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11 Febbraio 2017
Stella Morra

4. Venne ad abitare

Commento a: Gv 1, 1-18


Siamo al quarto passo del nostro percorso sul tema dell’abitare e in questo punto dell’anno siamo sempre più o meno al passaggio tra l’Antico e il Nuovo Testamento, tra i testi che ci introducono un po’ più nelle dimensioni antropologiche comuni a tutta l’umanità, circa le questioni su cui riflettiamo, e un po’ alla volta proviamo ad entrare in temi più cristologici, cioè più specificatamente legati alla novità portata da Cristo; anche se ovviamente queste due dimensioni sono sempre presenti e compresenti, non c’è negazione tra le due, ma questo è sempre il passaggio che scegliamo di fare passando dall’Antico al Nuovo Testamento.

I passi che abbiamo compiuto, solo per richiamarli, sono: il primo racconto, quello di Davide e della costruzione del tempio, sul tema dell’ambiguità possibile dell’abitare, del fatto che abitare non è di per sé avere una casa, un luogo, questo non è di per sé in automatico un dato positivo; il secondo era il racconto di Elia e la vedova e l’idea di un abitare sbilanciato, di un abitare che provoca, che ha bisogno di porte, quindi in qualche modo si può entrare e uscire e si può diventare fragili nei confronti di chi entra, o violenti nei confronti di chi non vuole essere lasciato entrare; e la volta scorsa il salmo 26, con una riflessione più sapienziale sul tema di come l’abitare stabilisce in qualche modo un dentro e un fuori, e l’idea della casa crea un’idea di confine, ma anche di periferia, cioè l’esperienza di un dentro e di un fuori finiscono per avere importanza in modo diverso.

Il testo di stasera è conosciutissimo prologo di Giovanni, cioè è l’inizio del Vangelo di Giovanni, è un testo molto noto, conosciuto a orecchio più o meno da tutti, con due caratteristiche particolari: una generale e una per noi.

Quella generale è che siccome nella liturgia viene letto solo nella Messa del giorno di Natale e dato che la maggior parte delle persone vanno alla Messa di Mezzanotte e non tornano poi al mattino alla Messa del giorno, rarissimamente lo sentiamo leggere nella liturgia, e quindi ci priviamo di una dimensione possibile di questo testo che è quello della proclamazione liturgica, e, come tutti sappiamo per esperienza, una cosa è leggere il Vangelo da soli o in un gruppo, e un altro conto è sentirlo leggere senza governarlo con gli occhi, ma dovendolo raccogliere solo con le orecchie in un contesto di celebrazione liturgica.

Apro una parentesi: una volta mi piacerebbe molto avere l’occasione, magari un’ora dopo la lectio, per ragionare un po’ sulla differenza, che mi sembra diventi sempre più importante, che c’è tra il governare un testo nella Bibbia con gli occhi o riceverlo con le orecchie. Normalmente diamo sempre l’accento sul capire, e teoricamente leggerlo o ascoltarlo è la stessa cosa, il problema è che la Parola di Dio va ascoltata, questa è la parola che noi usiamo sempre, e quello che facciamo nella quotidianità della nostra vita di fede, se va bene, è leggerla, non ascoltarla, e la piccola differenza, il piccolo particolare, è che leggere è un’azione individuale, ascoltare richiede di essere almeno in due: uno che legge a voce alta e l’altro che ascolta, e c’è dunque una certa differenza.

Per cui mi piacerebbe ragionare un po’ su queste cose, perchè è una di quelle piccole pratiche a cui non facciamo caso, ma che, come per esempio papa Francesco ci ricorda, sono pratiche quotidiane che ci conformano in un certo modo, cioè che non ci spiegano qualcosa, che non sono razionali, ma che alla fine se tu per 40 anni fai le cose in un certo modo, in automatico le pensi in un certo modo e le vivi in un certo modo, e se le fai in un altro le pensi in un altro. E quindi mi piacerebbe una volta ragionare su queste differenze tra leggere e ascoltare, ed infatti durante la celebrazione eucaristica qual è la moda contemporanea? È distribuire i foglietti e così tutti hanno il loro foglietto e controllano, perchè la nostra ansia di controllo, come contemporanei, è talmente forte, che non ce la facciamo ad ascoltare e basta, perché la questione è sempre: se poi chi legge, legge male ed essendo un po’ sordo perdo una parola? e se perdi una parola cosa succede? qual è la tragedia che si compie? Questa sarebbe una cosa su cui riflettere un po’.

La seconda caratteristica invece, che riguarda solo noi dell’Atrio, è che la prima volta che abbiamo fatto una Lectio su questo testo del prologo risale al dicembre del 1992 e quindi a 25 anni fa, e ciò vuol dire che questo testo ci ha accompagnato, ha fatto da basso continuo, in qualche modo, di un percorso che ormai ha una bella storia significativa. E per questo ho già detto tutto il dicibile su questo testo e quindi gli affezionati, quelli che sono degli antichi ascoltatori, sentiranno un po’ di ripetizioni, perché non è che si possono sempre dire cose nuove.

Premessa: il vangelo di Giovanni come un processo

Faccio solo una piccola premessa in generale sul Vangelo di Giovanni.

Il Vangelo di Giovanni per secoli (già è spiegato così nel “Nome della rosa” di Umberto Eco che raccoglie una tradizione molto reale, infatti non è inventata da Eco in quanto romanziere), considerando che la lettura della Scrittura era sconsigliata in genere ai laici, e addirittura da un certo punto in poi proibita, insieme all’Apocalisse era considerato pericoloso, perché contenendo un linguaggio un po’ più simbolico dal punto di vista letterario ed essendo più, noi diremo oggi concettuale, il termine non è esatto, un po’ più filosofico, era considerato doppiamente pericoloso, perché si prestava ad essere male interpretato.

In realtà sia il Vangelo di Giovanni che l’Apocalisse non sono, per noi moderni, affatto “difficili”, come vuole invece la teoria ottocentesca che sosteneva: “sai Matteo, Marco, Luca, raccontano degli episodi, delle storie più facili, è tutto molto più semplice, invece Giovanni ha tutti questi discorsi un po’ teorici, difficili da spiegare”. In realtà Giovanni e l’Apocalisse sono molto più facili per noi rispetto ai sinottici, per noi contemporanei, perché noi siamo figli inevitabilmente, anche chi è più grande tra noi, di una cultura visiva e il Vangelo di Giovanni e l’Apocalisse sono costruiti, dovremmo dire oggi, con una scenografia, come una sceneggiatura cinematografica, cioè sono dettagliati ma scritti per il regista e non per il lettore.

E lo sforzo da fare è immaginare la scena nel suo insieme, e sull’Apocalisse questo è molto visibile: ci sono centomila descrizioni, la coppa, l’altra coppa, il candelabro, le corna, le contro corna, ma il problema non è che cosa vuol dire ogni singolo particolare, che è una lettura non cinematografica ma analitica, perché ci si perde e spesso non vogliono dire granché, ma è l’effetto generale che va colto, e cioè quando si vede un film il problema non è: “che cosa vuol dire quella musica un po’ cupa”? L’abbassamento delle luci e lo scricchiolio della porta? Il problema non è cosa vogliono dire, ma quale effetto fanno, e se nel film c’è un momento buio con lo scricchiolio della porta e la musica cupa, vuol dire che sta per succedere qualcosa. Un film ben fatto non ci fa concentrare sulla porta, ma ci fa sentire l’ansia di cosa sta per accadere.

E questi due testi funzionano un po’ così, sono due testi che andrebbero letti per intero, di fila, proprio per ricavarne l’effetto, l’impatto quasi visivo.

In particolare il Vangelo di Giovanni ha una costruzione, una struttura molto chiara e appunto il suo impatto è altrettanto chiaro, ed è questo: il Vangelo di Giovanni è costruito sostanzialmente come un processo, un processo in tre parti più una.

Nei primi 6 capitoli si capisce bene qual è il processo, il processo è che c’è un imputato che è Gesù e la domanda, il capo di accusa è che si è fatto Figlio di Dio: è vero o no? E vengono portati tre testimoni per questo processo: il primo è il Battista, poi le prove dei miracoli, i segni costituiscono il secondo testimone di cui Giovanni parla tanto, e terzo è lo Spirito Santo che testimonia. Questi tre testimoni parlano, testimoniano, danno prova che questo processo accusa Gesù per essersi fatto Figlio di Dio, secondo gli accusatori, a torto.

Poi c’è il secondo blocco, dal VI all’XI capitolo, dal discorso eucaristico al miracolo della risurrezione di Lazzaro, che è un segno particolare, non sono più i segni tipo la guarigione di una malattia di un indemoniato e infatti la risurrezione di Lazzaro ce l’ha solo Giovanni e un altro tipo di segno è il discorso sul pane del cielo che anche è un segno particolare. E da questo punto si comincia un po’ ad ingarbugliare la questione e mentre si legge può sorgere un dubbio: ma siamo sicuri che l’imputato è Gesù? Ma con chi se la stanno prendendo? Che cos’è che bisogna dimostrare? Qual è il capo di accusa? E viene posta la domanda: Volete andarvene anche voi? E viene il sospetto che gli imputati siano i contemporanei di Gesù: ma questi hanno capito o non hanno capito?

E poi dal capitolo 11 in poi c’è la terza parte, lo spostamento, perché a quel punto Giovanni ribalta sul lettore, e la domanda diventa: voi chi dite che io sia? E non a caso si chiude con il famoso episodio dell’incredulità di Tommaso e con quel versetto redazionale: “beati coloro che senza aver visto crederanno”.

E quindi la questione è che l’indole processuale è su tutti coloro che leggeranno, da lì in poi, non è più questione dei contemporanei di Gesù, ma è: voi che opinione avete? Sembra uno di quei programmi televisivi tipo “Un giorno in pretura”: si descrive il fatto, poi si dice cosa pensano i vicini e gli amici e poi si chiede: voi che state a casa a guardare cosa ne pensate? Che sentenza avreste emesso?

Poi ci sono i capitoli 20 e 21 che sono la sentenza finale di tutta la questione, i capitoli delle apparizioni del Risorto sono una sentenza che ci riguarda, la sentenza è su chi ha risposto alla domanda: voi chi dite che io sia? non su Gesù, perché la risurrezione è la sentenza su Gesù; le apparizioni, e cioè quello che succede dopo la risurrezione, sono la sentenza su quelli che hanno risposto da “casa”; e non è un caso che il Vangelo di Giovanni è quello che narra il maggior numero di apparizioni del Risorto.

Allora questo solo per dire in modo molto veloce qual è lo schema.

Il prologo non a caso si chiama prologo, viene chiamato nelle redazioni prologo perché è un po’ l’antefatto di tutta la questione: è la lettura dell’imputazione, è proprio il programma di ciò di cui stiamo parlando. Qual è il fatto? Che cosa è successo? Paradossalmente nel Vangelo di Giovanni nei primi 18 versetti si dice tutto quello che è successo, la realtà è tutta nei primi 18 versetti, tutto il resto del Vangelo contiene motivazioni, testimonianze, prove e spiegazioni di quei 18 versetti, in cui tutto viene riassunto.

Tra l’altro ci dice che l’abitudine, quella che oggi si chiama post verità, di infiocchettare i puri fatti con tante altre cose, non è contemporanea, è molto antica. E questo dice che i puri fatti non esistono, cioè la pura descrizione della realtà non dice ancora niente se non ci si mette intorno tutto quello che questo significa.

In qualche modo dunque il prologo è scansionato nello stesso modo in tre parti: ciò che riguarda Gesù, ciò che riguarda i suoi contemporanei, ciò che riguarda noi ed in ultimo la sentenza. È la stessa struttura in qualche modo del Vangelo, perché dice qualcosa di Gesù, dice che cosa nella storia è successo e poi dice quella che noi oggi chiameremmo la cristologia, cioè qual è la rilevanza di quello che è successo a Gesù rispetto a noi oggi, e poi alla fine la sentenza.

È esattamente la stessa struttura del Vangelo.

Ovviamente è un testo studiatissimo fin dall’antichità, perché è anche un testo molto fascinoso e di conseguenza si potrebbe parlarne molto a lungo. Come ogni volta e come ogni testo, vale per tutti i testi, ma a maggior ragione in questo, io scelgo una linea di lettura, alcune sottolineature che sono da una parte legate al tema, dall’altra legate a me che faccio questa lectio: ognuno di voi farà tesoro di alcune cose, ne aggiungerà altre sue, farà un po’ il suo lavoro rispetto a questo testo. E allora questo è un po’ lo stato dell’arte.

Il salto qualitativo dall’Antico al Nuovo Testamento con questo testo è di un’evidenza assoluta. L’Antico Testamento è una narrazione, è un racconto bello, interessante, vitale, coinvolgente, a volte brutto, certe volte violento, a volte difficile, è proprio un racconto, ha il carattere di narrazione.

Nel prologo del suo vangelo Giovanni dice qui c’è un’altra storia: venne ad abitare, c’è un corpo, non a caso questo brano di vangelo si legge a Natale, c’è un salto di qualità, c’è un passaggio dal parlarsi al condividere spazio e corpi da parte di Dio.

Questa questione mi fa sempre venire in mente che, fino a un po’ di tempo fa nella tradizione piemontese, quando due erano fidanzati si diceva “si parlano”. L’espressione un po’ dialettale per dire che due stavano insieme, oggi si dice come in tutta Italia stanno insieme, ma una volta si diceva: “quei due si parlano”.

Ed era un modo per dire che la relazione di parola è come il primo passo, è un fidanzamento, è una relazione, cioè che dato che nel cuneese, come si sa, la parola non è una delle nostre doti perchè siamo tutti abbastanza sul silenzioso, parlarsi è già compromissorio, dire delle cose un po’ ad alta voce significa in qualche modo stabilire una relazione compromessa, coinvolgente. Poi però i due si sposano e la differenza fondamentale è che quando due si sposavano era che andavano ad abitare insieme.

È una struttura bellissima perché è stessa struttura del vangelo: ci sono narrazioni, l’alleanza tra Dio e il popolo è fatta di parole e di storie, avere una storia, appunto, parlarsi, poi c’è un punto, che è un punto qualificante, che non c’è senza quello prima, che non si inventa da zero, c’è un punto in cui la situazione da fidanzati in cui dopo essersi incontrati ognuno torna a casa propria non funziona più, e si ha bisogno di condividere un luogo, uno spazio e un corpo, con tutto il bello e il brutto che poi questo comporta, perché all’inizio è una cosa molto bella e poetica, dopo si sperimenta in termini abbastanza brevi che condividere uno spazio, ad esempio, è un rischio di crescita di violenza molto alto, perché stando in uno spazio stretto l’aggressività può crescere ed è molto più facile andare d’accordo con quelli che vedi soltanto al lavoro, perché poi a un certo punto quelli li lasci, invece quello che poi la sera hai sui piedi diventa faticoso.

Allora questo passaggio è esattamente il passaggio segnato dal prologo, è talmente chiaro per Giovanni che il centro del prologo è quel versetto 14:

“il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi”.

Ora se evitate di farvi venire in mente l’immagine di Gesù bambino è meglio, nel senso che l’aver connesso questo al Natale e averlo connesso ad un’idea un po’ melense del Natale, è molto pericoloso. Fatevi invece venire in mente il panico pre-matrimonio, è diverso, perché è questa la questione, consiste in tutti i dubbi: oh, Dio, farò bene, sarò giusto, sarà la persona giusta che mi aspetterà? E anche la fatica post, che è quella del “tutto bello, però”? C’è tutta una misura da riprendere di sè e dell’altro che riguarda in genere cose minute, cose molto del tipo: “perché schiacci il dentifricio dalla metà del tubetto e non dal fondo?”, che possono essere niente e insieme molto pesanti, perché è esattamente riprendere misura di uno spazio abitato e abitato non solo più da me. E questo richiede, per dirlo in modo teorico, un equilibrio estremamente faticoso tra io e noi, perché non si può azzerare l’io: non va bene, non è giusto, ma mantenendo i due io bisogna anche mantenere un noi, perché se no ci si ammazza dopo poco. Quindi è un gioco abbastanza complicato.

Ecco “il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi”, riguarda il corpo e la casa.

Il testo

1In principio era il Verbo,
e il Verbo era presso Dio
e il Verbo era Dio.
2Egli era, in principio, presso Dio:
3tutto è stato fatto per mezzo di lui
e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste.
4In lui era la vita
e la vita era la luce degli uomini;
5la luce splende nelle tenebre
e le tenebre non l’hanno vinta.
6Venne un uomo mandato da Dio:
il suo nome era Giovanni.
7Egli venne come testimone
per dare testimonianza alla luce,
perché tutti credessero per mezzo di lui.
8Non era lui la luce,
ma doveva dare testimonianza alla luce.
9Veniva nel mondo la luce vera,
quella che illumina ogni uomo.
10Era nel mondo
e il mondo è stato fatto per mezzo di lui;
eppure il mondo non lo ha riconosciuto.
11Venne fra i suoi,
e i suoi non lo hanno accolto.
12A quanti però lo hanno accolto
ha dato potere di diventare figli di Dio:
a quelli che credono nel suo nome,
13i quali, non da sangue
né da volere di carne
né da volere di uomo,
ma da Dio sono stati generati.
14E il Verbo si fece carne
e venne ad abitare in mezzo a noi;
e noi abbiamo contemplato la sua gloria,
gloria come del Figlio unigenito
che viene dal Padre,
pieno di grazia e di verità.
15Giovanni gli dà testimonianza e proclama:
«Era di lui che io dissi:
Colui che viene dopo di me
è avanti a me,
perché era prima di me».
16Dalla sua pienezza
noi tutti abbiamo ricevuto:
grazia su grazia.
17Perché la Legge fu data per mezzo di Mosè,
la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo.
18Dio, nessuno lo ha mai visto:
il Figlio unigenito, che è Dio
ed è nel seno del Padre,
è lui che lo ha rivelato.

Non so se la mia lettura, non particolarmente felice ed efficace, vi abbia consentito di vedere l’immagine e di non pescare immediatamente nelle interpretazioni religiose di tutti questi temi, di cui tutti abbiamo la memoria piena, invece di vedere la figura, di vedere il film. Provate veramente in questo mese, quando magari siete soli, a leggerlo a voce alta, ascoltare dalla vostra stessa voce, proprio per vedere il film, cioè vedere il quadro, perché sia un piccolo capolavoro prezioso, ci sono ottimi motivi per cui è così famoso.

In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio

In questo testo c’erano due problemi di traduzione. Dopo la nuova versione della Bibbia del 2008 ce n’è uno solo. Un problema l’hanno risolto e questo che c’è, secondo me è irrisolvibile in parte, perché è troppo forte e hanno deciso di lasciarlo com’era.

Il primo è proprio questo “in principio”. In italiano noi non abbiamo distinzioni linguistiche che ci consentono di distinguere i tipi di inizio, in principio o inizio sono tutti considerati più o meno sinonimi.

In ebraico c’è una parola, che è quella che Giovanni fa risuonare in greco, ma è molto chiara nella testa di suoi ascoltatori e corrisponde alla parola che c’è all’inizio di Genesi 1,1: bereshit, che è un principio molto particolare, è proprio quello che i filosofi chiamano l’archè, un principio assoluto, ontologico, prima del quale non c’è niente, il principio ex nihilo aggiungeranno i latini, che parlando della creazione diranno la creazione dal nulla, perché già passando nel latino non c’è più questa parola così assoluta e quindi devono aggiungere qualcosa dopo per dire: guardate prima non c’era niente.

Invece per Giovanni è ancora chiaro, perché i suoi ascoltatori sono di cultura semitica o greco semitica, che qui la parafrasi, l’effetto scenico è riscrivere Genesi 1,1, cioè ricominciare la storia dalle origini. Giovanni ha la pretesa nella sua opera che questo “in principio” è l’archè, e maranathà, che è l’ultima parola di Apocalisse, vieni Signore Gesù, chiude tutta la narrazione della storia, e riscrive la storia dell’umanità e dunque della sua alleanza con Dio.

E per questo il prologo in tutta la prima parte è intessuto di risonanze e di immagini dell’Antico Testamento, di immagini, di richiami, è appunto un film, è come se nella scenografia del film voi vedeste sullo sfondo la stessa insegna dello stesso negozio che si era visto nel primo tempo, non parla di quello che è successo nel primo tempo, ma la vostra mente, i vostri occhi registrano una connessione.

Allora però siccome noi lo leggiamo in traduzione consideriamo la connessione sostanzialmente. In questa riscrittura del mondo Genesi diceva: “in principio Dio creò il cielo e la terra” e questa è una cosmogonia classica, cioè è un impianto molto comune all’epoca in cui quel testo veniva scritto, al posto del nome di Dio che usavano gli ebrei si poteva scrivere Giove, piuttosto che Gilgamesh, piuttosto che …, ma l’idea è un Dio che sta da qualche parte, in alto in genere, che con modalità diverse e le modalità diverse fanno la differenza, dice: vediamo di arredare questo cosmo che mi sembra un po’ vuoto e comincia a creare, cioè la logica è quella comune del tempo, cioè la logica è quella di una creazione che purtroppo è talmente forte antropologicamente che a noi viene in mente anche rispetto a Giovanni, e quindi quando leggiamo “In principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio” quello che ci viene immediatamente in mente è non c’era soltanto Gilgamesh o Giove lassù, c’era Lui e il signor verbo che si guardavano negli occhi ed era una noia mortale e annoiandosi da morire hanno deciso di creare il mondo, cioè spostiamo questo racconto di Giovanni sul modello della creazione.

Invece quello che vuole fare Giovanni è il contrario, cioè vuole dire quel modello là della creazione non è proprio giustissimo, dobbiamo leggerlo in Gesù se vogliamo capirlo, lui vuole prendere quel modello e cambiarlo, non prendere Gesù e spostarlo indietro.

Pensate molto semplicemente che nella nostra tradizione più classica noi abbiamo questa idea che ancora sussiste, che sarebbe Dio Padre e Creatore, e cioè sarebbe quello con la barba bianca che sta sulle le nuvole, che è deputato per l’Antico Testamento, che sta lassù ecc., poi c’è il figlio che è il Redentore, perché il Padre va in pensione e allora viene il Figlio ed è il Redentore e poi il Figlio scende dal cielo e manda lo Spirito Santo, che è il santificatore che sarebbe quello che è rimasto a bottega adesso, cioè manteniamo lo stesso schema cosmogonico applicato ai tre personaggi.

Invece quello che Giovanni ci dice è: “no, no, attenzione, questo matrimonio cambia la prospettiva, perché se prima Abramo era amico di Dio eravamo amici, ognuno stava a casa sua, andava bene così, Dio stava in cielo, faceva l’Onnipotente, difendeva il suo popolo, schiacciava i nemici, applicava la legge, faceva quello che fanno gli dei. Come funziona un dio? Così, perfetto e già però era carino perché era nostro amico, era il Dio nostro amico.

Qui c’è stato un passaggio, perché questa amicizia piano piano è diventata un fidanzamento e adesso è un matrimonio, e quindi lui non sta più lassù, la prospettiva è un’altra, sta qui, abitiamo la stessa casa e ricomincia tutta la storia, perché chi se ne importa che la prima volta di quando ci siamo conosciuti lo possiamo ricordare una volta così per pura nostalgia, ma quello che conta è da quando campiamo insieme, anche quando ci siamo conosciuti diventa un’altra cosa, anche quando eravamo solo amici però in fondo io ti avevo già notato, cioè rileggiamo alla luce di quello che è successo dopo quello che è successo prima.

Quindi questo “In principio” è abbastanza decisivo, perché lui dice quell’impostazione non funziona e cioè che Dio fa il Dio che sta lì e dà la legge, dà un’alleanza, se non sbagliate vi premia, ma “in principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio”, cioè in principio, lo dico con termini moderni, tutti gli esegeti mi ucciderebbero e avrebbero ragione, però per spiegarmi in fretta faccio una traduzione un po’ veloce, in principio c’è una diversità perfettamente riconciliata, c’è già una pluralità: Dio non è da solo, ci sono già dei più ma talmente più che sono la stessa cosa, cioè in principio c’è il desiderio che ci abita tutti, che sarebbe l’immagine di Dio posta in noi e cioè ci si parla, si riesce a dire esattamente quello che si sente, quell’altro capisce esattamente quello che dico e alla fine siamo tutti e due contenti: questa sarebbe l’immagine di Dio posta in noi dalla creazione.

All’inizio c’è questo uscire da sé attraverso una parola, che coincide perfettamente però con l’ in sé, cosa che agli umani non succede praticamente mai ed essere ricevuti da quell’altro, perfettamente come si è detti e dunque come ci si sente, altra cosa che non succede praticamente mai, ma esattamente in modo coincidente, reale, in modo tale che quell’altro si sente esattamente come mi sento io, pur rimanendo quell’altro, che sarebbe il desiderio profondo che ciascuno di noi ha, che ci sia almeno una persona al mondo che sia così riposante per cui mettere insieme l’io e il noi non sia faticoso.

Questa sarebbe una traduzione un po’ ruspante del mistero della Trinità, però funziona così, cioè ci viene detto in qualche modo che il Padre è l’identità di Dio, il Figlio è la sua parola, cioè lo sbilanciarsi di questa identità verso l’esterno, verso ciò che non è lui, ma è perfettamente Dio, cioè non è una Parola che esprime, ma è ciò che è, è ciò che Dio è, e lo Spirito è colui che fa ricevere questa Parola con perfetta comprensione. Per questo i doni dello Spirito Santo sono intelletto, consiglio, cioè capacità di capire.

Questa perfetta coincidenza è in principio e dunque una coincidenza plurale, ma benedicente, aperta verso l’esterno, perché una parola è il nostro sbilanciarsi verso l’esterno, ogni parlarsi, dicevamo, prima è compromissorio, i cuneesi lo sanno bene, cioè è un modo per cui la parola e lì, si vede, dice, nomina, gli altri la sentono, possono capirla, non capirla, essere d’accordo, non essere d’accordo, ti esponi in qualche modo.

E dato che Giovanni ha molto chiaro che siamo tutti un po’ testoni, mette i sottotitoli, cioè dice questa cosa, la dice benissimo dal punto di vista letterario, però dice a scanso di equivoci, due punti:

“tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste”,

in una volta sola dice il legame è la creazione, tutto è stato fatto, ma dice anche un’altra cosa: tutto, e casomai non avessimo capito, nulla è fuori da questa cosa, tutto sta in questo desiderio benedetto, cioè si comincia con la grazia originale, non con il peccato originale, prima del peccato originale c’è la grazia originale.

Traduco: uno dei brani più famosi che gli ebrei devoti recitano tutti i giorni è il brano del Deuteronomio che dice: metto davanti a te due strade, il bene e il male, scegli quello che vuoi percorrere. E questa è una buona logica di etica umana, c’è una legge, quello che secondo la legge è buono, quello che è contro legge è cattivo.

Giovanni dice no, non è così, funziona in un altro modo, se uno sta fermo e non fa niente, sta già dentro il bene, è per fare il male che bisogna far qualcosa, non siamo in un posto neutro con davanti un bivio, siamo in un luogo benedetto, in una casa benedetta, e se non creiamo problemi, se stiamo lì tranquilli, stiamo bene. Bisogna fare un’azione positiva, cioè voluta, scelta, ecc., per uscirne fuori.

I sinottici dicono questa cosa in un altro modo, ma la dicono ugualmente; la tradizione della Chiesa dice che per fare un peccato grave ci vuole piena avvertenza, materia grave e deliberato consenso, per fare un atto di carità no, anzi il regno di Dio è per un bicchiere d’acqua, che non è materia grave e in Matteo 25 i giusti dicono: quando Signore? Non se ne sono neanche accorti, il bene si fa per distrazione, basta non concentrarsi troppo.

Questo è il nuovo principio che chiude alla fine:

“la legge ci fu data per mezzo di Mosè, la grazia è la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo”, non sono contrapposti, ma sono veramente due punti di vista diversi, perché un conto è se uno è fuori della casa, e dice va bene, quale delle due strade mi porta a casa? E un conto se uno è a casa e deve uscire, ma finché sta lì, sta al sicuro.

Sono due punti di vista molto diversi, è un nuovo “in principio” ed è l’”in principio” stabilito dal fatto che Dio non ha solo più parlato, ma che ha preso carne ed è venuto ad abitare.

E non c’è niente, nulla, che sia fuori da questo, nulla.

Quello che Giovanni ci dirà in modo anche drammatico, è che nemmeno il male è fuori da questa logica, cioè che rimane un male possibile, ma l’adultera in Giovanni 8, tutti i racconti degli incontri che riguardano ciechi, peccatori, la samaritana, gli stranieri, tutti quelli che di per sé sarebbero fuori, e la cui domanda sarebbe: come fanno a rientrare a casa? sono tutti, nel Vangelo di Giovanni, figure della fede, perché sono già lì, niente è fuori da questo.

Qualche rischio c’è da parte di discepoli, che infatti nel vangelo di Giovanni fanno sempre la figura dei tonti, cioè sono sempre quelli nel posto sbagliato, Gesù ha sete e loro gli vanno a comprare da mangiare, cioè sono sempre un po’ fuori sintonia, in fondo i discepoli sono talmente convinti di essere al posto giusto che fanno la figura dello zio quello un po’ strano di famiglia, di cui si sa che lo zio è fatto così e ce lo teniamo così, e va bene; però gli abitanti veri della casa sono l’adultera, la samaritana, Nicodemo, cioè tutti questi tipi di personaggi, ed è questo il nuovo “in principio”.

Per brevità non cito Papa Francesco e tutti i suoi ragionamenti sui poveri, ecc. i poveri non perché sono santi ci evangelizzano, ma i poveri perché esistono, perché sono come sono, perché sono i veri padroni della casa.

“In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini, la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta”

Qui c’è il secondo problema di traduzione che fortunatamente l’edizione CEI del 2008 ha finalmente corretto. Prima si diceva “le tenebre non l’hanno accolta” inducendo a causa della traduzione latina di Girolamo una lettura di ordine moralistico, la luce è venuta e le tenebre sono cattive, invece il testo originale e che oggi viene molto meglio espresso dice: ”la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta”.

Le tenebre e la luce non sono paritetiche, perché il buio smette di essere pieno se viene acceso anche solo un cerino, una lucciola interrompe il buio totale, la luce vince sempre, perché il buio per essere totale ha bisogno di essere veramente totale, mentre la luce sopporta degli angoli bui, in una stanza illuminata ci può essere un angolo meno illuminato e quella stanza rimane illuminata, e per questo il buio non vincerà mai, perché per l’appunto basta una lucciola.

Vorrei fare ancora notare che “in lui era la vita e la vita era la luce degli uomini”, non la vita eterna, la vita piena, termini che Giovanni conosce e che userà. Non la vita santa, la vita cristiana, la vita spirituale, era la vita e basta: liberiamoci dalla sovra struttura troppo religiosa.

Quando si dice che Gesù è la vita e la vita è la luce degli uomini si dice la vita quella normale, le cose che facciamo, la vita che in sé trova la propria potenza, la propria forza, la propria ricchezza, la propria trascendenza, direbbero i filosofi, nessuno di noi è così bestia da non avere un sentimento per il proprio cagnetto. La vita è così, la vita ha la sua anima, perché Dio ci ha creati così e niente è fuori da questo, e c’è un desiderio di una parola perfettamente detta, perfettamente ricevuta, che almeno una persona al mondo sappia come mi sento.

E questa è la luce, questa vita è la luce, la vita che trova in sé, nei frammenti in cui ciascuno di noi ogni giorno, ogni sera, ogni mattina per alzarsi trova all’interno della propria vita un piccolo motivo per tirarsi su dal letto, in questo c’è la nostra luce che a volte è poco più di una lucciola e in certi giorni fortunatamente è anche un sole splendente, non ha sempre la stessa intensità, ma è tutto ciò di cui abbiamo bisogno, che la vita nostra continui ad essere abitata da un desiderio, da quel desiderio originario.

“Venne un uomo mandato da Dio il suo nome era Giovanni”.

Qui c’è il secondo passaggio della struttura del Vangelo di Giovanni. Come tutti sappiamo questa frase è stata spesso applicata a Giovanni XXIII, perché è chiaro che questa frase riguarda chiunque: venne un uomo, una donna, un bambino, un ragazzo, un anziano, il suo nome era … e la vera questione di chi viene è dare testimonianza alla luce.

Abbiamo cominciato a ragionare un po’ sulla testimonianza, su cosa significa la testimonianza. L’immagine sia pure ammodernata della logica da crociati della testimonianza è io so e tu non sai e io adesso ti spiego, poi una volta era ti spiego e se non sei d’accordo ti uccido, poi è diventato ti spiego e se non sei d’accordo comunque vai all’inferno, poi via via si è un po’ modificata, oggi siamo tutti un po’ più tolleranti, più democratici e diciamo è un invito, è un dialogo, ti ascolto persino, però alla fine io so e tu non sai, questo è il succo finale.

Ecco questa logica ovviamente non ha niente a che fare con questo discorso, perché la luce non è una cosa che si sa, la luce si vede, e non dipende da me, io ci ho provato però se uno di noi va fuori e dice sia la luce, non è come nella scrittura, e la luce fu, perché gli riesce soltanto a Dio, se noi diciamo sia la luce non succede niente, perché essere testimoni della luce significa sapere che siamo testimoni di qualcosa che è già lì, è già in azione, il sole sorge sui buoni e sui cattivi e sorge tutte le mattine finché sorgerà e poi un giorno non sorgerà più, ma non possiamo fare niente, possiamo solo rovinare un po’ il pianeta per cui il sole sorge ma non ci saremo più, però il sole ha la sua potenza.

Nel seminario di quest’estate avevamo ragionato sul significato del dare testimonianza e credo che comprendere il senso della testimonianza da questo punto di vista sia decisivo: la testimonianza della casa che abitiamo. Se ognuno di noi fa un attimo mente locale a quante volte gli è capitato nella vita di avere una certa impressione su una casa, su una famiglia, su un matrimonio proprio o altrui e poi scoprire quanto quell’impressione fosse giusta o sbagliata, o quante volte si è preoccupato dell’immagine della propria casa rispetto agli altri, dalla pulizia all’ordine, forse possiamo cominciare ad avere una vaga idea di come è serio il problema della testimonianza, che non è un fatto di discorsi religiosi, ma è una delicata esperienza di che cosa si vede del segreto che ad es. ogni matrimonio è, e che cosa noi pensiamo di dover presentare: il salotto buono, o la cucina, o la stanza dei ragazzi, perché gli altri sappiano di noi, chi facciamo entrare e dove. Credo ci sia un bel panorama per riflettere sulla testimonianza.

“Il mondo è stato fatto per mezzo di lui eppure il mondo non lo ha riconosciuto”,

Giovanni non è ingenuo e sa che c’è un aspetto drammatico, ma non ha un giudizio in questo, perché il giudizio spetta a Dio, ma riconosce che c’è un aspetto drammatico dell’esistenza, che a un certo punto bisogna non semplicemente conoscere, ma riconoscere che abitare la stessa casa comporta constatare lo spazio dell’altro e anche il proprio.

E questo ha sempre una certa componente di drammaticità, sempre, perché, è ovvio, ogni riconoscimento comporta il riportare alla luce un equilibrio tra dentro e fuori, che è sempre un po’ faticoso, perché mi dice della mia parzialità, perché mi dice che io non sono tutto.

Bisognerebbe ragionare su cosa vuol dire “ha dato il potere di diventare figli di Dio” ma per ora lo lasciamo.

Il versetto centrale:

“Il Verbo si è fatto carne ed è venuto ad abitare in mezzo a noi e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come del Figlio unigenito che viene al Padre pieno di grazia e verità”.

Questo è il versetto architrave, il passaggio tra il capo d’accusa, la collocazione storica, e ciò che riguarda noi. Ho già detto che corpo e casa sono i segni di un matrimonio, che cambia completamente la prospettiva anche su ciò che è stato prima, e che qui c’è di più: noi abbiamo contemplato la sua gloria.

Vi faccio notare che non si dice “capito la sua gloria”, perché noi leggiamo abbiamo contemplato e pensiamo capito in genere, e a questo proposito faccio sempre la stessa battuta e cioè vi faccio notare che nella tradizione della Chiesa c’è la festa del Sacro Cuore, ma non la festa del Sacro cervello, a nessuno è mai venuto in mente, e c’è un motivo e cioè il problema è quello che vediamo, non quello che capiamo, e anche in una casa funziona così, capire in genere viene molto dopo, e poi verbalizzare viene ancora dopo, ci mettiamo mesi a capire delle cose, ma le vediamo subito.

Poi le rimuoviamo, facciamo finta di non aver visto, cerchiamo di sopportare, facciamo una serie di strategie, perché, è chiaro, bisogna pur vivere, ma di per sé il luogo della verità sono gli occhi, perché non si può non vedere quello che si vede.

“Noi abbiamo contemplato la sua gloria”. Anche qui per gli ascoltatori di Giovanni c’è una forte risonanza dell’Antico Testamento, la gloria è la shekinà, la presenza di Dio nel suo popolo, che è una presenza mai neutrale.

Se qualcuno vuole divertirsi può leggere il bellissimo libro che già citavo nel ‘92 che è un libro vecchio, ma molto bello, che si chiama “Una nuvola come tappeto” di Erri De Luca. Nel tradurre i testi della peregrinazione del popolo nel deserto, lo scrittore quel racconto lo traduce così: “la gloria di Dio accompagna il popolo del deserto”, non risolve i suoi problemi tranne in caso di disperazione o quando proprio il popolo non ce la fa più, ma li accompagna con una colonna di fuoco di notte per dare luce e la gloria di Dio, così traduce De Luca, si fa nuvola, una nuvola come tappeto, che per un popolo di beduini, che abitavano nelle tende fatte di stoffa, è molto chiaro cosa vuol dire una nuvola come tappeto, che gli fa ombra di giorno mentre camminano sotto il sole accecante nel deserto.

Questa è la gloria di Dio secondo l’Antico Testamento e quello che Giovanni dice è “noi abbiamo contemplato la sua gloria”, non la sua glorificazione, cioè Gesù vincitore dell’ultima battaglia messo in trono, ma la sua gloria, il suo accompagnare la storia degli uomini.

E questo sarà un altro tema costante del Vangelo di Giovanni: Gesù cammina sulle strade degli uomini e delle donne del suo tempo. E praticamente tutte le cose gli succedono per strada, su questo di evangelisti sono molto concordi, al massimo in un giardino, in casa non gli succede mai quasi niente, in casa per esempio ci sono pochissimi miracoli: la suocera di Pietro o quando gli scoperchiano la casa a Cafarnao per calare il paralitico.

E le cose a Gesù succedono per strada, perché Gesù ha messo la sua casa nella storia degli uomini, la nuvola come tappeto ha costruito una casa itinerante, un luogo che accompagna.

“Colui che viene dopo di me è avanti a me”,

questo versetto in questi anni è diventato molto importante anche dal punto di vista della mia riflessione teologica, ma ovviamente prima di tutto nella mia vita personale come credente, ed è l’idea a cui Vaticano II ci invita, che mi diventa sempre più chiara e mi diventa sempre più chiaro quanto è importante che il Vangelo è sempre davanti a noi; perché noi abbiamo sempre un po’ l’idea che il Vangelo è qualcosa che è accaduto nel passato e che quindi noi dobbiamo studiare, conoscere, cercare di tornare alle origini, avere un’idea di ri-forma, ritrovare la forma evangelica, purificare la Chiesa per tornare al Vangelo, ecc., ecc., e questo implica in sé che ciò che nel passato è dato, che è lì, il problema è che questa è la vicenda di Gesù terrena, che sì è accaduta nel passato, i racconti di questa vicenda sì sono stati scritti nel passato, tutto questo è nel passato, ma il Vangelo no, il Vangelo è sempre davanti a noi, perché noi siamo tutti i Giovanni: il meglio deve ancora venire, noi siamo tutti Simeone e Anna, un bambino viene portato per la presentazione al Tempio e questi due vecchioni che aspettavano la salvezza di Israele lo riconoscono, e si sbilanciano su un futuro che probabilmente non vedranno, e hanno la tipica reazione da maschio e da femmina, che al contrario dell’archetipo fa sì che il maschio resta lì, Simeone fa tutte le sue scene da sacerdote, e la donna esce fuori e va a parlare della gloria di Gerusalemme a tutti coloro che attendevano la sua salvezza, dopo essere rimasta una vita nel tempio esce, le donne, si sa, vanno sempre al mercato a parlare.

E noi siamo sempre lì, siamo sempre sulla soglia del vedere, contemplare, vedere la gloria che ha la forma di un bambino, quindi una gloria ambigua, irriconoscibile, e di dire verrà, ciò che tarda accadrà. Il Vangelo è sempre colui che viene dopo di me, che è avanti a noi fin dall’origine del mondo, perché tutto è stato fatto in lui, ma contemporaneamente è sempre davanti, ancora da compiere, ancora da ricevere, ancora da capire, ancora da vedere. La compagnia che Dio ci farà domani non l’abbiamo ancora vista.

E dunque, ultimo pensiero, la sentenza:

“Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto grazia su grazia, perché la legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vengono per mezzo di Gesù Cristo. Dio nessuno l’ha mai visto, il Figlio unigenito che è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato”.

Ricordate sempre che rivelato non vuol dire spiegato, ma vuol dire velato due volte, ri-velato, il mistero nascosto nei secoli in Dio è nascosto in un bambino, nel figlio del falegname, il tema dell’ambiguità della storia permane intatto, ma dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto e grazia su grazia. Per questo siamo gente che spera, non perché siamo ingenui, ma perché la sentenza è scritta, è grazia su grazia, è una sovrabbondanza della grazia, non è grazia solo una volta, è la sovrabbondanza della grazia. Perché la legge è stata data da Mosè, la grazia viene da Gesù e dunque la logica non è più la legge: in principio è cambiato tutto.

Domande e risposte

Il Logos e sulla possibilità di poter comunicare perfettamente, tra uomo e Dio e anche tra uomo e uomo.

È una domanda platonica su un’immagine non platonica e quindi non funziona.

L’idea della comunicazione è proprio l’uscita da una definizione di tipo platonico, e quindi è chiaro che nella nostra esperienza l’idea è che Dio è ciò che fa, e se Dio è ciò che fa e fa ciò che è, ovviamente questa è una immagine che descrive Dio, è un modo di descrivere quelle che si chiamerebbero le processioni intra trinitarie, cioè il modo di essere di Dio, non in chiave di terminologia dell’essere, ma in chiave di un’immagine di comunicazione, che essendo l’immagine di Dio posta in noi fin dalla creazione è anche il nostro desiderio profondo.

Però questo è una lettura storico salvifica, non platonica, tentare di farla funzionare secondo i canoni platonici … cioè detto in modo più semplice in fondo la potenza di un certo tipo di teologia, catechesi, filosofia, eccetera, degli ultimi dieci secoli ci ha conformato, anche per quelli che non sanno di filosofia, ma delle logiche, delle domande, delle questioni ci scattano in automatico, invece Vaticano II prova a ridire l’interezza della fede secondo una logica storico – salvifica, che è proprio un’altra logica, un altro punto di vista, ed ogni volta che noi facciamo funzionare questa logica storico – salvifica da una parte ci sembra più vera, più bella, più significativa, ma dall’altra ci vengono le obiezioni del sistema opposto che è il sistema degli ultimi 10 secoli, che volere o no abbiamo interiorizzato, per esempio questa radicale distinzione che si chiamava trascendenza tra uomo e Dio, per cui ci sono delle cose che valgono per Dio e delle cose che valgono per l’uomo, ma di per sè quello che noi sappiamo dalla scrittura è che l’uomo è creato ad immagine e somiglianza, che non significa identità in termini platonici, ma significa che il nostro desiderio profondo rimane la totale conformazione al mistero di Dio, che è anche la matrice posta in noi e quindi è un desiderio in qualche modo insoddisfatto o insoddisfacibile durante la storia, ma è il nostro destino e questa però è una logica storico salvifica che è un altro criterio rispetto alla logica platonica e quindi paradossalmente ciò che vale per Dio, tra virgolette, vale per noi e viceversa, cioè c’è una correlatività, non uguaglianza, c’è un legame molto stretto tra ciò che in Dio si mostra come realtà e ciò che noi si dimostra come desiderio, spesso come desiderio ambiguo e contemporaneamente c’è una stretta correlazione tra ciò che in Dio si esprime come grazia, cioè come dono e ciò che in noi si esprime come desiderio talvolta come desiderio ambiguo.

Sulla questione del processo

È un’idea interessante di giustizia perché esce da alcuni schematismi, perché la sentenza modifica chi la emette non chi la riceve, che in fondo è immodificabile per dirla platonicamente, questa è la logica un po’ paradossale.

Sulla testimonianza

Tendenzialmente facciamo tutti vedere il salotto pulito e chiudiamo le porte dalla parte dove c’è disordine, cioè la tendenza normale è quella di mostrare la parte più compiuta, più chiara, più bella e quindi noi saremo tentati di testimoniare l’esperienza della fede spiegando, dicendo quello che abbiamo capito, dicendo le belle cose che sono successe; c’è un piccolo particolare e cioè nel Vangelo di Giovanni quelli che testimoniano davvero sono gli sfigati e quindi la testimonianza è quella della povertà.

Francesco dice solo perché facciamo l’esperienza di avere bisogno di ricevere misericordia, possiamo essere misericordiosi, è la cucina disordinata che immette nell’affetto di una famiglia, non il salotto buono con il nylon sulle poltrone. Solo che su questa cosa la Chiesa ha sempre un po’ di difficoltà, per cui, per dirne semplicemente una, tendiamo sempre a spiegare il cristianesimo come una cosa che funziona, che ha tutte le risposte, e discutiamo con le persone più o meno conflittualmente per spiegargli tutte le cose.

Io credo che non ci sia testimonianza migliore del discorso che Francesco ha fatto all’ospedale “Bambin Gesù” di Roma (guarda Papa Francesco udienza  Ospedale Bambino Gesù), di fronte al personale, ai bambini malati… A un certo punto uno gli ha chiesto: “perché c’è il dolore degli innocenti? Perché questi bambini soffrono così? Noi ne vediamo ogni giorno, non ne possiamo più…”. Ed il papa ha risposto: “non lo so”, e l’ha ripetuto tre volte e ha detto “Volete saperne di più? Neanche Gesù lo sapeva”, solo che questo non è proprio il salotto buono, ci va un po’ di coraggio per dire che questo Dio ogni tanto è proprio strano e la nostra vita ha degli angoli d’ombra, di drammaticità, che ogni tanto pensiamo: ma è possibile che sia così? allora in questo senso per esempio cioè un filone di riflessione: cosa vorrebbe dire avere il coraggio di testimoniare le cucine disordinate, e che potenza ha questa testimonianza?

Fossano, 11 febbraio 2017

(testo non rivisto dall’autore)

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