entrambe sono caratteristiche di uscita da sé: corporea e interiore. Quando uno cammina, ogni volta che mette un piede in avanti sbilancia il proprio equilibrio. Se una persona è ferma, ben piantato sulle gambe, con un bel baricentro ampio, non rischia di cadere, ma non esce mai da sé; solo se cammina può inciampare. L’uscita da noi stessi è sempre una rottura di equilibri. Conversare è lo stesso movimento, a partire dall’interiorità, dai sentimenti.

“Conversavano tra loro di tutto quanto era accaduto”. Camminare a parlare sono due movimenti di rottura dell’equilibrio. Mi pare evidente che la comunità dei discepoli è una comunità che si sbilancia; vuol dire che rischia sempre di cadere, ma non per motivi morali (è ovvio, solo chi fa sbaglia!). Abbiamo un’unica certezza, e cioè che alla fine della storia i conti torneranno, perché il Signore Gesù gioca con sei assi nel mazzo; vince sempre, perché bara clamorosamente. Se alla fine i conti tornano, che cosa importa se sbagliamo nel frattempo? Il motore di tutto quello che succederà, è che Gesù si avvicina e apre loro gli occhi. È questo conversare che offre l’aggancio a Gesù per dire: “Che cosa sono questi discorsi che stavate facendo…”, cioè: “Di che cosa state parlando?”. Senza la conversazione non succede nulla! È il nostro conversare che dà spazio al Signore per “attaccarsi”, per inserirsi e buttare tutto all’aria. Ma se stiamo zitti tra di noi, il Signore non c’è!

“Mentre conversavano e discutevano insieme, Gesù in persona si avvicinò e camminava con loro. Ma i loro occhi erano impediti a riconoscerlo. Ed egli disse loro: «Che cosa sono questi discorsi che state facendo tra voi lungo il cammino?»”.

La Chiesa ci dice che Gesù è presente nell’esperienza della Chiesa ma la nostra tentazione è di immaginarlo presente come lo sono i gioielli di famiglia. Non è questo il modello con cui Gesù è presente. Egli cammina con noi e ci chiede: “Che cosa sono questi discorsi…?”. Solo se noi continuiamo a parlare tra di noi, a partire dal cuore della Parola, con parole vere, di quello che ci accade, prima o poi, che lo riconosciamo o no, cioè nelle mille forme in cui questo può accadere nella vita, verrà fuori la presenza del Signore, cioè l’idea nuova che ci serve per quel pezzo di strada. Se una persona non cammina, non conversa, non esce mai dal proprio equilibrio, sarà sollevato, perché il Signore riconosce tutti, ma dal punto di vista del percorrere questa storia non ci sarà un luogo dove la presenza del Signore può mostrarsi. Quello di cui abbiamo bisogno non è di salvare la nostra anima semplicemente, ma che il Signore si manifesti.

“Gesù in persona”. Questo “in persona” è molto importante e torna anche dopo (“ma Lui non lo hanno visto”). Quello che ci serve è che sia Lui, perché niente altro, nemmeno i suoi rappresentanti, sono sufficienti; se non c’è Lui siamo perduti: rimanere è l’unico modo per farcela. Qui c’è una grande questione di fede, antica come la scrittura. “Di chi vi fidate?”, è questa l’unica seria domanda!

“Ma i loro occhi erano impediti a riconoscerlo”. Luca è meraviglioso in questo testo: quando Gesù c’è in persona i due non lo vedono, quando sparisce, non c’è più (v. 31) lo riconoscono! È la nostra dinamica nei confronti del Signore: è stato sulla terra ma non è stato riconosciuto, perché il suo corpo, la sua storia erano ambivalenti. Si tratta cioè di guardare all’Eucarestia e fare un atto di fede.

“Si fermarono, col volto triste”.

C’è una cosa che si rischia di sottovalutare. Una comunità eucaristica è una comunità che ha nel cuore questa faccenda, per cui è davvero triste se una persona non sa dove andare, se non capisce che cosa gli sta accadendo. La differenza è nella oggettività delle cose.

«Solo tu sei forestiero a Gerusalemme! Non sai ciò che vi è accaduto in questi giorni?». Domandò loro: «Che cosa?». Gli risposero: «Ciò che riguarda Gesù, il Nazareno…».

Luca qui ci dice che Gesù si sottopone all’unica legge drammatica per l’esperienza religiosa, che è la legge dell’esclusione. Si mette dalla parte di un escluso, di colui che non sa, che non ha la verità, che dipende dalla risposta dell’altro. Questo modo di mettersi di Gesù mi commuove, perché penso che le nostre comunità dovrebbero funzionare così. È il nostro peccato condiviso la potenza, noi invece siamo sempre dal punto di vista dell’inclusione. Il Signore che è stato ucciso come bestemmiatore, fuori dalle mura della città, una volta che è risorto, si mette ancora dalla parte dell’escluso. Il tema della croce è la questione delle questioni. Tra il Crocifisso e il Risorto c’è continuità, ma perché Gesù usa lo stesso metodo? Muore come un escluso e risorge come un escluso. Lui si fa forestiero, dipende dalla risposta degli altri.

Noi come Chiesa, per comprendere la pienezza dell’Evangelo dipendiamo dal mondo, dalle sue critiche, dalle sue domande. Il “mondo” non lo sa che ci sta spiegando il Vangelo! Il Concilio a questo proposito fa l’esempio dell’aspirazione dei popoli alla pace: il mondo domanda pace, la chiede, ha questa aspettativa. Noi, interpellati da questa domanda, comprendiamo quanto non avevamo compreso, come cioè il Vangelo era un Vangelo di pace. Siamo due volte colpevoli: non lo avevamo compreso umanamente e non lo avevamo compreso quando il Signore ce lo aveva già detto.

“Noi speravamo che egli fosse colui che avrebbe liberato Israele…”.

Quando i due mettono nelle mani di Gesù le loro speranze deluse, allora Gesù può spiegare le Scritture. Lui si consegna alla loro risposta; gli hanno consegnato le loro speranze e Gesù può consolare le speranze deluse. C’è un margine di squilibrio possibile. È l’essere aperti alla ambiguità del mondo e della storia.

“Stolti e lenti di cuore a credere in tutto ciò che hanno detto i profeti!…”.

È una delle parole più dure del Vangelo di Luca!

“E […] spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui”.

Gesù rimette in circuito la conversazione. Non dice loro che non avevano capito niente della liberazione di Israele, non dà loro risposte, ma prende le scritture e spiega che cosa delle scritture si riferisce a Lui. Riapre il circuito della conversazione che era stato interrotto da una speranza delusa. Rimette in circolazione le parole e quello che succederà alla fine è che i due torneranno indietro e diranno: “Abbiamo visto il Signore e anche noi è apparso”.

“Quando furono vicini al villaggio dove erano diretti, egli fece come se dovesse andare più lontano. 29Ma essi insistettero: «Resta con noi, perché si fa sera e il giorno è ormai al tramonto»”.

Vi segnalo la parola restare, rimanere. Il rimanere è reciproco, è una conversazione.

“Egli fece come se dovesse andare più lontano”. Gesù finge, fa scena; la Scrittura è piena di scene di questo genere. C’è continuamente qualcuno che fa finta di fare una cosa che non ha in mente. Dovremmo riflettere: la Scrittura è pragmatica, la moralità di un atto si giudica sulla sua realtà, su quello che accade, non sulle intenzioni, perché la scrittura non è adolescente, è adulta. Sa che la realtà è quello che metti in opera.

Vi è un testo di Italo Calvino sulla leggerezza tratto da “Lezioni Americane”, un libro dedicato alle qualità che dovremmo portarci nel terzo millennio. Riguarda il mito di Perseo e la Medusa, l’unica delle tre Gorgoni che era mortale. Molti avevano tentato di uccidere la Medusa, il mostro che aveva il potere di pietrificare con lo sguardo, ma tutti avevano fallito, perché all’ultimo minuto per piantarle la spada nella pancia, dovevano guardarla e ogni volta che uno l’aveva quasi uccisa, rimaneva pietrificato. Insomma, nessuno riusciva ad uccidere questo mostro. Perseo usa un trucco, mette i sandali alati, è leggero e usa lo scudo come uno specchio; la colpisce guardando la sua immagine riflessa nello scudo lucente.

Calvino dice che questa leggerezza, questa capacità di essere indiretti, è una delle qualità che ci salverà di più. È un aspetto antropologico, cioè un modo di capire la nostra vita, decisivo rispetto alla fede, e su cui ci siamo confusi, mescolando una figura infantile adolescenziale della fede con una figura adulta.

Il poeta russo Josif Aleksandrovic Brodskij, una sera del 1987 si ritrovò in una bella sala del Municipio di Stoccolma a pronunciare il suo discorso di accettazione. Gli era toccato il premio Nobel a meno di cinquant’anni, nel pieno del suo esilio. In fondo al suo breve intervento disse: “È maledettamente lunga la strada per arrivare da San Pietroburgo a Stoccolma, ma dopotutto, per chi fa il mio mestiere, l’idea che una linea retta rappresenti la distanza più breve tra due punti, ha perduto da un pezzo la sua attrattiva… Tra quei due punti trascorre la vita, che è una continua digressione, un imperterrito vagare…”. Potremmo così sintetizzare le parole del poeta: la via più breve tra San Pietroburgo e Stoccolma non è una linea retta.

Spesso la via più breve è contorta. Non sempre la via buona, la via che non lascia troppi morti e feriti, la via che non esclude troppo, la via che salva la nostra ferita di vita, è la via diretta.

A volte ci sono alcune paure e bisogna ingannarle un po’, perché altrimenti si rimane paralizzati. Bisogna fingere con noi stessi. Gesù finge, perché Dio non si può guardare faccia a faccia. Non sempre la nostra esperienza di fede può essere semplicemente diretta.

L’assolutizzazione delle vie dirette diventa ideologia. Solo la comprensione della pluralità, delle vie, consente misericordia. E abbiamo bisogno che la nostra esperienza di fede, quella comune, quella dove non siamo tutti uguali, dove ognuno ha la sua sensibilità, sia una via ricca di misericordia.

“Egli entrò per rimanere con loro. Quando fu a tavola con loro, prese il pane, recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero. Ma egli sparì dalla loro vista”.

È il gesto eucaristico narrato nella sua forma più breve: prendere il pane, spezzarlo e darlo. Il gesto eucaristico non si riduce a una cerimonia. Va da “due di loro erano in cammino” fino a “il Signore è davvero Risorto ed è apparso a Simone”. L’Eucarestia non è un paradigma eucaristico, ma il luogo rituale dove noi compiamo degli atti, diciamo delle parole in modo condiviso, la figura simbolico-rituale dello stile che permea tutto e tutti.

Che noi siamo una comunità, quando celebriamo la messa, non è dato dal fatto che ci conosciamo, che ci vogliamo bene, ma esattamente dal contrario. Noi siamo una comunità perché ognuno di noi sperimenta, in anticipo rispetto al Paradiso, che può dare il segno della pace al suo vicino, grazie al fatto che non lo conosce. Possiamo stare davanti al Signore e vivere nella pace, perché non ci conosciamo, e questo è l’anticipo di quello che accadrà in Paradiso. Là ci conosceremo e saremo lo stesso in pace. Quello che mi viene dato ora è un anticipo e dunque non può essere ridotto a un gesto magico rituale.

La reazione dei due è: “Non ardeva forse in noi il nostro cuore…?”.

Perché la Chiesa funziona bene solo “nel ricordo”, mai “durante”. La legge fondamentale dell’esperienza ecclesiale è la memoria.

Riparte la conversazione: “il Signore è davvero risorto!”; gli altri rispondono: è vero “è apparso a Simone”.

E si ricomincia. “Ed essi narravano ciò che era accaduto lungo la via e come l’avevano riconosciuto nello spezzare il pane”.

È l’esatto gesto dell’inizio (v. 14): “e conversavano tra loro di tutto quello che era accaduto”.

Questo testo è bellissimo, godiamocelo. E che ci accompagni durante l’estate!

Fossano, 12 maggio 2012

(testo non rivisto dal relatore)

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