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8 Dicembre 2012
Stella Morra

3. I segni nelle cose

Commento a: Is 11, 1-9


Premessa

Richiamiamo il percorso che stiamo facendo: siamo partiti dal testo di Siracide sulle cose che stanno a due a due una di fronte all’altra, sul tema della necessità dell’essere in una relazione per poter capire il segreto dei segni che si capisce a due a due e non da soli. Poi l’altra volta il primo testo di Isaia, capitolo 7, quello famosissimo: “la vergine darà alla luce un figlio” in cui ragionavamo sulla generatività dei segni.

Oggi ancora un testo di Isaia dal capitolo 11 sempre dal primo Isaia. Richiamo quello che già avevo detto la scorsa volta: il libro di Isaia è un libro composto di almeno tre grandi parti che vengono tradizionalmente attribuite a tre diversi autori perché Isaia aveva una vita profetica di grande risonanza e quindi sotto questo nome vengono posti tre blocchi probabilmente di tre mani diverse e sicuramente di epoche molto diverse. Questi tre blocchi hanno toni, linguaggio e tematiche abbastanza diverse.

I due brani che noi vediamo in questo percorso di lectio, quello del capitolo 7 e quello del capitolo 11, sono entrambi della stessa parte, la prima, forse la parte più antica del testo e sicuramente la parte più profetica e cioè la più visionaria, che guarda al futuro, che cerca di interpretare le cose ma anche che, alla luce delle cose che capitano, tenta di darsi un orizzonte interiore e in alcuni casi, noi diremmo, utopico. Entrambi i testi si usano molto nella liturgia di Natale perché sono testi tipicamente messianici e cioè hanno la prospettiva dell’attesa del Messia abbastanza forte.

Vorrei dire una parola per la relazione tra il titolo e il testo. Il titolo che ho scelto è I segni nelle cose perché qui dietro ci sono domande e anche abitudini di risposte che sono molto comuni anche se spesso non esplicitate quando ragioniamo sui segni e sul riconoscere i segni.

L’esempio più classico è quello già accennato all’inizio: la tendenza, la tentazione di cosificare i segni, cioè di scivolare dal discorso della lettura, dell’interpretazione della lettura della storia come un luogo dove Dio parla e dunque che in qualche modo va raccolta, interpretata, trasformata, compresa, fino a farla diventare una specie di ossessione tra lo scaramantico, il magico arrivando ad una superstizione esasperata in cui ogni cosa è un segno.

Ovviamente questo è una sciocchezza che però in genere ha dei motivi. Le sciocchezze sono diffuse non perchè le persone sono sciocche ma perché sono la rielaborazione  a volte deformata di qualcosa che esprime un’esigenza reale.

Dobbiamo quindi interrogarci del perché c’è questa tensione tra il segno tutto interiore che dipende da come lo interpreti e il segno totalmente cosificato, dunque superstizioso.

Tra questi due estremi, il totalmente dentro e il totalmente fuori, noi siamo chiamati a fare lo sforzo di stare in mezzo senza perdere né il dentro né il fuori.

Per questo Gesù rimprovera i discepoli nel versetto che è anche il titolo che abbiamo dato al percorso: “Sapete dunque interpretare l’aspetto del cielo e non sapete distinguere i segni dei tempi?” (Mt 16,3).

Non è un’operazione facile perché bisogna stare su questo crinale per cui spesso si dice che dipende da come lo interpreti: se sei depresso lo interpreti male, se sei euforico lo interpreti bene, tutto dipende da se stessi.

Questo non è riconoscere la Parola di Dio che parla. Oppure andiamo all’altro estremo in cui in una sorta di meccanicità, di automatismo in cui ogni cosa ha un significato indipendentemente da noi, da Dio, dal mondo, dalla storia.

Proviamo quindi a camminare su questo crinale abbastanza stretto, tenendo conto che c’è un interno e un esterno e cioè che c’è una realtà ed è quella che va interpretata e dunque bisogna vederla, riconoscerla, descriverla. C’è però anche un soggetto che interpreta che non può essere solo una sorta di vocabolario umano, per cui ci deve essere una corrispondenza automatica tra il segno e il significato.

Il testo

1Un germoglio spunterà dal tronco di Iesse,

un virgulto germoglierà dalle sue radici.

2Su di lui si poserà lo spirito del Signore,

spirito di sapienza e d’intelligenza,

spirito di consiglio e di fortezza,

spirito di conoscenza e di timore del Signore.

3Si compiacerà del timore del Signore.

Non giudicherà secondo le apparenze

e non prenderà decisioni per sentito dire;

4ma giudicherà con giustizia i miseri

e prenderà decisioni eque per gli umili della terra.

Percuoterà il violento con la verga della sua bocca,

con il soffio delle sue labbra ucciderà l’empio.

5La giustizia sarà fascia dei suoi lombi

e la fedeltà cintura dei suoi fianchi.

6Il lupo dimorerà insieme con l’agnello;

il leopardo si sdraierà accanto al capretto;

il vitello e il leoncello pascoleranno insieme

e un piccolo fanciullo li guiderà.

7La mucca e l’orsa pascoleranno insieme;

i loro piccoli si sdraieranno insieme.

Il leone si ciberà di paglia, come il bue.

8Il lattante si trastullerà sulla buca della vipera;

il bambino metterà la mano nel covo del serpente velenoso.

9Non agiranno più iniquamente né saccheggeranno

in tutto il mio santo monte,

perché la conoscenza del Signore riempirà la terra

come le acque ricoprono il mare.

E’ un testo molto conosciuto, abbastanza usato nella liturgia nel tempo di Natale ma non solo, spesso citato come testo messianico.

E’ però un testo meno facile di quello che sembra. E’ lineare ma non facile: ha un ragionamento abbastanza chiaro, limpido ma con un procedere abbastanza strutturato.

Il testo è anche l’inizio del capitolo e come sempre il versetto 1 di ogni capitolo è una specie di titolo, di proclama.

Il versetto 1 dice:  Un germoglio spunterà dal tronco di Iesse, un virgulto germoglierà dalle sue radici.

E’ come una specie di riassunto delle due puntate precedenti e cioè ci dice che c’è una condizione per tutto ciò che segue perché si realizzi un regno messianico, perché sia possibile che le cose mostrino la loro vera realtà, siano segno di se stesse.

Questa condizione è una nascita e una radice e le due cose insieme sono abbastanza interessanti. Credo che tutti quelli che hanno un  po’ frequentato la chiesa hanno sentito questo versetto migliaia di volte ma forse non ci si è mai fermati un attimo a pensare alla duplice valenza che ha.

Al catechismo ci spiegavano che Gesù discende da Iesse che è il padre di Davide. Anche nel primo capitolo di Matteo nella genealogia si riparte da Iesse e poi si dice che Giuseppe prese Maria e da Maria nacque Gesù. Però noi sappiamo che Gesù non è figlio di Giuseppe e quindi non è del germoglio di Iesse, non discende dalla famiglia davidica. Nella realtà ci viene detto proprio quello che questo versetto dice: un nuovo che nasce da un antico. Ci vuole una nuova nascita che abbia una lunga radice. Gesù materialmente non ha l’apporto genetico della stirpe di Davide ma in quella radice si pone, raccoglie la tradizione ebraica e soprattutto interpreta la tradizione profetica di Davide, re sapiente, che ha cura del suo popolo. Ha questa radice antica ma contemporaneamente segna totalmente il nuovo, appartiene ad un’altra nascita.

Insisto molto su questo perché questa è la condizione per cui succeda ciò che viene dopo. Ogni volta che nella storia dobbiamo riconoscere dove Dio parla, bisogna chiedersi, come condizione previa, qual è il nuovo che stiamo cercando e da quali radici: stabilire qual è la genealogia che ci ha generato e contemporaneamente qual è la radicale novità.

Avevamo detto negli incontri precedenti che la radice è la nostra comune natura umana ma abbiamo anche detto che bisogna generare un figlio, far venire fuori una cosa nuova che ci superi, ci sporga verso un’altra libertà. Questa è la condizione di partenza.

Di questo germoglio si dice: “Su di lui si poserà lo Spirito del Signore, spirito di sapienza e di intelligenza, spirito di consiglio e di fortezza, di conoscenza e di timore del Signore.”

Questi sono sei dei sette doni dello Spirito Santo; il settimo è la pietà che è il penultimo tra conoscenza e timor di Dio. Questo stesso testo nella traduzione in greco e dalla vulgata in latino aggiunge la pietà perché, per il mondo greco e quello latino, la pietas era un valore molto forte che no poteva essere dimenticato. Noi abbiamo condensato, nel Medioevo, in queste sette parole i doni dello Spirito Santo.

La sapienza cristiana dice che quello che serve per vivere è avere con sé lo spirito di Dio che garantisca l’interno.

L’interno non è la mia interpretazione, la mia sensibilità ma è garantito dallo spirito di Dio. Per questo nei sacramenti, a partire dal Battesimo, ci viene detto che viene su di noi lo spirito di Dio che ci fornisce gli attrezzi che coprono una parte dell’esperienza fondamentale della vita umana.

Questi attrezzi sono: la sapienza che ci fa capire cosa è importante ed è cioè il dono del discernimento, l’intelligenza; il consiglio che è la capacità di consigliare, cioè la capacità di intuire non solo per sé ma anche per gli altri la strada; la fortezza, la conoscenza, la pietà come capacità di compatire, di mettersi dal punto di vista dell’altro, di sentire ciò che l’altro sente; il timor di Dio che vuol dire saper distinguere ciò che compete a noi e ciò che compete a Dio, avere il senso della nostra misura che non è né troppo alta né troppo bassa, non troppo alta per rendersi conto che non siamo Dio ma neanche troppo bassa nel sapere che c’è una parte della storia che è nelle nostre mani, nella nostra responsabilità.

Questi sette doni coprono una parte importante dell’esperienza umana, ma solo una parte. Non danno, per esempio, nessuna rilevanza alla produttività. Sono tutti doni d’interpretazione, di occhi, di anima, di spazio, di ampiezza di cuore, di capacità di avere molti registri di comprensione e di inter-relazione, di avere una certa libertà interiore, di non essere ideologicamente attaccati all’unica spiegazione che abbiamo trovato e che ci sembra l’unica da salvaguardare. E’ la capacità di stare di fronte alle cose con finezza di spirito.

E’ come se ci venisse detto che tutti i doni dell’interpretazione, del discernimento, del capire, del sapere, dell’interpretare col cuore, con la pietas e non solo con l’intelligenza e della fortezza necessaria per non diventare cinici e delusi, ci vengono dallo Spirito ed è ciò che ci serve per vivere, per fare il nuovo da una radice.

“Si compiacerà del timore del Signore”. Compiacere è un verbo che nella tradizione cristiana ha assunto un valore negativo in termini morali perché in genere è applicato al compiacersi di se stessi. In realtà nella sua radice non necessariamente ha questo valore: dipende da in cosa ci si compiace.

Se ci si compiace di se stessi, dei propri averi è negativo. Ma qui si dice che questo germoglio si compiacerà del timore del Signore e ciò significa sapere, come dicevo prima, qual è il mio luogo e qual è il luogo di Dio: essere consapevoli del valore che Lui ci ha dato e contemporaneamente sapere qual è il Suo compito. Leggendo queste parole, mi viene spesso in mente l’espressione: saper stare al proprio posto. Questa è una delle grandi fatiche dell’essere adulti perché noi siamo spesso fuori misura: troppo o troppo poco, o non valiamo niente o pensiamo di aver risolto tutto.

E’ necessario avere la consapevolezza di sé, del proprio valore, del proprio limite e della propria unicità, sapendo che quando ci addormenteremo in pace avremo davanti a Dio quella vita e non un’altra da un lato ma dall’altra parete sapere che la nostra vita è solo una tra le tante vite che abitano questo pianeta.

E’ importante quindi saper stare al proprio posto nel senso più forte, più bello del termine: stare al proprio posto lasciando che Dio sia al Suo.

Il nuovo che esce dalla radice: stare al proprio posto davanti alla storia con l’attrezzatura di partenza.

Quindi ora l’attenzione del testo si può spostare sulle cose.

Non giudicherà secondo le apparenze e non prenderà decisioni per sentito dire ma giudicherà con giustizia i miseri e prenderà decisioni eque per gli umili della terra”

Qui si dice che non basta solo vedere e neppure solo ascoltare, quindi cosa bisogna fare?

Per decidere bisogna andare di persona a vedere ma ci si fa anche consigliare, si riflette. C’è un’interpretazione ma contemporaneamente un giudizio e una decisione. Tutto il linguaggio della conoscenza, del linguaggio dell’interiorità è abbandonato e si entra nel linguaggio dell’azione: giudicare, valutare, decidere.

Il riconoscimento dei segni non è fatto solo di comprensione, ma anche di giudizio e di azione.

Di queste decisioni si da un unico criterio: i poveri.

Dovremmo con semplicità, ma con sapienza, ritornare a questi criteri semplici.

Questo è un testo molto lineare ma con una grande potenza.

Avendo come criterio i miseri si evita di avere un atteggiamento magico e superstizioso verso i segni: ciò che funziona per i poveri funziona per tutti.

Percuoterà il violento con la verga della sua bocca, con il soffio delle sue labbra ucciderà l’empio”.

E’ un immagine violenta ma, non casualmente, tutta centrata sulla bocca. La parola chiave è soffio che è la stessa parola dell’ebraico spirito. E’ quello stesso spirito che ha la potenza di percuotere e addirittura di uccidere. E’ lo spirito datore di vita che può essere anche datore di morte.

La giustizia sarà fascia dei suoi lombi e la fedeltà cintura dei suoi fianchi”.

Anche qui la scelta delle due virtù non è fatta a caso. Per poter stare di fronte ai segni della storia è la giustizia come minima cosa da fare senza spingersi alla carità.

Articolata con la giustizia ci deve essere la fedeltà che ha una lunga tradizione nella logica cristiana e prima ancora in quella vetero-testamentaria, nel mondo ebraico. E’ innanzitutto la fedeltà con Javè, ma è prima di tutto la fedeltà di Dio nei nostri confronti più che la nostra nei confronti di Dio. La fedeltà di Dio a se stesso innanzitutto, alle sue promesse. E’ l’altra faccia del timor di Dio.

Se ognuno occupa il suo posto, dato che Dio è fedele, le cose funzionano.

La fedeltà può diventare cintura dei fianchi se si abita responsabilmente il proprio posto.

S. Ignazio, nel 1500 al sorgere della modernità, dirà che, nei tempi di desolazione, di confusione, bisogna essere fedeli al proprio luogo. Vuol dire tenere il proprio posto e poi rimanere lì aspettando di vedere cosa succede. Questa è l’esperienza della fedeltà, secondo lui. Essere fedeli a tutto ciò che si è già capito e normalmente quando si è assillati da una questione nuova sembra troppo poco ma è la cosa da fare.

Ci sono poi (vv. 6-9) i quattro elementi, i desideri che ci dicono quali sono i segni odierni.

Il primo, il più facile – “Il lupo dimorerà insieme con l’agnello;
il leopardo si sdraierà accanto al capretto;
il vitello e il leoncello pascoleranno insieme” –
è il desiderio che l’altro non sia un pericolo, che si possa abitare di fianco all’altro senza problemi. Quindi il primo segno da ricercare è tutte le volte che l’altro non è un pericolo, non solo perché lui non lo è, ma perché io non lo vedo come tale.

Dovendo abitare sia l’esterno che l’interno, l’esterno ci dice che a volte gli altri sono un pericolo e a volte no e l’interno mi dice che a volte noi vediamo gli altri come un pericolo e a volte no. In genere riusciamo ad essere molto poco messianici e a sbagliare sempre nel ritmo della difesa: spesso ci difendiamo quando non bisognerebbe difendersi e a non difenderci quando invece dovremmo farlo perché lo Spirito di sapienza, intelligenza, consiglio, fortezza, conoscenza, pietà e timor di Dio ogni tanto non lo lasciamo agire, la nostra soggettività non distingue.

Il secondo è: “un piccolo fanciullo li guiderà”.

Questo è il desiderio che le cose siano così semplici che un bambino possa essere una guida, che non ci sia bisogno di un esperto, di un competente, di un saggio. Nei tempi della storia più complicati c’è sempre questa aspirazione sociale di un uomo risolutivo, un dittatore, un autoritario: l’esatto contrario di un bambino.

E’ una tentazione che torna sempre, perché da una parte c’è il desiderio che il mondo sia così semplice da poter seguire, senza paura di perderci, un bambino; dall’altra parte c’è la sensazione che le strade siano così contorte e difficili per cui cerchiamo in giro l’uomo della provvidenza che risolva tutto e ci guidi, potendo poi incolpare lui della fatica di una meta non raggiunta.

Il terzo è: “il leone si ciberà di paglia come il bue”. Il desiderio è che la paglia basti per tutti contro l’avidità. Nella cultura agricola in cui questo testo è scritto in cui era ancora molto fresco il ricordo della caccia, dei selvaggi, l’avidità era un problema perché moltiplicava il pericolo e non era mai sazia. Il desiderio è quindi che il nutrirci non debba togliere la vita a qualcuno.

La quarta e l’ultima – “il bambino metterà la mano nel covo del serpente velenoso” – è il desiderio infantile della fine del rischio: la possibilità di creare il nuovo senza rischio, senza paura.

Questi sono i quattro segnali che ci vengono indicati dal tempo messianico. Noi dovremmo chiedere a noi stessi e alla storia questi segni.

La conclusione è: “Non agiranno più iniquamente, né saccheggeranno in tutto il mio santo monte perché la conoscenza del Signore riempirà la terra come le acque ricoprono il mare”. Riprende il tema della soggettività dicendo che quando accade così tutti diventano soggetti. I doni della conoscenza diventano i doni di tutti e tutti vanno cercando questi segni nelle cose.

Fossano, 8 dicembre 2012

(testo non rivisto dal relatore)

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