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14 Gennaio 2012
Stella Morra

4. Parole ed edificazione

Commento a: 1 Cor 14, 1-22


Premessa

Il percorso di quest’anno a molti è sembrato complesso.

Ci sono molti motivi per cui un percorso ci può sembrare più complesso rispetto ad un altro. Possono essere motivi soggettivi della persona che ascolta: un tema è più congeniale o è un tema su cui si è meno pensato o riflettuto; oppure soggettivi anche per chi lo espone perchè a volte le spiegazioni riescono meglio, sono più chiare e altre volte si è più contorti.

Mi sembra però che ci sia una questione su cui vorrei riflettessimo un po’: abbiamo preso contenti la Parola di Dio restituitaci dal Vaticano II, dopo molti secoli di espropriazione, dopo che il popolo di Dio è stato privato della Parola per molto tempo, e cominciamo a masticarla dal livello uno. Quando cioè troviamo nella Parola di Dio un tema, un percorso, un approccio personale, esistenziale sulle nostre vite, sui nostri meccanismi di interiorità, di profondità, con un po’ di pazienza si comincia ad andare sciolti, cioè a sentire in modo chiaro e senza troppa fatica intellettuale le risonanze, i rimandi. E’ come se avessimo riconquistato una lettura spirituale della Scrittura. C’è però un livello due che in qualche modo, non dico sia più importante ma necessario, indispensabile ed è il livello ecclesiale della Scrittura. Questo è il livello proprio della Scrittura che non è stata fatta perché ognuno la legga nella propria cameretta. Lo facciamo anche nella nostra cameretta per masticarla con calma, per avere familiarità, per leggerla e pensarla ognuno con i propri ritmi che non sono omogeneizzabili necessariamente a quelli di tutti. Ma quello è una cosa in più perché la lettura propria della Scrittura è una lettura ecclesiale: è la storia di un popolo, scritta per un popolo e che quindi va letta da un popolo. Ma su questo siamo più analfabeti che non sulla lettura personale su cui pure abbiamo già molti analfabetismi. La dimostrazione è che noi tutti, mediamente, amiamo o ci gestiamo di più una lettura personale della Scrittura che non una proclamazione liturgica. Se ci mettiamo nel tempo favorevole, col tempo che abbiamo, con la quiete, con gli strumenti di atmosfera che servono come il silenzio assoluto oppure una bella finestra da cui guardare un bel panorama o la musica di Mozart di sottofondo, è un piacere leggere la Scrittura. Poi durante la Liturgia, quando viene letta, vediamo che quello legge male o io sono distratto oppure non ho capito e avrei bisogno di più tempo…. Di per sé il luogo proprio della scrittura è la lettura ecclesiale.

Il tema su cui ci stiamo misurando questa volta è una lettura ecclesiale. Credo, al di là del fatto che io possa essere più o meno chiara, che la nostra difficoltà sia proprio qua: stiamo cominciando a misurarci con una lettura al plurale e non solo al singolare della Scrittura. C’è un po’ la stessa difficoltà che c’è in una famiglia: ci vuole un po’ di tempo perché una famiglia impari a trovare i modi per rilassarsi insieme perché ritorna che ognuno dei componenti della famiglia dice di avere bisogno di un po’ di tempo di calma per avere tempo per sé, ed è necessario. Ma se una famiglia non impara anche a fare delle cose in cui tutti i componenti, seppure non ciascuno assolutamente secondo se stesso, ma tutti in verità riescono a rilassarsi insieme, vuol dire che come famiglia non ha mai un momento di relax, che si incrocia soltanto sulle cose da fare. Ci vuole però un po’ di tempo perché già si impiega trent’anni della propria vita a capire come si fa a rilassarsi da soli, se poi bisogna trovare una misura comune, si fa un’ulteriore fatica. Risuonare rispetto alla Parola di Dio dovrebbe essere un’esperienza ecclesiale e non abbiamo più nemmeno lontanamente la misura del modo in cui questo si possa fare.

Nell’immediato dopo Concilio un po’ di tentativi a questo proposito erano stati fatti: le tante esperienze di revisione di vita, di gruppi del Vangelo. Spesso poi però queste esperienze ci hanno lasciati perplessi perché si sono dimostrate o troppo legate alla Scrittura o troppo legate alla vita e quindi ideologiche, perdendo così la Scrittura, o c’era qualcuno che faceva il capo popolo e tutti gli altri non partecipavano. Ci sono molte difficoltà per trovare dei luoghi in cui leggere ecclesialmente la Scrittura.

Chi vuole riflettere su queste cose dovrebbe leggere un bellissimo documento dei Vescovi italiani, praticamente sconosciuto, che si intitola “La Bibbia nella vita della Chiesa – La Parola del Signore si diffonda e sia glorificata (2 Ts 3,1)”. E’ un documento, scritto dalla CEI nel 1996, per vedere a che punto era la restituzione della Bibbia al popolo di Dio dopo il Vaticano II. E’un documento molto bello perchè prova a tracciare delle linee di cosa vuol dire passare da una lettura spirituale ad una lettura spirituale ecclesiale.

Dopo questa premessa torniamo al nostro tema.

Stiamo ragionando alla ricerca di un corpo per la parola, cristiani, chiesa e mondo. L’esperienza dell’appartenenza ecclesiale quindi non solo come un’appartenenza sociologica ma come l’esperienza di un corpo per la parola, la connessione tra la parola e la sua visibilità. Non è solo una questione morale ma la costruzione di un luogo dove la Parola di Dio sia incontrabile perché questo è lo scopo della comunità ecclesiale, in cui nella fraternità, nella parola letta sia possibile incontrare la Parola di Dio: questo devono fare la chiese nel tessuto del mondo: costituire dei luoghi dove si possa incontrare la Parola.

Per questo siamo partiti dal testo di Giosuè in ottobre, ragionando sulla questione dell’identità come “falso” punto di partenza per fare una comunità .

Poi abbiamo affrontato il testo degli Atti degli Apostoli: la questione di una comunità in attesa cioè come questa identità che mette insieme, che è quella dell’Antico testamento, di un popolo che si trasforma nell’attesa di qualcosa che faccia stare insieme non perché si è popolo ma per qualche altro motivo. Non c’è un’unica identità politica, non amiamo tutti la stessa musica, non tutti pratichiamo lo stesso sport e quindi stiamo insieme. La comunità costruita sull’identità non è il punto di partenza in realtà della comunità ecclesiale. Però in questo passaggio in cui gli umani si mettono insieme a partire dall’identità c’è un’attesa di una comunità che sta appoggiata su qualcosa che non è disponibile e forse non lo sarà mai.

Il terzo incontro abbiamo ragionato un po’, tornando all’Antico Testamento, sull’Esodo e la questione dei primogeniti, dove è adombrata l’idea che ci sia una comunità che si dà non tanto su un’identità posseduta ma su un dono, su un sacrificio: la figura di quello che poi sarà il sacrificio di Cristo. Stiamo cioè insieme perché qualcun altro ha fatto un dono così grande tanto che ci vincola. E’ un po’ la logica del film “Il concerto” dove il gruppo di musicanti non sta insieme, apparentemente se ne fregano tutti, ma si ritrova a suonare sulla memoria del sacrificio. Dal messaggino che viene mandato: “fatelo per Lea” tutti arrivano perché il sacrificio è inevitabile, è un dono impegnativo non per motivi morali, ma non ne possono fare a meno perché se si è fatto parte di quella vicenda, da lì in poi non è più come se non si avesse partecipato alla vicenda. Questo è il ragionamento degli apostoli all’inizio: hanno visto il Risorto e non possono far finta di non averlo visto. Dopo di che non sanno minimamente dove vanno a parare. Ma la comunità cristiana si costituisce su un sacrificio.

L’incontro di oggi è incentrato su un testo abbastanza lungo che non si legge praticamente mai nella Liturgia ordinaria e che ci dice: non è una questione di identità e quindi siamo in attesa non sapendo dove si va a parare. La comunità si costituisce sul sacrificio di un altro che non è evitabile, non è una scelta ma non sappiamo bene dove ci porta, cosa dobbiamo fare e allora noi cosa centriamo? Se non facciamo i catechisti o gli animatori parrocchiali o non abbiamo cinque sere alla settimana in parrocchia vuol dire che non faccio parte. Qual è la regola, il criterio secondo cui in modo incerto, senza sapere dove andiamo a parare, in forza di questo sacrificio, facciamo parte di questa comunità?

Il testo di questa Lectio è immediatamente preceduto (e la cosa è molto interessante) dall’inno alla carità (1 Cor 13): “Se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sarei come bronzo che rimbomba o come cimbalo che strepita…”. Solitamente si ha ancora in bocca il gusto buono di questo inno molto poetico sulla carità e quindi sembra una sparata fuori luogo quella che segue. In realtà invece Paolo, dopo aver fatto ragionamenti sulla carità, cerca di tradurre concretamente il tutto.

Il testo (1Corinzi 14, 1-13) prima parte

1Aspirate alla carità. Desiderate intensamente i doni dello Spirito, soprattutto la profezia. 2Chi infatti parla con il dono delle lingue non parla agli uomini ma a Dio poiché, mentre dice per ispirazione cose misteriose, nessuno comprende. 3Chi profetizza, invece, parla agli uomini per loro edificazione, esortazione e conforto. 4Chi parla con il dono delle lingue edifica se stesso, chi profetizza edifica l’assemblea. 5Vorrei vedervi tutti parlare con il dono delle lingue, ma preferisco che abbiate il dono della profezia. In realtà colui che profetizza è più grande di colui che parla con il dono delle lingue, a meno che le interpreti, perché l’assemblea ne riceva edificazione.

6E ora, fratelli, supponiamo che io venga da voi parlando con il dono delle lingue. In che cosa potrei esservi utile, se non vi comunicassi una rivelazione o una conoscenza o una profezia o un insegnamento? 7Ad esempio: se gli oggetti inanimati che emettono un suono, come il flauto o la cetra, non producono i suoni distintamente, in che modo si potrà distinguere ciò che si suona col flauto da ciò che si suona con la cetra? 8E se la tromba emette un suono confuso, chi si preparerà alla battaglia? 9Così anche voi, se non pronunciate parole chiare con la lingua, come si potrà comprendere ciò che andate dicendo? Parlereste al vento! 10Chissà quante varietà di lingue vi sono nel mondo e nulla è senza un proprio linguaggio. 11Ma se non ne conosco il senso, per colui che mi parla sono uno straniero, e chi mi parla è uno straniero per me.

12Così anche voi, poiché desiderate i doni dello Spirito, cercate di averne in abbondanza, per l’edificazione della comunità. 13Perciò chi parla con il dono delle lingue, preghi di saperle interpretare.

Storicamente c’è tutto un problema con la comunità di Corinto perché Paolo è alle prese con degli entusiasti, dei carismatici, che si gasano e poi si dividono, cioè gente come noi. Questa era una comunità che aveva preso molto sul serio l’annuncio della Parola dando fondo con entusiasmo alla fantasia e alla creatività. Diventando creativi diventano diversi e litigano dicendo: io sono di Pietro, io sono di Paolo ed è esattamente quello che succede nella nostra Chiesa. Con un piccolo particolare però e cioè che mentre noi che siamo dentro litighiamo il mondo brucia e cioè i quattro milioni che non sono lì, sono totalmente altrove. Quindi Paolo di fronte a questa situazione fa il ragionamento sulla carità e poi fa questo passaggino meraviglioso di concretizzazione. “Aspirate alla carità. Desiderate intensamente i doni della Spirito, soprattutto la profezia”. Questo versetto è un versetto di svolta perché se lo leggiamo in modo molto religioso, spirituale, arcaico, che vuol dire? Tutti abbiamo ricevuto i doni dello Spirito con la Cresima, soprattutto la profezia… Bisogna allora un po’ ricollocare questo versetto. “Aspirare alla carità”: se ci aspiriamo, non è una scelta. Io scelgo se aspirare alla carità o no ma una volta che ho scelto di aspirare alla carità, non è ancora fatta.

Noi siamo abituati a leggere la carità sempre in termini morali: se si è buoni e si decide di essere caritatevoli, poi lo è e se non si è buoni e si decide di non essere caritatevoli poi non lo è. Non funziona così perché la carità, come tutte le cose complicate della vita, è un processo. Io decido che mi piacerebbe avere la stessa carità di Dio e che questo è un desiderio per me così importante che ci posso mettere molto tempo in tensione, energia, attenzione nella mia vita perché mi sembra che varrebbe la pena che la mia esistenza avesse la misura della stessa carità di Dio. Tra qui e fatto passa tutta la mia vita. Io passo la vita ad aspirare alla carità. Perché la carità non è che io sono buono verso un altro ma è lasciare che il bisogno dell’altro svegli quella parte di me che non è in mio possesso. Questo è il meccanismo della carità. Abbiamo fatto varie volte questo ragionamento, questo rovesciamento. L’esempio che faccio sempre è quello delle madri che, quando i bambini sono appena nati o stanno per nascere, pensano di non farcela, di non reggere il non dormire la notte, di non essere all’altezza del compito di allevare un figlio. Poi il bisogno del loro figlio chiama normalmente in vita delle energie, delle risorse che loro stesse non sapevano di avere e che in genere poi non hanno più perché non sono loro ma sono tenute in vita dal bisogno dell’altro. Per questo Gesù dice che i poveri saranno sempre con noi perché i poveri ci salveranno. Il loro bisogno chiamerà in vita in noi la parte più divina, se noi lo vogliamo, che ci abita e che non è in nostro possesso. Non è una nostra scelta; tutti i santi dicono che non sono loro che aiutano i poveri ma che i poveri li salvano. Quindi “Aspirate alla carità” sarebbe questo: provate a mettervi in moto in modo da vedere, da ascoltare, da sentire il bisogno dell’altro. Certo, se io vado dritto per la mia strada, nessun bisogno mi incrocia e nessun bisogno chiama in vita in me niente e ognuno di noi può andare avanti facendo gli esercizi per non vedere. Allora si comincia a vedere prima solo il bisogno degli amici, di quelli a cui si vuole bene, la propria famiglia. Poi gli amici prima o poi ti tradiscono e quindi anche gli amici li escludiamo e non li leggiamo più in termini di bisogno ma sempre in termini di giudizio. Poi anche la famiglia: i figli… fai tanto per loro e poi…. E alla fine rimani da solo perché non vedi più il bisogno di nessuno. Aspirare alla carità significa fare l’esercizio contrario: sforzarsi di allargare la quantità di bisogno degli altri che leggo, che intercetto, che mi tocca, da cui mi lascio toccare.

Per questo Paolo lo mette in connessione col secondo passo: “Desiderate intensamente i doni dello Spirito”. I doni dello Spirito sono tutti doni di intelletto: sapienza, intelletto, consiglio, prudenza: non di intelletto nel senso di intellettualismo, di intelligenza scolastica ma di comprensione della realtà, di discernimento, di occhi sottili. Infatti ci sono anche la fortezza e la prudenza perché a volte per mantenere gli occhi aperti bisogna avere un bell’esercizio di fortezza perché alcune cose fanno paura, perché in certe occasioni si gira lo sguardo. Ci vuole molta prudenza per discernere i bisogni, per lasciarsi toccare mantenendo il proprio restare in piedi presso se stessi. Lasciarsi toccare e non lasciarsi invadere è complicato, ci vuole una buona dose di discernimento. I doni dello Spirito sono proprio per poter aspirare alla carità e per questo Paolo connette le due parti.

Fra i doni dello Spirito Paolo dice ci sia soprattutto la profezia. Noi abbiamo strane idee sulla profezia perché è una parola caduta in disuso e le poche volte che la usiamo per il profeta Isaia piuttosto che per Geremia, ci rimane in testa questo modello della profezia come di uno che vede il futuro, cugino di quello che fa i tarocchi, che invece del nome del destino, del fato, dei numeri al lotto, lo fa in nome di Dio ma più o meno il meccanismo è lo stesso. Non è così. La componente di futuro della profezia è esattamente la componente di discernimento. L’esempio che faccio sempre è questo: quando un professore dice a uno studente che se continua così sarà bocciato, non sta facendo una profezia nella palla di vetro ma sta dicendo semplicemente che se il suo comportamento è così, se i voti sono così e se prende qualche altra insufficienza , non c’è modo di tirarlo fuori da questa situazione. E’ chiaro che un professore, se non è un sadico grave, dice queste cose a uno studente non per bocciarlo ma esattamente per il contrario, per dargli una smossa perché lo studente faccia quello che è in suo potere per non farsi bocciare. La logica della profezia è questa, è una logica di discernimento, di una parola scambiata che mira a farti girare dalla parte migliore, a correggerti o meglio, per usare la parole di Paolo, “a edificare, esortare, confortare”. Oggi è abbastanza di moda, in ambito ecclesiastico, usare questo termine “profezia” nei modi più strani. Si dice profeti del nostro tempo per dire qualcuno che è molto progressista, che ha capito, detto, fatto, ha dato delle lezioni. Il che in una certa misura è vero: qualcuno che ha saputo guardare un po’ più lontano, che ha avuto un discernimento maggiore di quello che stava accadendo, che in qualche modo ci ha indicato alcune attenzioni da avere. Si parla di munus profetico per il Battesimo. Noi tutti riceviamo il munus profetico. “Fossero profeti tutti i figli e le figlie di Israele” dice il profeta Gioele. Cioè noi tutti abbiamo un dovere all’annuncio dalla Parola di Dio, che è un annuncio di discernimento della realtà, di giudizio e non di condanna. La Parola di Dio giudica per la conversione. Se continui così, ed è un giudizio, sarai bocciato: dunque fai in modo di darti una mossa. La profezia è anche oggi usata come sinonimo di annuncio. Io vorrei che qui noi la cominciassimo a leggere nel suo livello più basso, poi ognuno di voi può aggiungerci altri significati che ci stanno. Il livello più basso è che la profezia è parola scambiata tra credenti e di fronte ai non credenti per il discernimento del reale. In questo senso, Paolo ha ragione, soprattutto la profezia edifica la comunità. C’è un’identità che parte da un sacrificio, da un dono ricevuto che non è una scelta, si edifica soltanto nella misura in cui ci scambiamo una parola che di giorno in giorno ci fa capire verso dove andiamo perché nessuno è padrone del luogo verso cui andrà. Paolo fa immediatamente una contrapposizione che attraverserà tutto il brano fino alla fine. Fa la contrapposizione fra il dono delle lingue e la profezia.

Il dono delle lingue, che anche oggi i movimenti pentecostali praticano, è un’antica tradizione religiosa in generale, cristiana in particolare, con una fondazione simbolica che è la rottura di Babele, il fatto che a Babele le lingue si diversificano. Il progetto degli uomini di costruire una torre va a farsi friggere perché non si capiscono. Tutto questo rovesciato a Pentecoste dove gli apostoli predicano e tutti, Parti, Elamiti, capiscono. C’è però un particolare che ogni tanto sfugge ed è che, nel testo di Pentecoste, gli apostoli non parlano le lingue, loro parlano nella loro lingua e ognuno li capisce nella propria. E’ questa la ricostituzione contrapposta a Babele: ognuno ha il suo particolare ma i particolari si parlano, si capiscono. Non è che gli apostoli parlano tutte le lingue e fanno la traduzione simultanea. Come dice Paolo: se ognuno parla le lingue e nessuno capisce, è di nuovo Babele. Quindi dice che è bello parlare le lingue ma attenzione perché senza interpretazione non c’è edificazione. Dunque qui il problema è capire non in senso intellettuale, ma spezzare la logica di Babele che ci rende ciechi e sordi, incapaci di comprendere il bisogno dell’altro, espresso in una lingua che non riconosco e diventare invece profeti e cioè gente che sa esprimere un giudizio sul reale perchè sa comprendere ognuno la lingua dell’altro. Quindi la prima osservazione che fa è “chi parla con il dono delle lingue non parla agli uomini ma a Dio” perché, dato che nessuno capisce, solo Dio capirà. “Invece chi profetizza parla agli uomini per la loro edificazione, esortazione e conforto”. Se noi usassimo come criterio del nostro parlare con Dio “l’edificazione, l’esortazione e il conforto” staremmo tutti un pochino meglio perché le nostre parole avrebbero un altro peso.

Chi parla con il dono delle lingue edifica se stesso, chi profetizza edifica l’assemblea”. Questa è una frase molto dura. Chi parla con il dono delle lingue farà una cosa nobile, spirituale, ma la fa per sé; chi invece profetizza mette in circolazione una parola e dunque lo fa per gli altri. Fa vari esempi e alla fine, l’ultimo pezzettino: se non parlate con parole chiare, “come si potrà comprendere ciò che andate dicendo?… per colui che mi parla sono uno straniero e chi mi parla è uno straniero per me”. Quindi la questione della parola scambiata e la relazione che costruisce è rompere la logica dell’essere stranieri. Per questo la parola scambiata genera carità: perché costruisce relazioni.

Voi sapete tutti che questo tema delle parole per dirlo, della facilità di scambiarsi parole, della lectio come esperienza sulla parola è un tema che ha attraversato molto tutta l’esperienza dell’ Atrio dei Gentili e la primavera prossima ci sarà uno spettacolo dinuovo intorno alle parole. Non è una fissazione culturale, intellettuale ma è che l’asse portante di una comunità ecclesiale è la qualità delle parole scambiate. Noi diamo troppo per scontato che la questione di una comunità sia il contenuto di quello che si dice. Se facciamo una riunione e parliamo di Gesù Cristo va bene e non invece che la qualità ecclesiale, cioè l’esperienza del modo in cui la Parola di Dio si rapporta a noi, ci raggiunge, ci cura, ci salva. L’esperienza di questo si fa molto di più dal modo in cui le parole sono scambiate, dalla qualità delle parole scambiate che non dal loro tema. Questo noi lo sappiamo molto bene nella nostra vita: ci sono discorsi bellissimi, sapientissimi, che dicono tutte le cose giuste che non ci curano per niente. C’è invece una frase balbettata da un bimbo che ci cura. Il problema non è il contenuto ma la struttura dentro cui questa parola è scambiata. Ciò che edifica una comunità è la sua capacità di costituire luoghi, occasioni, tempi e modi di parole scambiate. Da questo punto di vista noi abbiamo aziendalizzato la nostra comunità cristiana: sono luoghi di iniziative dove le persone si dividono in chi le prepara e i potenziali utenti. Raramente l’iniziativa di chi prepara incrocia i potenziali utenti che il più delle volte vengono per farci un piacere. Non investiamo per niente a livello di adulti sulla costruzione della capacità di parole scambiate, di parole significative, vere. Diamo per scontato che le parole ci sono e le usiamo ma non è vero, perché la comunità cristiana non può accontentarsi di parole qualsiasi ma deve essere all’altezza della propria profezia, le parole devono essere vere, sul reale. Che aspirino alla carità non vuol dire incapaci di giudizio ma proprio il contrario: con un giudizio che edifica, esorta e conforta. Questo esercizio di parola, soprattutto tra adulti, in una cultura come quella in cui viviamo noi in cui il silenzio è una dominante, in cui diventare adulti significa nel novanta per cento dei casi diventare muti, cioè incapaci di dire i movimenti profondi della propria vita, mantenuti ad un livello di distrazione sufficiente per non avere mai il tempo per trovare le parole profonde sulla propria vita. Siamo incapaci di parlare di noi stessi se non in uno sfogo di cui poi ci scusiamo, incapaci di vincere la ritrosia di comunicare che non sia a livello di viscere che non è un modo dialogico. Può essere utile ma se noi buttiamo addosso semplicemente la nostra esperienza, se l’altro non è una bestia, l’unica cosa che può fare è assentire perché l’esperienza viscerale di un altro non si può giudicare. Ma noi passiamo dalle viscere alla teoria astratta e anche la teoria è totalmente indialogabile perché o è giusta o è sbagliata e il dialogo finisce. Il dialogo, la parola scambiata si costruisce esattamente in mezzo, in una parola vera che non è solo biografica, che non è solo teorica ma dove io posso costituire il luogo perché la sapienza dell’altro possa avere una voce.

Il testo (1Corinzi 14, 14-25) seconda parte

14Quando infatti prego con il dono delle lingue, il mio spirito prega, ma la mia intelligenza rimane senza frutto. 15Che fare dunque? Pregherò con lo spirito, ma pregherò anche con l’intelligenza; canterò con lo spirito, ma canterò anche con l’intelligenza. 16Altrimenti, se tu dai lode a Dio soltanto con lo spirito, in che modo colui che sta fra i non iniziati potrebbe dire l’Amen al tuo ringraziamento, dal momento che non capisce quello che dici? 17Tu, certo, fai un bel ringraziamento, ma l’altro non viene edificato. 18Grazie a Dio, io parlo con il dono delle lingue più di tutti voi; 19ma in assemblea preferisco dire cinque parole con la mia intelligenza per istruire anche gli altri, piuttosto che diecimila parole con il dono delle lingue.

20Fratelli, non comportatevi da bambini nei giudizi. Quanto a malizia, siate bambini, ma quanto a giudizi, comportatevi da uomini maturi. 21Sta scritto nella Legge:
”In altre lingue e con labbra di stranieri
parlerò a questo popolo,
ma neanche così mi ascolteranno,
dice il Signore”.
22Quindi le lingue non sono un segno per quelli che credono, ma per quelli che non credono, mentre la profezia non è per quelli che non credono, ma per quelli che credono. 23Quando si raduna tutta la comunità nello stesso luogo, se tutti parlano con il dono delle lingue e sopraggiunge qualche non iniziato o non credente, non dirà forse che siete pazzi? 24Se invece tutti profetizzano e sopraggiunge qualche non credente o non iniziato, verrà da tutti convinto del suo errore e da tutti giudicato, 25i segreti del suo cuore saranno manifestati e così, prostrandosi a terra, adorerà Dio, proclamando: Dio è veramente fra voi!

Non fatevi abbagliare dal linguaggio che è un po’ sovratono perché Paolo scrive ad una comunità di entusiasti quindi usa un linguaggio che a noi sembra esasperato. Vedete invece che problema c’è sotto: il rapporto tra l’intelligenza, la preghiera, i credenti e i non credenti ed è esattamente il nostro problema. Paolo dice che il dono delle lingue, questo fare i fuochi d’artificio, può servire per chi non crede per attirare l’attenzione, per rendersi visibili ma se quello è l’unica cosa che una comunità sa fare, chi arriva prende tutti per pazzi. Dice invece che la profezia è l’attività normale dentro la comunità: quello che noi facciamo tra credenti è l’esercizio di una parola scambiata perché solo così un non iniziato o un non credente arrivando scopre un’altra lettura dell’esistenza che deve essere supportata dall’intelligenza e viene da tutti convinto del suo errore e da tutti giudicato. Il versetto dice: “I segreti del suo cuore saranno manifestati e così prostrandosi a terra adorerà Dio proclamando: Dio è veramente tra voi”. Il giudizio di cui si parla non è la condanna, non è un giudizio morale, ma tutti gli consentono di sentire accolti i segreti del suo cuore. Quindi la reazione del lontano è quella di dire: veramente qui c’è Dio ed è esattamente l’esperienza che si dovrebbe fare incontrando una comunità cristiana. Incontrando una comunità cristiana ognuno dovrebbe poter dire di aver fatto esperienza di qual è il punto di vista di Dio. Per noi giudizio è sempre sinonimo di condanna e entrambi sono sinonimi di un dato morale. Invece c’è una grande distinzione: la profezia ce lo mostra. Per la profezia serve il giudizio, bisogna metterci testa e non tutto è uguale a tutto, bisogna avere il coraggio di dire che le cose funzionano in un certo modo oppure no perchè solo così, con una vita presa sul serio, potremo reimparare a fare in modo che i segreti del nostro cuore possano essere rivelati. Non sono segreti morali ma sono la fatica del nostro vivere profondo su cui ci sentiamo spesso profondamente soli perché è difficile condividere, non si improvvisa, perché ci pare che nessuno li potrà raccogliere. E’ in questa esperienza, il luogo dove i segreti del nostro cuore possono essere rivelati che noi facciamo l’esperienza che Dio è veramente lì. Ma questo richiede un giudizio, un’intelligenza; non è l’abolizione dell’intelligenza e del giudizio perché in una specie di mondo di melassa nessuno dice la propria ferita perché per dire la propria ferita bisogna avere la percezione che l’altro abbia più o meno un’esperienza che la vita è complicata.

Questo ragionamento che io trovo bellissimo è il luogo dell’edificazione della comunità: la comunità si costruisce sulla profezia come parola scambiata con intelligenza, discernimento e giudizio, perché la conclusione possa essere: Dio è veramente tra voi o siete trasparenti nel dire Dio di Gesù Cristo, si vede il Dio di Gesù Cristo. Non per motivi morali ma perché come la Parola di Dio in Gesù si è resa incontrabile così le parole scambiate di una profezia, di un’intelligenza rendono incontrabile il Dio di Gesù Cristo, diventano il corpo del Dio di Gesù Cristo.

Le iniziative del catechismo, della carità, dell’accoglienza, dell’oratorio che vanno benissimo, intorno a che cosa però trovano la loro luce, il loro senso? Dovrebbe essere che le persone, ad un certo punto della loro vita dovrebbero avere il desiderio di fare catechismo o l’oratorio o altro perché aiuta loro fare queste cose; invece siamo sempre nella posizione opposta: è un’azienda con troppo lavoro rispetto alla gente disponibile a lavorare. C’è qualcuno che fa il cireneo di turno, che sia il parroco o il responsabile della Caritas o altri, che insiste per chiedere l’impegno alle persone e alla fine molti cedono all’insistenza. Ma poi nel momento in cui non ti impegni più ti sembra, andando solo più a Messa alla domenica, di non appartenere più a quella comunità; come se il problema di appartenenza dipendesse dalle ore che trascorri lì. Il problema è opposto: quando noi diciamo che il centro della comunità cristiana è l’Eucarestia è perché la celebrazione liturgica eucaristica è il paradigma della parola scambiata per bene. La liturgia ci da il modello però teorico; accanto a quello la comunità dovrebbe avere dei luoghi concreti dove si fa questo esercizio di profezia e poi, certo, a partire da questo, tutto quello che ci viene in mente che possa servire va bene: dall’oratorio al catechismo ad altro. Io faccio parte di quella comunità perché per un certo tempo ho scambiato parole profetiche. Se la parola scambiata è vera non passa più. Abbiamo fatto tutti esperienza di amici che rimangono nel cuore anche se non li vediamo da dieci anni perché abbiamo scambiato con loro alcune parole vere, alcuni pezzi fondamentali della nostra vita. Si possono poi avere dei momenti dell’esistenza in cui non faccio nessuna attività particolare (catechismo ecc) e vado solo a Messa alla domenica, ma se c’è stato un tempo di parole scambiate vere, la mia appartenenza a quella comunità continuerà.

Fossano, 14 gennaio 2012

(testo non rivisto dal relatore)

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