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22 Ottobre 2011
Stella Morra

1. Tra memoria e identità

Commento a: Gs 24, 1-28


Premessa

Il tema di quest’anno: “Alla ricerca di un corpo per la Parola: Cristiani, Chiesa e Mondo”, da sempre caratterizza la riflessione dell’Atrio, cioè l’idea di essere dei cristiani, cioè gente che ha preso sul serio in quanto a se stesso l’appello evangelico della vita di Gesù, ma di non rassegnarsi all’idea che questo sia un fatto privato e contemporaneamente non rassegnarsi all’idea che in quanto fatto non privato sia necessariamente un fatto che debba avere delle etichette pubblicamente riconoscibili, che deve caratterizzarsi con un appartenenza forte, che deve segnare un’omogeneità assoluta. L’appello alla vita buona del Vangelo e la volontà di prendere sul serio questo appello ci sembra anche che non dovrebbe segnare una differenza rispetto agli uomini e le donne con cui condividiamo la quotidianità della nostra vita, la fatica che fanno, i problemi. In questa premessa ci stanno tante questioni: Uguali a chi? Diversi da chi? C’è un mondo che sarebbe un’altra cosa? Che cosa vuol dire io credo?

E c’è anche tutto un volto pubblico che l’esperienza ecclesiale ha da quello sacramentale, istituzionale, giuridico, e dall’altra parte tutto un volto spirituale che questa esperienza ha, le connessioni forti con persone e metodi. Tutto ciò rappresenta una quantità mostruosa di problemi e scegliere entro i quali non è mai una scelta neutrale, perché dietro ho un’idea e un desiderio rispetto a questa cosa ovvero quello che mi augurerei che l’esperienza ecclesiale fosse. Negli ultimi vent’anni di lectio abbiamo imparato che la parola di Dio non ti dà soluzioni, trovi molte cose diverse, non c’è un’immagine di come e cosa vuol dire vivere la chiesa oggi. Ci sono molte immagini e alcune le visiteremo: il popolo, l’assemblea. Noi non troveremo mai la congregazione per la nuova evangelizzazione piuttosto che il pontificio consiglio per la cultura e questo cosa vuol dire? Dato che non ci sono nella parola di Dio sono in fondo delle cose che non contano? Possiamo farne a meno? Un atteggiamento oggi molto diffuso è questo, pensare che non siano cose serie, tranne poi arrabbiarci quando i giornalisti riportano ciò che ha detto un rappresentante del pontificio consiglio per la cultura e intitolano”La chiesa dice…” e noi ci arrabbiamo e diciamo che la Chiesa non è quella lì…

Abbiamo deciso che dal momento che un’idea di Chiesa dietro al nostro percorso c’è tanto vale metterlo esplicito cosi sapete che non c’è nella Bibbia ma è una nostra idea, ed è nell’espressione alla ricerca di un corpo per la Parola.

L’Atrio in molti anni nei percorsi dei seminari e delle lectio ha scommesso che la parola di Dio che è Gesù, il suo appello evangelico, l’essenzialità, la semplicità e la sua radicalità, ha bisogno e cerca un corpo. Nella ricerca del corpo come succede a ciascuno di noi, ovvero il nostro corpo un po’ lo subiamo, un po’ lo manipoliamo, lo abbelliamo in un certo modo, ci tagliamo i capelli, facciamo la dieta, facciamo ginnastica, scegliamo certi abiti piuttosto che altri, ma comunque non è mai totalmente identificabile con il nostro io, ognuno di noi ha una certa distanza dal proprio corpo, ma non si dà il nostro io senza il nostro corpo.

Quando io dico io c’è una misura delicata e non penso solo una cosa di me, ma sono globalmente tante cose, ma contemporaneamente nessuno di voi può incontrare me od io riconoscere me stessa senza questo corpo.

Il nostro desiderio, anche a partire dal sogno della provocazione di Vaticano II, è che i sia una chiesa che sia un corpo per la parola e dunque mai sarà totalmente identica, ma deve lasciare trasparire, farci conoscere nel frequentarla, farci toccare, incontrare. Noi non conosciamo e tanto meno ci affezioniamo agli io delle persone, ma noi incontriamo la loro faccia, le loro parole, i loro movimenti, quello che ci esprimono con la loro voce, ma la totale verità di loro praticamente mai, perché non siamo capaci di dire tutta la verità, ma frequentando le persone mano a mano traspare il loro io più profondo a volte addirittura nonostante loro stessi.

Questo è il tema generale e dopo ci sono tre parole Cristiani, Chiesa e Mondo. Questi tre elementi non sono alternativi uno all’altro: ci sono i cristiani che sono quelli che rispondono all’appello evangelico, la chiesa che sarebbe la forma storica, il mondo che sarebbero gli altri, i lontano quelli che non credono. Questi tre elementi fanno l’esperienza del corpo per la parola di Dio, esattamente come ciascuno di noi ha un suo sé, ha una sua visibilità e ciò che gli altri gli rimandano di lui lo rafforza, lo muta o lo delude. Ognuno di noi dice di sapere qualcosa di sé, forse lo sa, fa delle scelte, ha una sua identità, poi questo lo esprime nella propria vita, attraverso i gesti,le parole e il proprio corpo, il proprio essere al mondo e le reazioni degli altri ci chiariscono, ci rafforzano, ci deludono, ci smentiscono ci costringono a ripensare. Cristiani, Chiesa e Mondo ci sembra siano un po’ siano le questioni. La risposta all’appello evangelico è l’identità profonda dell’essere credente, ma non si dà, non si incontra, non si abita, se non in un corpo, ma questo corpo è interpretato deluso, frustrato, incoraggiato, rafforzato, interpellato da tutto il mondo che lo circonda, che lo capisce o non lo capisce, gli rimanda delle cose.

In questo tema riflettere un po’ sul Battesimo è decisivo. L’idea di Battesimo è il punto delicato di congiunzione tra il riconoscere l’appello evangelico, farlo proprio e averne un riconoscimento un’esperienza corporea: io non mi battezzo da solo, qualcuno mi battezza, perché l’appello evangelico non è un fatto tra me e me, io decido, ma ha un suo luogo proprio, dove una comunità, un corpo sociale mi dice che la mia risposta all’appello evangelico si conforma e ne faccio l’esperienza.

Il nostro problema oggi qual è? Mons. Luigi Bettazzi dice che ognuno deve fare la sua parte, che non possiamo passare il tempo a dire che i vescovi non fanno, che il Papa non fa, ma ciascuno deve esprimere l’oggettività del modo di essere adulti, decidere se combatte, non combatte, se ne frega, dove si mette rispetto ad un problema di oggettiva difficoltà; insomma, in qualche modo deve farci la pace con questa cosa, che non vuol dire essere contento. Il Concilio c’è stato è stato un grande dono, la situazione attuale può essere un po’ affaticata, cosa vogliamo fare come cristiani adulti? La domanda non è tanto cosa fare, ma il come. Noi che siamo qui queste cose ci appassionano e se sapessimo come farle le avremmo già fatte, saremmo davvero disponibili a fare la nostra parte, se qualcuno ci spiegasse come.

Il nostro percorso dovrebbe ragionare su questo, sul come non tanto come ricette concrete, ma sul come da adulti, come succede nella nostra vita, dopo che uno si è ben bene arrabbiato con una situazione lavorativa, si calma e valuta la situazione e decide cosa può fare, se è risolutivo o no, quali alleanze può fare, cerca di capire come funziona, e questo poi ci dà il come. Rispetto all’esperienza di Chiesa dovremmo ragionare anche in questo modo, siamo degli adulti, ognuno è chiamato a fare la propria parte rispetto alla chiesa conciliare, se non smontiamo un po’ come funziona non riusciremo mai a trovare un come, perché saremo sempre in attesa come i bambini delle condizioni ideali. Questo è un atteggiamento culturale molto diffuso, ad esempio quando ti incontri poi la gente dice ci vediamo che sarebbe una cosa generica perché tutti abbiamo vite complicate per cui poi non ti vedi. Rispetto al Concilio dopo una prima fase degli anni ’70-’80 molto scaldata siamo tutti messi in questo modo dove le condizioni non sono buone, ma appena cambiano… solo che non cambiano da sole. Si tratta di capire il come.

Le lectio di quest’anno partono dal vecchio testamento al nuovo, ma questa volta ci sono Corinti e Atti prima del Vangelo, non è un percorso cronologico, perché la tensione è tra l’appello evangelico che parla al cuore della persona, e i modi iniziali dei libri degli Atti e di Paolo in cui si è cercato di dare un modo a questo appello. In qualche modo la tensione e tra due parole la comunità e la comunione che sono due termini su cui rispetto alla Chiesa facciamo confusione, perché spesso nel tentativo di giustificare un po’ l’ingiustificabile abbiamo fondato l’idea della Chiesa su un preteso antropologico:l’uomo è un essere sociale. Tutto dove siamo un gruppo, ci sono dei legami con gli altri e sono inevitabili, dunque anche nell’esperienza religiosa ci sono questi legami inevitabili. Questa idea mi sembra totalmente insufficiente, l’idea che tutti gli esseri umani abbiano un tema comunitario, è assolutamente vera, ma non tutte le comunità sono per questo Chiesa, non sempre la Chiesa è una comunità dal punto di vista antropologico.

Vaticano II ci dice che la Chiesa è un mistero, è un sacramento e un mistero. In quanto sacramento qualche pezzo di comunità da qualche parte deve averlo, ma il sacramento è fatto di materia e di forma, poi c’è anche il mistero, poi c’è ancora tanta altra roba. Abbiamo premuto troppo su quest’aspetto antropologico della comunità, del conoscersi, del condividere, del parlarsi, del supportarsi, del volersi un po’ bene, su un’attesa di Chiesa che sia sempre e comunque un riconoscimento antropologicamente forte, con tutte le derive delle comunità un po’ culla, rassicuranti, con la perenne insoddisfazione perché non c’è nessun posto al mondo in cui tutto il mio desiderio di affetto sia colmato. neanche nel matrimonio più felice.

L’altro termine è Comunione, su cui la chiesa cattolica negli ultimi cinque secoli ha insistito molto, come un legame elettivo, scelto, coltivato, ma che è fondato in Dio, la cui misura è Dio e supera ogni visibilità. Avendo insistito sulla Comunione abbiamo esagerato sulla Comunità, il problema è trovare un equilibrio tra queste due cose. Questo si vede benissimo rispetto alla partecipazione alla eucarestia, tutti abbiamo una nostalgia rispetto alle messe in piccolo gruppo, dove ci conosciamo, condividiamo, dove c’è un senso di calore, ma la vera esperienza ecclesiale non è quella, quella è l’esperienza propedeutica, perché in piccolo gruppo si può anche mangiare una pizza, ed è carino, ci sosteniamo, ci conosciamo, ma la vera esperienza ecclesiale è nella celebrazione del sacrificio di Cristo anche lo sconosciuto che è accanto a me è reso mio fratello, c’è una comunione che è tanto più preziosa perché non ha di per sé una motivazione umana. E’ esattamente il contrario, io adoro andare a messa dove non conosco nessuno perché penso che l’unico modo in cui poter dare la pace a tutti con assoluta sincerità del cuore sia non conoscerli, il Padre Eterno mi dà un anticipo di Paradiso, mi fa fare l’esperienza che nella verità posso dare la pace, condividere la pace con qualcuno come sarà in Paradiso in cui la Pace regnerà anche se per adesso con quelli che conosco faccio un bel po’ di fatica. Il Signore è buono e ogni tanto mi concede una pace sincera con gli altri, il prezzo di ciò è che io non li conosco. Questo è un modo provocatorio, ma serve per dire che c’è un equilibrio strano tra comunità e comunione.

Il primo passo è questo testo di Giosuè, è un capitolo lungo, abbastanza conosciuto, lo commento a mano a mano che lo leggo. Siamo alla fine del libro di Giosuè, Giosuè è il condottiero che ha transitato la parte finale dell’esodo, Mosè guida il popolo fuori dall’Egitto, ma poiché il popolo ha mormorato e il Dio ha detto che nessuno di questa generazione entrerà nella terra promessa, Mosè non passa il fiume, muore sull’altura e neppure lui, il condottiero, è esentato dalla sorte della sua generazione; Giosuè invece passa entra nella terra promessa, ed è il primo organizzatore. Ci sono libri e libri sul rapporto tra storicità e non storicità del libro di Giosuè, perché è un libro che si presenta come una narrazione storica, la grande discussione storica è se sia successo davvero. Questo brano è alla fine di questa narrazione di tipo storico, quando il popolo è arrivato ma non si è ancora sistemato, le battaglie sono fatte, le conquiste della terra e dell’oro, però ancora non è successo niente, non hanno arato i campi, non hanno costruito le case, sono in quel punto delicato in cui sembra che ce l’abbiamo fatta, ma ancora non si vede che ce l’abbiamo fatta. Questo racconto è il racconto solenne e liturgico in cui Giosuè dice siamo arrivati fino qua, cosa volete fare ora? Volete scegliere il Signore o no? Adesso bisogna decidere. Questo è il racconto dell’alleanza:

1Giosuè radunò tutte le tribù d’Israele a Sichem e convocò gli anziani d’Israele, i capi, i giudici e gli scribi, ed essi si presentarono davanti a Dio. 2Giosuè disse a tutto il popolo: «Così dice il Signore, Dio d’Israele:

Come sempre il primo versetto è indicativo di tutto il racconto, è un po’ il titolo, ci sono state le battaglie, l’attraversata del deserto, è ancora tutto iniziale e pioneristico, eppure sembra che il popolo si fosse già tutto organizzato. C’è una discronia cronologica di questo genere è come se Gesù avesse convocato i dodici e avesse detto vi nomino capi di dicastero vaticano, peccato che i dicasteri non esistano ancora. La storia è che questo non era per niente un popolo. Si è fatto popolo, a partire da Esodo, la storia ci dice che non tutte le tribù sono andate schiave in Egitto e sono uscite nell’Esodo, alcune proprio non ci sono andate, altre sono uscite prima, altre in questa forma un po’ più drammatica, cioè il popolo si fa popolo e si organizza popolo nel tempo, ma poi quando questo viene narrato, viene narrato in un altro modo, alla luce del dopo. La cosa interessante in questo modo di narrare è il rapporto tra la storia e la narrazione è il luogo dell’identità. Le cose succedono, a ciascuno di noi può succedere la stessa cosa, ognuno di noi la racconterà in un modo profondamente diverso, perché tra l’oggettività di quella cosa che è successa e il mio racconto ci sono di mezzo io. Questo è uno dei problemi per cui l’informazione è così complicata, perché è difficile narrare i fatti, si hanno versioni diverse di un dato che è lo stesso, perché c’è la soggettività di chi racconta.

La nostra storia non è mai solo una storia di fatti. Nel gesto di Giosuè che raduna le tribù di Israele c’è esattamente il nostro problema, un corpo che c’è, che ha una memoria forse condivisa, ma che non riesce a farsi identità, e la Bibbia che narra di Giosuè che narra per darci una identità. Qui c’è già una bella domanda: forse noi non riusciamo ad essere chiesa perché non abbiamo più luoghi di narrazioni? Abbiamo confuso la narrazione con la testimonianza, la revisione di vita, la condivisione, che da adulti è molto difficile fare, perché non diamo peso alla narrazione, perché quando uno parla ci chiediamo solo se è vero o falso quello che racconta e non che cosa ci sta dicendo, di quello che lui ha vissuto nel modo in cui lo narra. Siamo ormai figli di una società economica e di. fronte a più narrazioni ci chiediamo solo chi ha ragione, e non che cosa stanno dicendo davvero, quale identità di narrazione ci sia.

L’atra cosa interessante è che Giosuè raduna, ma si presentarono davanti a Dio e non davanti a Giosuè e poi questo è talmente chiaro che Giosuè disse: “Così dice il Signore.” Allora i casi sono due o era afflitto da delirio di onnipotenza oppure c’è qualcosa in questa faccenda ovvero il tema della rappresentanza. I bambini quando giocano dicono facciamo che io ero.. e in questo uso delle due forme verbali facciamo è il dato identitario e io ero è la questione della rappresentanza, esistono trattati interi di linguistica su questa faccenda, è un meccanismo che stabilisce un patto linguistico con gli altri e in questo patto io creo una rappresentanza facciamo che io ero. La chiesa ha sempre saputo molto bene questo meccanismo per cui tutte le volte che si raduna nella liturgia proclama la parola di Dio ed è un meccanismo di rappresentanza, tutte le volte che leggo una lettura alla fine si dice parola di Dio, che posso leggere bene, male, capendo, non capendo, meglio se leggo e capisco, ma non è la questione decisiva, io devo sapere che nell’identità narrativa sta parlano un altro. La Chiesa è una comunità in cui nessuno sta al posto suo, stanno tutti al posto di un altro: bisogna mettersi nei panni dei poveri, nei panni di Cristo. Che cosa dice il Signore secondo le parole di Giosuè narra la storia e in pezzi diversi, la storia precedente ricostituisce la memoria:

“Nei tempi antichi i vostri padri, tra cui Terach, padre di Abramo e padre di Nacor, abitavano oltre il Fiume. Essi servivano altri dèi.

Non comincia da quando sono diventati discepoli di Jahvè, come noi non comincia mo da Gesù ma da Adamo. Il Concilio, Lumen Gentium dice che tradizionalmente la Chiesa cominciava da Abele, lascia fuori Caino,il peccato originale, almeno i cattivi nella Chiesa non ci sono,ma Vaticano II cita questa cosa, ecclesia ab Adam, ci tira dentro anche i cattivi. Il popolo di Israele non si costituisce per esclusione, dentro chi crede in Jahvè, fuori chi non ci crede, è al contrario sceglie i padri quando credevano in altri dei. Poi c’è tutta la storia dei patriarchi:

3Io presi Abramo, vostro padre, da oltre il Fiume e gli feci percorrere tutta la terra di Canaan. Moltiplicai la sua discendenza e gli diedi Isacco. 4A Isacco diedi Giacobbe ed Esaù; assegnai a Esaù il possesso della zona montuosa di Seir, mentre Giacobbe e i suoi figli scesero in Egitto.

Abbiamo tutti una aspettativa, ci piacerebbe trovare pace in una casa, in una comunità, in un popolo, in una tribù, in una famiglia, tutti abbiamo l’illusione che da qualche parte in fondo la vita possa funzionare, sia un benedizione, che qualcuno mi voglia bene e io sia in grado di volergli bene, la promessa dell’origine, il desiderio iniziale. Poi racconta la seconda parte:

5In seguito mandai Mosè e Aronne e colpii l’Egitto con le mie azioni in mezzo a esso, e poi vi feci uscire. 6Feci uscire dall’Egitto i vostri padri e voi arrivaste al mare. Gli Egiziani inseguirono i vostri padri con carri e cavalieri fino al Mar Rosso, 7ma essi gridarono al Signore, che pose fitte tenebre fra voi e gli Egiziani; sospinsi sopra di loro il mare, che li sommerse: i vostri occhi hanno visto quanto feci in Egitto. Poi dimoraste lungo tempo nel deserto”.

Questa è l’esperienza che ognuno di noi fa, non quella del desiderio originale, ma quella della schiavitù della lotta per la libertà, l’esperienza di una vita che non funziona, sempre o abbastanza, e della fatica che si fa per tenerla su binari minimamente accettabili, di farla funzionare un po’. Questa cosa è visualizzabile in genere quando uno ha più di un figlio e si scontra nei litigi dei propri figli, perché ha di fronte un desiderio di fraternità tradito dalla storia e che non si sa come mettere insieme, ma la cosa più difficile al mondo da accettare per dei genitori che ci possano essere delle difficoltà di rapporto tra i loro figli. I figli sono per i genitori una comunità, sono una personalità corporativa, benché si sappia che ognuno è diverso dall’altro, ognuno ha il proprio carattere, però sono tutti figli, saranno solo loro com’è che non vanno d’accordo? L’esperienza che noi facciamo è di un mondo che non funziona secondo la promessa dell’origine, che richiede fatica, impegno, far la pace, chiedere perdono, fare un sacco di manovre perché il mondo un po’ funzioni.

Il racconto continua con la terza parte:

8Vi feci entrare nella terra degli Amorrei, che abitavano ad occidente del Giordano. Vi attaccarono, ma io li consegnai in mano vostra; voi prendeste possesso della loro terra e io li distrussi dinanzi a voi.

E’ un testo brutto che ci fa venire in mente la situazione di quella terra anche oggi, gli ebrei dicono questa è la nostra terra da 4000 anni A:C, però i palestinesi dicono che nel frattempo ci sono stati loro.

In questo racconto c’è l’esperienza dell’origine, che per noi non è l’esperienza, ma un desiderio bambino, c’è l’esperienza della schiavitù-libertà, e il luogo di quell’esperienza che è un conflitto, che non ha soluzione. Questa storia ci pare funzioni benissimo per gli Ebrei, ma come si sentivano gli Amorrei e i Cananei? Non c’è soluzione siamo tutti profughi, nessuno può dire questa terra è mia. La terra non è solo un dato geografico, ma il mio cuore, la mia vita, il mio tempo, questo mondo.

Giosuè cita un episodio:

9In seguito Balak, figlio di Sippor, re di Moab, si levò e attaccò Israele. Mandò a chiamare Balaam, figlio di Beor, perché vi maledicesse. 10Ma io non volli ascoltare Balaam ed egli dovette benedirvi. Così vi liberai dalle sue mani. 11Attraversaste il Giordano e arrivaste a Gerico. Vi attaccarono i signori di Gerico, gli Amorrei, i Perizziti, i Cananei, gli Ittiti, i Gergesei, gli Evei e i Gebusei, ma io li consegnai in mano vostra. 12Mandai i calabroni davanti a voi, per sgominare i due re amorrei non con la tua spada né con il tuo arco.

C’è una promessa dell’origine, c’è un’esperienza di schiavitù e libertà, c’è un conflitto inevitabile, questo conflitto che non ha una soluzione oggettiva si pone su un crinale molto preciso: di fronte ad un conflitto il problema non è risolverlo perché non è possibile, ma benedire o maledire. Questa è la questione: si fa una comunità se di fronte ad un conflitto si benedice, e non stiamo parlando di Cristianesimo, di Carità, di Evangelo, stiamo proprio parlando di struttura antropologica, in una famiglia tradotto in termini molto concreti alla fine della fiera bisogna che qualcuno si dia pace e interrompa la spirale del litigio, se no non ne viene fuori, perché ognuno ha le sue ragioni, che sono legittime, ma ad un certo punto qualcuno deve benedire.

Poi c’è la conclusione di tutto, che dice quattro parole chiave del rapporto tra memoria ed identità:

13Vi diedi una terra che non avevate lavorato, abitate in città che non avete costruito e mangiate i frutti di vigne e oliveti che non avete piantato”.

14Ora, dunque, temete il Signore e servitelo con integrità e fedeltà.

Giosuè dice che sono arrivati sino a qui raccolgono frutti di altri e mangiano ciò che non hanno coltivato, abitano case di altri, quindi sono dei profughi, anzi degli usurpatori, ma quale è il loro ruolo per benedire? Temete il Signore seguitelo con fedeltà ed integrità. Queste sono le quattro parole chiave che aprono la tensione di una comunità verso una possibile comunione: temere, seguire, integrità, fedeltà. Qui si aprono scenari incredibili, pensate al nostro paese oggi può aprirsi una tensione più comunitaria di bene comune se queste sono le quattro parole chiave. Oggi nessuno teme più nessuno, se non i ricatti, non c’è timore, ma paura, che è diverso; nessuno serve più nessuno, nessuno ha come criterio l’integrità, nessuno ha più come criterio la fedeltà. Ancora una volta qui non stiamo parlando di questioni evangeliche, ma della struttura di una comunità che si costituisce. Una comunità nazionale, che per esempio si costituisce a partire da una memoria condivisa.

Dopo aver enunciato queste quattro parole chiave, Giosuè dice che il Signore tira le fila:

Eliminate gli dèi che i vostri padri hanno servito oltre il Fiume e in Egitto e servite il Signore. 15Se sembra male ai vostri occhi servire il Signore, sceglietevi oggi chi servire: se gli dèi che i vostri padri hanno servito oltre il Fiume oppure gli dèi degli Amorrei, nel cui territorio abitate. Quanto a me e alla mia casa, serviremo il Signore».

Spesso di questo testo c’è una visione molto moralistica, molto volontaristica, basata sull’idea di scelta, dove la parola chiave sarebbe scelta, invece la questione chiave di questo versetto è l’alternativa, gli dei al di là del fiume ( si è sempre fatto così), quelli degli Amorrei che avete trovato qua (nulla può cambiare) oppure il Signore (le quattro parole chiave), uno che vi ha accompagnato nella storia, cioè volete tornare indietro rimanere legati alla tradizione, perdere ogni profezia rispetto al luogo che abitate, conformarvi allo spirito del mondo, o scegliete un percorso nella storia.

16Il popolo rispose: «Lontano da noi abbandonare il Signore per servire altri dèi! 17Poiché è il Signore, nostro Dio, che ha fatto salire noi e i padri nostri dalla terra d’Egitto, dalla condizione servile; egli ha compiuto quei grandi segni dinanzi ai nostri occhi e ci ha custodito per tutto il cammino che abbiamo percorso e in mezzo a tutti i popoli fra i quali siamo passati. 18Il Signore ha scacciato dinanzi a noi tutti questi popoli e gli Amorrei che abitavano la terra. Perciò anche noi serviremo il Signore, perché egli è il nostro Dio».

Qui ci sono due questioni chiave. La prima ha a che vedere con tutto il ragionamento di Giosuè, la promessa dell’origine, la schiavitù-libertà, il conflitto e la benedizione, in cui loro ripetono solo l’esperienza della schiavitù-libertà. L’unica cosa che noi abbiamo è l’esperienza che facciamo, ci vuole in profeta per dirci da dove arriva e verso dove andiamo, ci vuole un concilio per darci un orizzonte di partenza e uno di fine, ci vogliono dei teologi che ci aiutino a capire, noi sappiamo che cosa abbiamo visto, ma nella nostra esperienza credente noi dovremmo vedere e toccare i sacramenti, la Parola di Dio. Una Chiesa piena di profeti, di teologi, dei parroci che fanno delle bellissime omelie, tutto questo ci aiuta, ci da tutti gli altri passi, ma di per sé l’eucarestia ci basta. Più una Chiesa è trasparente più tutti siamo consapevoli della promessa dell’origine, dell’esperienza di schiavitù e libertà, come abitare il conflitto, come benedire e non maledire, su questo ci aiutiamo, ma di per sé il dato che abbiamo visto e vissuto è l’eucarestia. Poi c’è ancora una parola decisiva: anche noi serviremo il Signore. Questa esperienza di scelta non è mai una scelta nel senso moderno del termine, cioè io decido in piena libertà e senza condizionamenti, ma è sempre anche io, cioè un accodarsi, una cosa che noi odiamo, ma forse lo odiamo meno come termine dicendo tradizione, qualcosa che può accadere solo se è già accaduto davanti ai nostri occhi. La parte finale del brano ha un gesto, chiaramente molto liturgico: introduce il tema della testimonianza e dice che la comunità si fa innanzi tutto su di voi, che non c’è legge scritta, non c’è appartenenza giuridica che tenga se voi non siete testimoni andate contro voi stessi. In un paese democratico questo vorrebbe dire che la legge serve per prevenire le violazioni, cioè parte dal presupposto che gli uomini e le donne non sono buoni, dato che esistono i ladri bisogna punirli, è questo è realista, nel mondo funziona così, le comunità hanno bisogno di dati oggettivi per regolarsi perché sanno che il mondo non funziona. La tensione della comunione che ci viene proposta invece è esattamente al contrario, non c’è legge che terrà se voi non siete testimoni rispetto a voi stessi, se non c’è una presa di posizione di ciascuno rispetto a sé, la coscienza è terribilmente al centro. A fronte di questo si crea però un dato oggettivo, una pietra che di per sé non punisce nessuno, non stabilisce nessuna norma, è oggettivo perché è una pietra. In tutta la tradizione i credenti hanno pellegrinato per santuari.

Cosa si va a vedere in un santuario?Il posto dove è apparsa la Madonna, c’è stato un miracolo, è stato sepolto un martire, ma ora non c’è più. Tutta la storia credente è pellegrina verso un luogo che è un segnale oggettivo di una cosa che non c’è più. Cosa andiamo a vedere? Uno non va a Lourdes per vedere la Madonna. La tensione tra comunione e comunità funziona così: abbiamo un segno (una pietra, il pane, che non è pane, è il corpo di Cristo e non si vede) che ci costringe a vedere quello che non c’è, la testimonianza dei nostri cuori, di noi stessi rispetto a noi stessi, a vedere una comunione fraterna che non c’è e funziona perché non c’è, a vedere una figliolanza condivisa che non c’è, perché è la figliolanza di Cristo.

19Giosuè disse al popolo: «Voi non potete servire il Signore, perché è un Dio santo, è un Dio geloso; egli non perdonerà le vostre trasgressioni e i vostri peccati. 20Se abbandonerete il Signore e servirete dèi stranieri, egli vi si volterà contro e, dopo avervi fatto tanto bene, vi farà del male e vi annienterà». 21Il popolo rispose a Giosuè: «No! Noi serviremo il Signore». 22Giosuè disse allora al popolo: «Voi siete testimoni contro voi stessi, che vi siete scelti il Signore per servirlo!». Risposero: «Siamo testimoni!». 23«Eliminate allora gli dèi degli stranieri, che sono in mezzo a voi, e rivolgete il vostro cuore al Signore, Dio d’Israele!». 24Il popolo rispose a Giosuè: «Noi serviremo il Signore, nostro Dio, e ascolteremo la sua voce!».

25Giosuè in quel giorno concluse un’alleanza per il popolo e gli diede uno statuto e una legge a Sichem. 26Scrisse queste parole nel libro della legge di Dio. Prese una grande pietra e la rizzò là, sotto la quercia che era nel santuario del Signore. 27Infine, Giosuè disse a tutto il popolo: «Ecco: questa pietra sarà una testimonianza per noi, perché essa ha udito tutte le parole che il Signore ci ha detto; essa servirà quindi da testimonianza per voi, perché non rinneghiate il vostro Dio».

L’ultimo versetto dice:

28Poi Giosuè congedò il popolo, ciascuno alla sua eredità.

In che senso, chi è morto, chi ha lasciato quale eredità? L’idea è veramente che ognuno ha da fare i conti con una sparizione, sparisce l’assemblea costituita che dura il tempo del discorso di Giosuè e ognuno va alla propria parte, eredità, ai propri campi, alla propria casa.

Fossano, 22 ottobre 2011

(testo non rivisto dal relatore)

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