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1 Aprile 2017
Stella Morra

6. Far abitare la pienezza

Commento a: Col 1, 3-29


Nel nostro percorso, questo penultimo testo dei Colossesi è più complesso rispetto ad altri testi che sono narrativi e si capiscono più facilmente. È tratto da una lettera di Paolo, quindi non è una storia ed è costruito con periodi lunghissimi. Avevo pensato di inserire questa lectio poco prima della Pasqua, perché mi sembrava un bell’accompagnamento nella Settimana Santa. È un testo che tiene insieme tutta la riflessione sull’abitare.

I brani precedenti su cui abbiamo ragionato avevano aspetti più narrativi. I primi tre brani descrivevano le dinamiche umane dell’abitare: Davide, Elia e il Salmo.

Davide con l’ambiguità del fare una casa ed avere una casa; Elia con l’avere una casa, che in qualche modo deve rimanere aperta, quindi con il problema se l’ospite che arriva è o meno un pericolo; il salmo su come si definiscono i “dentro” e i “fuori” della nostra esistenza.

Ci siamo poi dedicati alla descrizione fenomenologica delle dinamiche che riguardano tutti gli esseri umani rispetto a questo archetipo dell’abitare.

Nel prologo di Giovanni, Dio viene ad abitare in mezzo a noi ed è la vera novità cristologica. Non si ha più l’idea di un Dio che cerca la casa, ma un rovesciamento operato in Gesù Cristo: tutti gli umani cercano una casa (un riparo, un’intimità…). Dio, padre di Cristo, sta dalla nostra parte mettendosi anche lui a cercare una casa: “Piantò la sua tenda in mezzo a noi”. È l’incarnazione, Dio non solo diventa uguale a noi perché ha carne, ma si mette dalla nostra parte, si mette dalla parte dei nostri movimenti profondi.

Nel testo di Zaccheo abbiamo affrontato il problema di “passare la soglia”, abitare sulla soglia. A fronte dell’ambiguità di abitare, si riconosce la legittimità in Gesù Cristo di cercare una casa: “È legittimo cercare una casa, purché si abiti sulla soglia”.

Ma tutto questo a quale scopo? Perché dovremmo prendere sul serio la proposta di Dio in Gesù Cristo di metterci dalla parte dei profughi (è legittimo desiderare una casa)? Perché bisogna continuamente spogliarsi della propria casa – come Dio ha fatto in Cristo – e mettersi dalla parte della casa degli altri? Perché bisogna abitare sulla soglia?

Non ci basta rispondere “Perché Dio ha detto così”… questo non è il nostro metodo!

Noi cerchiamo nella stessa Parola di Dio il motivo. Dio nel Vangelo promette “il centuplo quaggiù e l’eternità”. Questa formula ci dice che non c’è solo il paradiso, ma anche il centuplo quaggiù.

La domanda che sta dietro a questo brano è “Perché abitare in questo modo?”, perché lavorare sul proprio desiderio di casa interiore ed esteriore e non lasciare semplicemente che questo desiderio cresca e trovi i modi per rispondervi, possibilmente modi “per bene”? La proposta di Dio in Gesù è quella di non fermarsi lì, ma di trasformare questo desiderio, da una parte in un movimento solidale (ovvero mettersi sempre dalla parte della casa degli altri) e dall’altra in un movimento che supera se stesso ed è capace di abitare la soglia e non solo la casa.

A quale scopo fare questo sforzo? Il testo di oggi, primo capitolo della lettera ai Colossesi, è la pietra di volta di questo percorso. Questo testo ci aiuta a capire perché fare questo sforzo, presentandoci un prototipo, ovvero il Cristo, colui che ha preso sul serio questa sfida, si è messo dalla nostra parte, è venuto ad abitare dalla nostra parte, ha accettato la condizione di profugo ed ha abitato una soglia con un piede verso di noi ed uno verso il Padre, sempre spingendo il proprio desiderio “oltre”.

Paolo ragiona su questa domanda: qual è lo scopo vero di avere una casa? Perché la pienezza possa abitarci, affinché possa essere contenuta, riconosciuta, goduta e usata la sovrabbondanza della nostra vita; non per difendere me né per tenere fuori gli altri, ma per avere un luogo di sovrabbondanza.

Premessa: il genere letterario delle lettere

Le lettere tramandate come “paoline” sono tendenzialmente quasi tutte precedenti o contemporanee alla stesura dei Vangeli. Sono, da un punto di vista cronologico, il primo nucleo di scrittura intorno a Gesù. In quanto appartenenti al genere letterario “epistola”, stanno dentro ad una relazione, ma non sappiamo se sono risposte o prime missive (alcune sono evidentemente delle risposte).

Differiscono notevolmente l’una dall’altra, ma generalmente tutte contengono una prima parte di insegnamento ed una seconda parte dedicata alle questioni concrete. Non sono Vangeli, cioè non narrano la vita di Gesù, ma sono un “dialogo”, cioè un testo in cui ci si rivolge a qualcuno. Spesso sottovalutiamo questo aspetto, perché per noi il genere “lettera” ha cambiato significato e quasi nessuno oggi scrive più lettere. Il nostro livello di comunicazione è cambiato, siamo diventati stringati, il nostro modo di comunicare è a frasi brevi con pochi caratteri perché altrimenti non veniamo letti.

Non dimentichiamo che nell’antichità c’era poca carta, pochi sapevano leggere e scrivere; inoltre lo scrivere era un atto formale di una certa importanza anche perché fare arrivare una missiva a destinazione dipendeva da fattori molto complessi. Nell’Impero Romano c’era un sistema postale più veloce del nostro (le missive dell’Imperatore arrivavano da Roma alla Bretagna in meno di due giorni, con un sistema di cambi di cavalli), ma riguardava principalmente i ricchi e la comunicazione da parte della gente comune non esisteva. Quando un viaggiatore andava da un posto all’altro veniva caricato di missive e doni per le persone presenti nel luogo in cui andava, la cosa però era occasionale.

Sono Paolo e i suoi discepoli a viaggiare molto, proprio per portare le missive. I collegamenti iniziali tra le comunità dell’evangelo venivano curati come un bene prezioso. Alcuni dei discepoli viaggiavano da una comunità all’altra e le lettere non erano solo lette dalla comunità a cui erano inviate, ma essendo così preziose, in genere venivano copiate per essere spedite a più comunità. Le lettere di Paolo venivano lette ad alta voce in occasione dell’eucarestia, così come avviene oggi con le letture della messa (anche se per noi sono un passo della Bibbia e non una semplice lettera, con conseguente spostamento dei valori simbolici).

Il genere letterario “lettera di Paolo” è sintetico, perché deve dire molte cose che stanno a cuore a chi scrive, importanti, in poco spazio, in fretta. All’epoca della Chiesa primitiva, durante le persecuzioni e anche dopo, non essendoci un sistema organizzato e centralizzato di Chiesa come abbiamo oggi (oggi per sapere se si è battezzati basta chiedere l’atto di battesimo alla parrocchia), l’uso era quello di scambiare delle lettere di comunione, che poi diventerà la preghiera del Credo. Si faceva una lettera in cui il presbitero di una chiesa informava su cosa aveva insegnato ai propri fedeli, e quello che portava la lettera credeva le stesse cose. Queste lettere di comunione erano un modo di riconoscersi reciprocamente.

Le lettere di Paolo sono tramandate con i nomi dei destinatari, che sono gli abitanti di una città (tranne quella a Filemone. La lettera ai Colossesi ad esempio era rivolta ai cristiani abitanti di Colossi.

C’è grande discussione se Paolo scriva solo alle comunità fondate da lui: non necessariamente ha rapporti personali con le comunità con cui scrive, anche se alcuni in alcuni testi sembrerebbe di sì: è proprio il caso della lettera ai Colossesi.

Il testo

Diversamente dalle altre occasioni, lo leggiamo a pericopi (e non tutto insieme).

1ª parte:

3Noi rendiamo grazie a Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, continuamente pregando per voi, 4avendo avuto notizie della vostra fede in Cristo Gesù e della carità che avete verso tutti i santi 5a causa della speranza che vi attende nei cieli. Ne avete già udito l’annuncio dalla parola di verità del Vangelo 6che è giunto a voi. E come in tutto il mondo esso porta frutto e si sviluppa, così avviene anche fra voi, dal giorno in cui avete ascoltato e conosciuto la grazia di Dio nella verità, 7che avete appreso da Èpafra, nostro caro compagno nel ministero: egli è presso di voi un fedele ministro di Cristo 8e ci ha pure manifestato il vostro amore nello Spirito.

Questo è un prologo abbastanza classico delle lettere di Paolo, con il suo stile tipico: egli comincia dicendo il bene, apre con un riconoscimento di comunione. Se leggete questo testo e poi gli inizi di alcuni dei documenti del Concilio Vaticano II sentite molte assonanze, perché consapevolmente i padri conciliari hanno deciso di dare al Concilio lo stesso tono iniziando dal buono e dal bello (e non dal rimprovero), prendendo a misura proprio lo stile di inizio delle lettere di Paolo.

Dal luogo in cui siamo – una casa o una soglia – guardare fuori è il buono e il bello. È una precedenza non solo logica, ma anche cronologica. A questo proposito l’istinto normale sarebbe “niente è come a casa mia”. Quello che ci viene chiesto di fare, mostrato come una forma della pienezza, è di rovesciare questo principio: tutto è buono e bello, tutto è l’occasione di un bene e di una benedizione, non ci sono nemici fuori, perché tutto è in mano a Dio. Per i cristiani delle origini, questa era una nota caratterizzante dell’esperienza cristiana: chi ha visto la Resurrezione non può più avere un altro atteggiamento. Quando si dice “in Gesù Cristo siamo fatti figli e dunque fratelli”, quello che si vuole dire è che abbiamo un legame inevitabile con tutto il resto ed è meglio che sia un legame di benedizione.

Nel merito costruisce una struttura che riprenderà al versetto 23 perché è inclusiva. La struttura è questa: “Noi rendiamo grazie a Dio, pregando per voi, avendo avuto notizie”.

Primo: rendere grazie (eucarestia), pregando, perché abbiamo ricevuto notizie della vostra fede, della carità a causa della speranza. Per prima cosa si rende grazie (benedizione), pregando perché ho ricevuto dagli altri una buona notizia, quella dell’evangelo, che è una notizia di fede e di carità a causa della speranza.

“Ne avete già udito l’annuncio dalla parola di verità del Vangelo”.

È di questo che avete ricevuto annuncio. Il Vangelo dice che si può vivere rendendo grazie, pregando, perché si è ricevuta notizia che tutto il mondo è sotto il segno della fede e della carità a causa della speranza. Qui bisognerebbe dire che la pietra d’angolo che regge tutto è “a causa della speranza”. Ovvero l’altro modo di dire – meno religioso e più antropologico – “a causa della resurrezione”, della vita che non finisce e quindi è sovrabbondante ed è motore di speranza. È la triade delle virtù (fede, speranza e carità): ora, sulla fede ci si interroga e sulla carità ci facciamo sensi di colpa, ma sulla speranza non ci si interroga molto. Ma è “a causa della speranza” che tutto il resto è possibile.

È ovvio che un bambino cresciuto in una casa sana, aperta, dove c’è una vita bella, è un bambino capace di sperare e che in prima battuta non è diffidente.

“Avete già udito l’annuncio della parola di verità e come in tutto il mondo esso porta frutto e si sviluppa, così avviene anche fra voi”.

Questo versetto afferma che è un modo di vivere concreto. In appendice c’è la figura di Èpafra, fedele ministro di Cristo. C’è qualcuno, fin dalle origini, che ha cura che questo accada. Egli serve Cristo facendo in modo che ci sia una casa dove possiamo imparare a sperare.

Qui si chiude il “prologo”.

2ª parte:

9Perciò anche noi, dal giorno in cui ne fummo informati, non cessiamo di pregare per voi e di chiedere che abbiate piena conoscenza della sua volontà, con ogni sapienza e intelligenza spirituale, 10perché possiate comportarvi in maniera degna del Signore, per piacergli in tutto, portando frutto in ogni opera buona e crescendo nella conoscenza di Dio. 11Resi forti di ogni fortezza secondo la potenza della sua gloria, per essere perseveranti e magnanimi in tutto, 12ringraziate con gioia il Padre che vi ha resi capaci di partecipare alla sorte dei santi nella luce.

Ancora una volta la lettera sembra ritornare sugli stessi temi, che però Paolo ripete a spirale: cioè ogni volta aggiunge qualcosa, sposta la prospettiva un gradino più su ripetendo gli stessi concetti.

“… non cessiamo di pregare per voi…”

Paolo riprendendo il tema del pregare. Per i cristiani la preghiera ha due caratteristiche: è rendimento di grazie (eucarestia) ed è preghiera per gli altri, cioè è la preghiera di richiesta insistente… per ottenere. Quando non c’è niente che posso fare, raramente ci viene in mente di pregare, eppure la speranza è proprio questo. Ci si può difendere e ritirare nella propria casa, ma possiamo sempre pregare per gli altri; è un gesto di speranza perché noi non sappiamo cosa fare, ma forse Dio può convertire i cuori, a maggior ragione delle persone di cui pensiamo che il cuore dovrebbe essere convertito.

“e di chiedere che abbiate piena conoscenza della Sua volontà con ogni sapienza e intelligenza spirituale”.

La conoscenza da avere è quella della volontà di Dio.

“Perché possiate comportarvi in maniera degna del Signore per piacergli in tutto, portando frutto in ogni opera buona e crescendo nella conoscenza di Dio. 11Resi forti di ogni fortezza secondo la potenza della sua gloria, per essere perseveranti e magnanimi in tutto…”.

Nel caso non avessimo capito aggiunge “portando frutto”. Si porta frutto “forti di ogni fortezza, perseveranti e magnanimi nella gioia”.

Questo è molto distante da quella mansuetudine falsa, debole e un po’ femminile, tipica del cristianesimo post ottocentesco; è invece un’immagine molto potente, le virtù richieste sono forza, perseveranza, magnanimità e gioia. La pienezza che ci abita e il frutto che viene portato non nasce dall’impegno, ma è ciò che si sperimenta. Lo scopo è appunto diventare forti, perseveranti e magnanimi nella gioia, perché vale la pena non subire il proprio desiderio di una casa, ma governarlo in una direzione cristologica, così come Gesù indica. Vale la pena, perché si vuole essere forti, perseveranti e magnanimi nella gioia. È un bel modo di vivere, perché a causa della speranza una persona non ‘si impegna’ ad essere forte, ma ‘si ritrova’ ad essere forte. È una cosa di cui tutti almeno in alcuni momenti abbiamo fatto esperienza.

3ª parte: è l’inno cristologico (versetti 13-20) chiamato così in quanto presenta il prototipo, cioè Cristo.

13È lui che ci ha liberati dal potere delle tenebre e ci ha trasferiti nel regno del Figlio del suo amore, 14per mezzo del quale abbiamo la redenzione, il perdono dei peccati. 15Egli è immagine del Dio invisibile, primogenito di tutta la creazione, 16perché in lui furono create tutte le cose nei cieli e sulla terra, quelle visibili e quelle invisibili: Troni, Dominazioni, Principati e Potenze. Tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui. 17Egli è prima di tutte le cose e tutte in lui sussistono. 18Egli è anche il capo del corpo, della Chiesa. Egli è principio, primogenito di quelli che risorgono dai morti, perché sia lui ad avere il primato su tutte le cose. 19È piaciuto infatti a Dio che abiti in lui tutta la pienezza 20e che per mezzo di lui e in vista di lui siano riconciliate tutte le cose, avendo pacificato con il sangue della sua croce sia le cose che stanno sulla terra, sia quelle che stanno nei cieli.

È uno di quei testi che bisogna studiare quasi a memoria, lasciando che le parole risuonino non solo per capirle intellettualmente, ma anche per gustarle come si gusta una poesia in cui oltre al significato l’effetto è dato dal suono, dalla successione dei vocaboli, dal ritmo, da un’immagine…

È lui che ci ha liberati dal potere delle tenebre e ci ha trasferiti nel regno del Figlio del suo amore, per mezzo del quale abbiamo la redenzione, il perdono dei peccati.

Si parte dalla dinamica luce/tenebre e si dice “Dio è venuto ad abitare in mezzo a noi nel suo Figlio per liberarci dal potere delle tenebre”. È una metafora per dire che non siamo costretti a stare nella nostra casa al buio con tutte le persiane chiuse. C’è chi campa in questo modo, con case chiuse e perfettamente in ordine, mentre in altre case sembra di essere direttamente nella strada.

“Liberati dal potere delle tenebre”, cioè liberati dall’ossessione del salotto buono. Il problema è la libertà interiore, che non ci si può dare per impegno, ma che si costruisce lungo l’esistenza… è il saper usare e abusare del salotto buono, fregandosene se il divano bianco si macchia. È un esercizio di libertà. Libertà “dalle tenebre” significa sentirsi liberi dall’ossessione di difendere sé stessi e le proprie risorse, significa vivere nella speranza che “ce n’è per tutti!”.

“Egli è l’immagine del Dio invisibile, primogenito di tutte le creature, perché in lui furono create tutte le cose nei cieli e sulla terra, quelle visibili e quelle invisibili: Troni, Dominazioni, Principati e Potenze”.

Questa è una similitudine che appartiene al mondo antico, oggi invece le cose invisibili le vediamo con i microscopi, i raggi x… Paolo cita Troni, Dominazioni, Potenze… angeli. Verrebbe da pensare che Paolo avesse tendenze “new age”. Ma qui troviamo il mondo antico (visibile e invisibile, cielo e terra) per dire che non tutto si trova solo lì. Noi diremmo: conscio/inconscio, ego/super ego; useremmo il linguaggio della psicanalisi per descrivere quello che dipende da me e quello che mi abita ma che non dipende da me, ovvero quello che mi ha segnato attraverso  educazione/traumi (cose visibili ed invisibili). Noi useremmo altre categorie di lettura, ma sappiamo molto bene che ci sono cose che si vedono, su cui abbiamo libera scelta e su cui ragioniamo, e ci sono cose imponderabili, che non dipendono da noi, che non sono calcolabili, sia in fortuna che in sfortuna (difficoltà). Il mondo non è mai tutto lì, così come la nostra vita non è mai tutta lì.

Per il pegno di una casa secondo Dio, il premio è una crescente libertà, cioè la possibilità di essere liberati dal potere delle tenebre nelle cose visibili ed invisibili, in ciò che dipende da noi ma anche in ciò che non dipende da noi, in ciò che facciamo e ciò che subiamo.

“Perché tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui, tutte in lui sussistono”.

Non c’è nulla al di fuori di Gesù Cristo. La casa che Dio ha stabilito tra gli uomini è grande come il mondo, nessuna delle cose che accadono (esseri umani o vicenda storica) è fuori da questa dinamica e quindi fuori da una logica di benedizione, nemmeno il male che si compie. Per questo si può essere forti, perseveranti e magnanimi nella gioia.

Continuiamo ad avere un’idea vetero-testamentaria del bene e del male, che è poi l’idea antropologica classica: quella secondo cui tutti gli esseri umani hanno un’etica fondamentale, anche se poi non sono d’accordo sui singoli contenuti; quella secondo cui alcune cose sono bene e altre sono male, per sé stessi e per gli altri; quella secondo cui tutti hanno davanti a noi due strade, il bene ed il male, come se noi fossimo un luogo terzo.

Quello che Gesù afferma è che nel momento in cui Dio ha messo la propria dimora in mezzo a noi, ha costruito una casa di benedizione e noi siamo già tutti dalla parte del bene, non dobbiamo fare nulla per arrivarci perché tutto è già lì. Possiamo essere più centrali o periferici, ma siamo nello spazio del bene. Certo, il male è possibile ed esiste, ma bisogna volerlo: facendo nulla siamo già nel bene. Il cristianesimo non è manicheo, cioè non esiste un Dio del bene ed un Dio del male; il demonio non è l’altro Dio, ma è la scimmia di Dio, una brutta copia. Nell’insegnamento tradizionale – l’ho detto più volte – per fare un peccato mortale ci vogliono alcune condizioni: piena avvertenza, deliberato consenso, materia grave. Per fare un atto di carità invece no; il regno di Dio è per un bicchiere d’acqua (che non è certo materia grave) e, secondo il Vangelo, è dato senza piena avvertenza e senza grande consapevolezza. In altre parole, si può essere buoni per distrazione, ma non si può essere cattivi per distrazione. Perché tutto è già dalla parte di Gesù Cristo.

Egli è anche il capo del corpo, della Chiesa. Egli è principio, primogenito di quelli che risorgono dai morti, perché sia lui ad avere il primato su tutte le cose.

Una volta stabilita la casa del mondo intero – il Regno – dentro questa grande casa c’è anche un corpo (la Chiesa) e lui è il capo di questo abitante. Si ridisegna il quadro generale.

È piaciuto infatti a Dio che abiti in lui tutta la pienezza e che per mezzo di lui e in vista di lui siano riconciliate tutte le cose, avendo pacificato con il sangue della sua croce sia le cose che stanno sulla terra, sia quelle che stanno nei cieli.

Qui c’è l’esito finale: “abiti in lui tutta la pienezza”. Questo “tutto” intorno a noi, che è benedetto, può essere riconosciuto come tale e diventa la pienezza di una libertà, che solo in Cristo è già compiuta e per noi si compirà l’ultimo giorno, ma è un esercizio di libertà.

Quando qualcuno mi chiede: “Cosa vuol dire essere cristiani?” in genere una delle cose che rispondo è che essere cristiani è qualcosa che si sa alla fine della vita: se una persona muore un po’ più libera di quando è nata, probabilmente era credente. Il benefit (centuplo quaggiù) è spazio e libertà, non aver sempre bisogno di strutturare una ideologia, un interesse, non dover bruciare tutte le energie per sé, ma guardare le cose dal punto di vista della casa degli altri, avere un’energia necessaria per essere solidali.

Ognuno di noi fa questa esperienza nella vita, quando comincia ad aggrovigliarsi in un periodo di fatica-stress-preoccupazioni e si avvolge su di sé nell’usare le proprie energie per nutrire gli stress, insomma una paranoia che si autonutre. Usa tutte le proprie energie, ne ha sempre meno e anche le cose belle non se le gode, perché è sempre lì che macina. Invece, quando si è più tranquilli e contenti, sembra sempre che capitino cose belle, si riesce a vedere positivamente quello che ci capita.

“…per mezzo di lui e in vista di lui siano riconciliate tutte le cose, avendo pacificato con il sangue della sua croce sia le cose che stanno sulla terra, sia quelle che stanno nei cieli”.

Il senso della vita è morire un po’ più liberi per aver fatto un po’ più la pace con i nostri desideri, con i loro limiti, con perseveranza e magnanimità, fedeli ai propri sogni. Ognuno di noi ha capito tutto della vita entro i 6 anni. Poi, fino alla fine della vita, si passa il tempo a fare la pace con quello che si era intuito. Rischiamo di perdere drasticamente lo sguardo di quel bambino amato e cresciuto in una casa che lo nutre, quello sguardo che si ha solo fin verso i 6 anni. Poi lo perdiamo progressivamente, impariamo a non essere più riconciliati, a non essere più grati, a non essere perseveranti e magnanimi come i bambini che possono essere cattivissimi ma che un secondo dopo se lo sono già dimenticati. Perseveranti, magnanimi e forti non vuol dire senza cattiveria. Da bambini la cattiveria non lascia scorie. È in seguito che cominciamo ad accumulare scorie negative che ci avvelenano.

4ª parte:

21Un tempo anche voi eravate stranieri e nemici con la mente intenta ad opere cattive che facevate, 22ora egli vi ha riconciliati per mezzo della morte del suo corpo di carne, per presentarvi santi e immacolate ed irreprensibili al suo cospetto; 23purché restiate fondati e fermi nella fede e non vi lasciate allontanare dalla speranza promessa nel vangelo che avete ascoltato, il quale è stato annunziato ad ogni creatura sotto il cielo e di cui io, Paolo, sono diventato ministro.

Paolo riprende gli elementi tranne la carità. Fede, speranza, Vangelo, ministro, ma non c’è la carità, questo perché la carità è la via del tempo, della storia; dopo semplicemente c’è la realtà. È l’esercizio necessario finché siamo qui, è la carità che Cristo opera verso di noi (misericordia la chiama  Papa Francesco) e che possiamo e dobbiamo operare verso gli altri. È il nome della casa.

L’ultimo versetto del testo, il 29 – “Per questo mi affatico e lotto, con la forza che viene da lui e che agisce in me con potenza” – è l’epigrafe, l’augurio per ognuno di noi…

Fossano, 1 aprile 2017

(testo non rivisto dall’autore)

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