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13 Ottobre 2012
Stella Morra

1. Una legge “naturale”?

Commento a: Sir 42, 15-25


Premessa

Come ogni volta che iniziamo un ciclo di lectio rubo un po’ di tempo al testo per introdurre il tema, per ambientarci, perché, lo dico per chi non è un frequentatore abituale, non si legge mai la scrittura senza una domanda. In questo caso, la questione è avere una domanda condivisa. Cerchiamo nel testo quello che la nostra domanda ci fa trovare e forse potremo leggere altre volte questo testo con altre domande per scoprire altri aspetti. È importante, quindi, dichiarare con quale domanda, con quale questione, con quale occhio leggiamo il testo. Non abbiamo la pretesa con questa lettura di esaurire il testo, né abbiamo l’esigenza di una lettura esegetica; non è il nostro stile, non è nel nostro interesse. Ci accostiamo invece ai libri della Bibbia con una domanda specifica nel cuore, poi come sempre si trova anche altro, ma la traccia che seguiamo è una.

La traccia che seguiremo quest’anno è un po’ particolare, non è di automatica comprensione per tutti, perché è un termine che è stato molto diffuso nelle discussioni tra credenti, in parrocchia, soprattutto un po’ di anni fa nell’immediato post concilio, e poi è un po’ caduto nel dimenticatoio.

La domanda è intorno alla questione dei segni dei tempi. Come titolo quest’anno abbiamo scelto un versetto del Vangelo di Matteo (Mt 15,3): “Sapete dunque interpretare l’aspetto del cielo e non sapete distinguere i segni dei tempi?”. Quest’espressione, al di là del contesto da cui è tratta, è un rimprovero di Gesù ai farisei e sadducei, che non interpretano correttamente alcune cose che stanno accadendo; egli allora si rivolge loro dicendo: «Quando si fa sera, voi dite: “Bel tempo, perché il cielo rosseggia”; e al mattino: “Oggi burrasca, perché il cielo è rosso cupo”. Sapete dunque interpretare l’aspetto del cielo e non siete capaci di interpretare i segni dei tempi?”. Questa è la domanda che pone Gesù.

Quest’espressione ha una storia potente negli ultimi cent’anni di Cristianesimo, è un tema che è stato molto visitato, messo al centro delle questioni, prima, durante e subito dopo il Concilio Vaticano II. Abbiamo da pochissimi giorni festeggiato il 50º anniversario dell’apertura di Vaticano II e come Atrio dei Gentili ci sembrava che non potessimo rimanere esterni a questo anniversario, non tanto per fare una celebrazione storica, ma proprio per dirci che in fondo la la Chiesa in cui siamo e in cui a volte ci fa fatica essere è la Chiesa uscita da Vaticano II. In qualche modo, quindi, è la Chiesa che siamo chiamati a conoscere come l’aria di casa, e per alcune cose è così, ci sono cose che per i più giovani è inimmaginabile che non fossero così. L’esempio che faccio sempre è che la Bibbia fino a Vaticano II era il primo dei libri all’Indice, la lettura della Bibbia non solo non era favorita, ma proprio proibita, era considerato un libro pericoloso, se uno aveva la Bibbia in casa era un Protestante o un Valdese. Noi oggi ci troviamo qui a leggere insieme la scrittura, il 90% degli incontri parrocchiali si concludono con la frase “dovremmo conoscere di più la Bibbia” e nessuno di noi sarebbe sfiorato dal pensiero o dal dubbio di non avere qualche familiarità con la scrittura. Essa è entrata a far parte del nostro orizzonte come una cosa normale, anzi ci fa fatica proprio che non abbiamo abbastanza familiarità e non potremmo immaginare un cristianesimo senza Bibbia. Invece per i cinque secoli precedenti a Vaticano II il cristianesimo nella sua forma cattolica per i fedeli normali è stato un cristianesimo senza Bibbia.

I segni dei tempi

Questo cambiamento ci dice come l’esperienza di Chiesa in cui siamo è l’esperienza di Vaticano II. Allora ci è sembrato che non potevamo rimanere estranei e, prendendo sul serio una domanda che ci riguarda, l’abbiamo messa sotto questo tema dei segni dei tempi. La capacità cioè di essere all’altezza del luogo dove si è, di vedere il mondo in cui siamo, le cose, le situazioni non semplicemente come frutto del caso, della fortuna, del destino, ma di comprendere come le cose che accadono, che ci circondano, quelle che hanno dei soggetti collettivi, che non sono solo me, possono essere un segno, un segnale, il luogo dove in qualche modo noi riconosciamo che Dio parla. Questo tema Vaticano II lo ha rimesso sul piatto, sul tappeto della vita cristiana dopo che era sparito dopo i primi secoli cristiani, così com’è successo per altri temi in cui Vaticano II ha saltato tutta la polemica con i protestanti, con la scienza, ed è andato a ripescare temi dei primi secoli del Cristianesimo, della Chiesa antica, con la convinzione che là dovevamo ricercare alcune questioni che ci riguardano di nuovo da vicino oggi. Il tema dei segni dei tempi, dopo essere stato molto controverso e discusso all’interno del Concilio, nell’immediato post-Concilio ha dato adito a molte questioni e poi ha un po’ perso la sua capacità di carica, come se l’aver fatto un po’ di indigestione di alcuni aspetti avesse portato ad avere una crisi di rifiuto. Ci siamo come ubriacati dei segni dei tempi per una quindicina di anni e poi c’è venuto il rigetto. Ci sembra invece che questa questione, che è la domanda di un adulto – ovvero come si abita il mondo, le cose che accadono e che ci riguardano tutti, rimanendo credenti senza fare di questo un’etichetta, ma anche senza dimenticarsene – sia proprio la domanda che ci sta a cuore. Ci sembra che la risposta del Concilio sia nella logica dei segni dei tempi. A gennaio dedicheremo un convegno sul Concilio Vaticano II proprio per aver l’occasione di un approfondimento. Non sarà un’altra cosa rispetto alla lectio, ma un’altra forma, con maggior spazio alla riflessione e all’informazione, ma è la stessa questione che ci abiterà in tutte le lectio di quest’anno.

Segno dei tempi è una parola ambigua, ci risuona probabilmente nelle orecchie ma su cui non abbiamo fatto molta attenzione: di che cosa si tratta? E quali pericoli sono in agguato nell’interpretazione?

Questo termine non era sparito nella storia della Chiesa, ma aveva cambiato significato e progressivamente aveva preso un senso che ancora oggi tende ad essere usato, ma che a mio avviso è un grande tradimento della potenza di questo termine. Ovvero si tendeva a darne un senso individuale, spirituale al limite tra l’altro della visionarietà, della magia, cioè di quella logica per cui tutto è un segno. Ad es. “Piove… è segno che non dovevo uscire”. Una mia amica la chiama la logica di Pollyanna, la storia di quella bambina disgraziatissima, francamente disturbata, perché anche quando le succedono le cose peggiori riesce a dire che comunque c’è qualcosa di bello. Questo può anche andar bene per insegnare ai bambini ad avere un po’ pazienza, ma francamente è una logica un po’ disturbata psichicamente perché ci sono delle cose che sono solo male, delle cose brutte che preferivo che non mi succedessero, poi, se succedono uno le regge, però rimangono cose brutte.

Questa logica per cui qualsiasi cosa succeda, qualsiasi cosa senta e si manifesti nel mio animo è un segno non mi serve a nulla. Normalmente infatti è segno di qualche cosa che già pensavo prima che quelle cose accadessero, quindi che segno è? Non mi sposta neanche di un millimetro. La metto un po’ sull’ironico, per non fare un discorso troppo serio e per potermi spiegare rapidamente. Una lettura spiritualista e individualista dei segni del tempi è un grande inganno perché in realtà il Cristianesimo ha una potenza più forte e seria, molto meno magica, molto più antropologica, cioè dice che la Storia è un segno e la Storia presuppone una qualche forma, un qualche soggetto collettivo, non è una faccenda individuale, è un’interpretazione condivisa. Il Concilio quando accenna a i segni dei tempi non li elenca, perché non si possono elencare, perché se sono “dei tempi”, mutano di tempo in tempo, ma ne indica alcuni del tempo in cui il Concilio si è svolto. Tra questi indica l’aspirazione dei popoli alla pace. Il Concilio si è svolto a metà degli anni Sessanta, in un brutto momento segnato da grandi tensioni come la crisi di Cuba, e dice che i popoli vogliono la pace e questo è un segno dei tempi da cui dobbiamo imparare qualcosa. Un altro segno di cui parla è il mutato ruolo delle donne, della loro presa di soggettività. Offre alcune indicazioni di segni di cosiddetta lunga durata e di segni soprattutto collettivi. Esattamente come in un rapporto amoroso, poi, anche le piccole cose sono segni di quello che l’altro dice, fa, desidera, un piccolo segno di gentilezza che peraltro non vuol dir nulla, ma che in quella storia ha un grande significato.

Esistono, certo, anche dei segni personali nella storia con Dio, ma a volte ci si sbaglia con gli umani e quindi anche con Dio. Inoltre, un conto è dire che ci sono dei segnali, cioè che Dio ha cura di noi e della nostra vita individuale, che nel nostro modo quotidiano di vivere con lui, alcune cose funzionano come un segnale, ma tra questo e i segni dei tempi c’è una differenza. È importante notare che i segni dei tempi riguardano la storia in quanto tale e non la storia cristiana. Non dipende dagli occhi con cui si guarda, non è un fatto di coscienza, ma il segno dei tempi ha suo peso oggettivo. Prendiamo l’esempio che fa il Concilio: l’aspirazione della gente comune alla pace, al fatto che preferisce non morire in guerra, non è che dipende da come la guardi, è un dato. Certo, ci possono essere manipolazioni politiche, ma non è un dato soggettivo di interpretazione. Il segno è un dato di realtà della storia che tutti possono riconoscere come un segno. Il segno non è dell’interpretazione individuale, cioè non dipende da come guardi la storia, ma è qualche cosa che diventa consapevolezza condivisa da molti. Il Concilio ci dice che un segno dei tempi è evangelico quando orienta la storia in modo messianico, cioè quando la presa di consapevolezza di molti intorno ad un evento ci porta a lavorare verso un mondo più giusto, non verso un mondo più cristiano. I segni dei tempi non servono di per sé a convincere il mondo della fede cristiana, ma a vivere meglio, a fare in modo che il mondo sia più orientato secondo la logica di Dio. Ora, la pace è proprio una di queste esperienze: dal post-Concilio in poi, i cristiani si sono molto spesi per la pace, la nonviolenza, e non solo come cristiani, ma collaborando con tutti quelli che erano d’accordo per servire un mondo più pacifico. Allontanare lo spettro di una guerra è comunque andare verso un mondo più vicino a quello che Dio vuole. I segni dei tempi lasciano inalterata l’autonomia del mondo, delle cose, non hanno bisogno di dire che questa è una cosa cristiana.

Ma c’è ancora un passaggio ulteriore. I segni dei tempi sono per i cristiani un’occasione per riconoscere che Dio continua a parlare, sono la continuazione della scrittura, perché Dio non ha smesso di parlare nel momento in cui l’ultimo agiografo ha scritto l’ultima parola della Bibbia. Dio parla alla totalità della storia, da questo punto di vista il grande segno dei tempi sono i santi e i martiri, coloro che con le loro vite diventano parlanti per tutti, anche per chi non ci crede, segni che Dio ha cura del mondo attraverso loro. Sono allora una presa di coscienza collettiva, condivisa, che ha un certo consenso, una certa direzione messianica e che i cristiani riconoscono come una parola che viene da Dio, dunque qualche cosa che fa capire meglio il Vangelo. Il segno dei tempi non è un modo per evangelizzare gli altri, ma perché io che credo nel Vangelo capisco meglio, perché io riconosca per esempio che l’appello alla pace era forte nel Vangelo e che per secoli forse i cristiani non lo hanno preso abbastanza sul serio, quindi hanno dovuto farselo ricordare dalla storia, dagli altri. La questione dei segni dei tempi per questo è decisiva nella logica del Concilio perché mette in opera, rende concreta la logica che il Concilio sceglie. Quando il Concilio dice che il primo metodo è l’ascolto, noi troppo spesso l’abbiamo interpretato dicendo che certo non si può più andare dalla gente dicendo “o ti fai battezzare o ti uccido”, cioè che non possiamo più usare la violenza ma dobbiamo ascoltare; così noi oggi diciamo “qualunque cosa pensi del senso della vita, per essere più contento ti devi battezzare”: in pratica usiamo lo stesso metodo solo un po’ più cortese. “Io so qual è la verità, tu non lo sai”, prima te la spiegavo a randellate sulla testa, ora, siccome siamo più democratici, ti sto perfino a sentire, ma poi te la spiego io. I cristiani spesso hanno infatti il problema di come fanno a spiegare ai figli, ai colleghi, che queste cose sono vere: se li ascoltiamo poi dobbiamo essere in grado di saper spiegare. Secondo questa logica il migliore dei cristiani sarebbe un oratore convincente… Vaticano II dice che non è così! Il metodo dell’ascolto significa che io e tu non sappiamo, che io ascoltando te con in mano il Vangelo capisco meglio il Vangelo e insieme possiamo sapere un po’ di più, ma soprattutto fare un po’ di più. Io imparo da te. Qui c’è una questione molto grande: cambia l’idea di fede, cambia l’idea di verità. Non nel senso che non c’è più verità e tutto è relativo, che ognuno interpreta come vuole. Cambia perché la verità non è qualcosa che uno ha ricevuto e altri no, ma la verità si fa, esattamente come nei rapporti umani, anche la verità di un matrimonio si sa l’ultimo giorno e non nel giorno in cui uno ha detto sì. Nel giorno in cui uno ha detto sì si sa la verità del desiderio, l’ultimo giorno si saprà la verità di quel matrimonio, che sarà fatta di molte cose, previste e non previste, di molte cose che avevo immaginato e di tanti altre che non avevo nemmeno immaginato, nel bene come nel male, e a mano a mano ognuno ha misurato se le cose avevano una sua verità, restavano in piedi, ha dovuto inventarsi un coraggio che non aveva, una capacità di perdono che non sapeva di avere, ha dovuto inventarsi un sacco di cose e ha fatto la verità di quel matrimonio.

Vaticano II afferma che la verità cristiana è una verità che si fa, come dice San Paolo: l’ultimo giorno tutto sarà reso in Cristo al Padre (cfr. 1Cor 15,28). A quel punto si raccoglie e si fa la somma, ma l’ultimo giorno non un minuto prima. Prima io ho lo specchio dell’evangelo e chi non è credente ha lo specchio della sua intelligenza, della sua fatica, quindi io ti ascolto perché posso capire il Vangelo che ho in mano solo se tu mi parli, non perché io te lo spiego. Questo sarebbe il metodo dei segni dei tempi, non solo a livello individuale ma a livello di mondo, di storia. Dio continua a parlare, e ciò che accade non è mai per il male, ma è per il bene. Andate a rivedere il discorso di apertura del Concilio di Giovanni XXIII “Gaudium Mater Ecclesia” (Gioisce la madre Chiesa), il famosissimo e citatissimo paragrafo contro i profeti di sventura: molti, pur accesi da alacre zelo, non vedono che tragedie e schifezze e che non si può sopravvivere. Giovanni XXIII, apertamente, dice che noi siamo contro questi profeti di sventura. Molti hanno interpretato questo discorso come se il Papa fosse un ottimista (non era vero per niente) e che ciò era dovuto al periodo degli anni 60 (anche qui l’ottimismo è venuto dopo); invece no, questa è un’opzione di fede e il Papa lo spiega benissimo quando afferma che il Signore non ha smesso di occuparsi del mondo, né di parlare, né di reggere la creazione, dunque non andiamo verso la sventura ma andiamo verso la salvezza. Questo è un fatto di fede dunque dobbiamo solo vederla questa salvezza che si va facendo. I segni dei tempi da questo punto di vista non sono solo l’invito a discernere che cosa la Storia ci sta dicendo, ma l’indicazione di un metodo. In quello stesso discorso Giovanni XXIII dice che Dio dispone per il bene della Chiesa tutte le umane vicende, anche quelle a lei avverse, e questo vale in generale. Anche Auschwitz è un segno dei tempi, drammatico, dove l’umanità si è fatta molto male e se l’è fatto da sola; e se si fa finta che non sia accaduto o che quel male non ci dica niente, cioè se lo rimuoviamo, si ripresenterà. Tutte le volte che dimentichiamo, come l’umanità, alcune cose queste si ripresentano e in genere un po’ peggio. Allora anche il negativo è un segno dei tempi. Nell’antichità quando si parlava di segno dei tempi più diffusamente, anche nell’entusiasmo della Parusia, si pensava che il mondo stesse per finire e che ormai tutto era compiuto, perché Gesù era venuto. Si pensava ai segni dei tempi per indicare che il mondo stava per finire, poi questo non è accaduto e si è smesso di parlarne… Ma allora perché adesso si riparla di segni dei tempi? Cos’è successo in mezzo? Lo dico in modo sintetico: si è sostituita la Storia con la Natura: per molti secoli è stato importante chiedersi non come le cose funzionano ma come le cose sono: che cosa distingue un umano da un animale? Una pianta da un animale? Chi ha l’anima? Qual è l’essenza dell’essere umano? In una società molto fragile in cui l’età media era bassissima – due bambini su tre morivano prima dei cinque anni, le donne morivano per parto molto spesso, c’erano guerre e pestilenze – in cui tutto sembrava non avere sostanza ci si faceva domande sulla sostanza: che cosa è la natura delle cose? Che cosa rimarrà di me? Si guardava alle cose che permanevano in eterno. Alcuni esempi. Noi moriamo ma le montagne restano. Io pianto l’ulivo e poi muoio, forse anche i miei figli muoiono, ma l’ulivo rimane e tra duecento anni farà ancora olive. Costruisco una cattedrale e non la vedrò finita, ma quella sta lì per i secoli. Noi culturalmente siamo dall’altra parte, non siamo più una società così volatile, abbiamo capito che neanche le montagne o le cattedrali stanno lì per sempre, anzi se scoppiasse una guerra atomica non ci sarebbe più niente per sempre. Abbiamo capito, a motivo della tecnologia moderna che ha imparato a distruggere, che non solo l’individuo ma anche tutto il mondo può morire, e quindi c’è tornata la domanda antica, quella sulla Storia: che cosa si deve fare mentre il tempo passa? Come ci si deve organizzare nel movimento?

Per approfondire molte delle cose dette oggi vi suggerisco un articolo della rivista Concilium dal titolo “Per un ermeneutica di Vaticano II” tutto centrato sui segni dei tempi.

Il testo di oggi

Cominciamo il percorso sui segni dei tempi e lo cominciamo apparentemente in modo sbagliato, nel senso che partiamo da un testo, l’unico di tutto il percorso, che non è nella logica della storia, ma della natura. Questo testo mi serve per due motivi. Innanzitutto perché molta parte della scrittura, ad esempio i salmi, sta da questa parte e quindi mi serve come metodo per aiutarci a leggere bene anche quei testi. Pensate a tutti i salmi che dicono “quanto sono meravigliose le tue opere”, a quei testi che sono di decantazione della natura e delle opere, ma che nelle nostre orecchie funzionano come un’immaginetta delle Paoline, ovvero un’immagine poetica, ma non capiamo qual è la loro portata di preghiera perché per noi il fatto che la natura ci sia e sia bella non ha il trasporto immediato nella comprensione di Dio. Essa rimanda a un mondo in cui la bellezza della natura è il grande segno dei tempi, ma soprattutto la sua immanenza. Noi siamo gente che va in montagna, che vede un bellissimo panorama, si commuove; poi va anche a visitare le grandi città in cui ci sono altre bellezze create non da Dio, ma dagli uomini e ci piacciono ugualmente. Per noi non è più così automatico vedere la natura come un segno. Questo testo ci dà un metodo di lettura per certi testi della scrittura, ma ci dà anche il senso che questo tema esiste ben prima di Vaticano II, ovvero che ha una sua fondatezza.

Il Siracide è un libro complicato, databile attorno al II secolo a.C., che prende il nome dal suo autore, ma oltre al nome non si sa molto di più. È un libro su cui si è discusso molto se facesse parte della Scrittura o no, nella forma in cui lo abbiamo fa parte solo della Bibbia Cattolica. È un testo di confine. Ha una tradizione testuale molto complicata, ma che esprime un nodo storico complesso in cui l’ebraismo ha quasi completamente consumato il suo incontro col mondo greco, praticamente quasi come la nostra situazione cominciata col Sinodo di questi giorni dedicato all’evangelizzazione. L’ebraismo nasce come un’esperienza “molto provinciale”, legata ad un territorio, dove tutto – il modo di vestire, di mangiare, di pregare – è normalizzato. Vive una grande crisi intorno al II secolo d.C., quando da religione del tempio si trasforma in religione famigliare, che è poi la forma attuale: la distruzione del tempio cambia radicalmente la forma dell’ebraismo rispetto a quella che conosciamo oggi. L’ebraismo va in crisi quando entra in contatto con la grande esperienza del mondo greco che pone un problema pazzesco perché tutto si mescola. Non a caso l’ebraismo sviluppa un’idea fortissima di purezza, di ciò che distingue gli uni dagli altri. E quand’è che uno insiste su ciò che distingue? Quando non sa più le cose che lo distinguono: quando cioè mangiamo le stesse cose, frequentiamo gli stessi posti, leggiamo le stesse cose, devo trovare cose che mi distinguono. Siracide nasce in questo tempo storico, e nasce come un modo per rendere accettabile l’ebraismo al mondo greco, perché i greci colti e raffinati guardavano agli ebrei come fossero dei pazzi: non mangiano quello, non mangiano questo, hanno un sacco di fisime. Come tutti i libri di questo tipo ha una sapienza, ma fa anche l’operazione inversa, cioè spiega agli ebrei che la sapienza è una cosa che anche Dio vuole, che non appartiene solo a un mondo come quello greco che essi vedono un po’ cinico e debosciato. È esattamente il tempo storico in cui siamo noi, in cui non sappiamo più cosa vuol dire essere cristiani e dobbiamo sempre giustificarci su cosa vuol dire essere cristiani. Il testo di oggi è tratto dall’ultima parte del libro di Siracide, che è proprio detto l’esaltazione della natura, letto così fa proprio un po’ immaginetta delle Paoline, ma letto un po’ meglio ci fa entrare dentro alcune delle questioni.

Il testo – Sir 42,15-25

15 Ricorderò ora le opere del Signore
e descriverò quello che ho visto.
Per le parole del Signore sussistono le sue opere
e il suo giudizio si compie secondo il suo volere.
16 Neppure il sole che risplende vede tutto,
della gloria del Signore sono piene le sue opere.
17 Neppure ai santi del Signore è dato
di narrare tutte le sue meraviglie,

che il Signore, onnipotente, ha stabilito
perché l’universo stesse saldo nella sua gloria.
18 Egli scruta l’abisso e il cuore
e penetra tutti i loro segreti.
L’Altissimo conosce tutta la scienza
e osserva i segni dei tempi,
19 annunciando le cose passate e future
e svelando le tracce di quelle nascoste.
20 Nessun pensiero gli sfugge,
neppure una parola gli è nascosta.
21 Ha disposto con ordine le meraviglie della sua sapienza,
egli solo è da sempre e per sempre:
nulla gli è aggiunto e nulla gli è tolto,
non ha bisogno di alcun consigliere.
22 Quanto sono amabili tutte le sue opere!
E appena una scintilla se ne può osservare.
23 Tutte queste cose hanno vita e resteranno per sempre
per tutte le necessità, e tutte gli obbediscono.
24 Tutte le cose sono a due a due, una di fronte all’altra,
egli non ha fatto nulla d’incompleto.
25 L’una conferma i pregi dell’altra,
chi si sazierà di contemplare la sua gloria?

Se cercate su Internet, dove ormai ci sono anche i repertori per le omelie, troverete moltissimi commenti, ma soprattutto una certa sottovalutazione di questo testo. Io invece penso che questo testo letto alla luce della nostra domanda diventa tutta un’altra cosa.

15 Ricorderò ora le opere del Signore
e descriverò quello che ho visto.

Questo il titolo, tutto quello che viene dopo sta sotto i verbi “ricordare” e “descrivere”. Questi sono due verbi storici, non naturali, attengono alla cultura perché in natura niente ricorda niente. In natura niente descrive niente. Ci vuole una soggettività, un soggetto, un vivente in un tempo della storia per ricordare e descrivere. Questa è una bella questione: perché siamo posti di fronte a ciò che ricordiamo? E dunque che cosa dimentichiamo? Poi che cosa descriviamo? Quali parole abbiamo per descrivere?

Ricordare è un’attività individuale, descrivere è un’attività plurale perché se non c’è qualcuno che ascolta si parla da soli. Come vedete la questione si inquadra subito sotto un certo tono.


Per le parole del Signore sussistono le sue opere
e il suo giudizio si compie secondo il suo volere.

La prima frase che viene detta, ci dice ricordate e descrivete, e poi che Dio parla, che a causa della sua parola sussistono delle opere, che sono prodotti, operazioni, non oggetti semplicemente. Quando troviamo l’espressione frequentissima nella scrittura le opere del Signore si pensa sempre a delle cose, mentre è molto chiaro, da Esodo in avanti, che le opere del Signore sono le sue azioni, la grande opera è la liberazione del suo popolo dall’Egitto. Certo anche la Creazione, intesa però non come produzione di un oggetto, ma come Dio che tiene in vita il mondo: se Dio abbassasse la mano il mondo cesserebbe di esistere. È la continua opera con cui Dio crea.

È particolarmente bella la triade di parole che qui vengono utilizzate: è la parola che compie opere, e subito attaccato c’è il giudizio. È chiaro che ci vuole una parola potente che non sia semplicemente la chiacchiera, perché la chiacchiera non compie nessuna opera, non sposta niente. Pensate nella nostra cultura che peso aveva, fino a non molto tempo fa, la parola data, ad esempio nei contratti: era davvero una parola che compiva un’opera, ed esprimeva un giudizio perché venir meno alla parola data aveva un peso infinito. Qui si sta dicendo proprio questo: Dio è uno di cui ti puoi fidare perché la sua parola crea un’opera, la parola che crea un’opera formula un giudizio, consente di discernere ciò che è bene e ciò che è male, ciò che è per me e ciò che è contro di me, ciò che fa il bene del mondo e ciò che non fa il bene del mondo.


16 Neppure il sole che risplende vede tutto,
della gloria del Signore sono piene le sue opere.
17 Neppure ai santi del Signore è dato
di narrare tutte le sue meraviglie,

che il Signore, onnipotente, ha stabilito
perché l’universo stesse saldo nella sua gloria.

Mi sono interrogata molto su questo neppure perché in altre parti della scrittura si dice neppure i santi, neppure i sapienti dicono di conoscere le sue opere, invece qui si dice di narrare. Ho fatto una ricerca e, da quello che sono riuscita a verificare, credo che questo sia l’unico caso in tutta la scrittura in cui l’oggetto è narrare e non conoscere.

È il tema della parola che consente, che crea la condizione necessaria perché un segno diventi segno dei tempi, che possa trovare consenso, dell’ascoltarsi, del parlarsi, del perder tempo a confrontarsi affinché un po’ alla volta emerga una lettura comune. Ecco perché qui si parla di narrazione e per narrare ci vuole tempo, e neppure ai santi è dato di narrare le sue opere. Tutto il nostro sforzo come credenti dovrebbe essere quello non tanto di spiegare o di convincere, ma di narrare il Dio che si mette dalla parte degli uomini.

18 Egli scruta l’abisso e il cuore
e penetra tutti i loro segreti.
L’Altissimo conosce tutta la scienza
e osserva i segni dei tempi.

Qui si dice che la verità della conoscenza, l’abisso della storia, tutto il mistero e il futuro che non è nelle nostre mani, sta tutto nelle mani di Dio, e che noi non possiamo avvicinarci neanche per approssimazione. La verità sta davanti a noi, non dietro, non l’abbiamo ricevuta, è da farsi. È scoprire progressivamente nella conversazione una verità che non ci era data da sola. Altrimenti si arriva alla sordità dell’Ottocento in cui gli altri sono solo occasione di peccato o perché mi tentano o perché mi fanno arrabbiare e dunque devo esercitare una tale pazienza che rischio sempre di peccare. Se tutto è dentro di me, se io la verità già la so tutta, gli altri sono solo occasione che mette alla prova. È un’idea assurda. Invece è esattamente il contrario: solo per Dio noi siamo di fatto una prova, una rottura di scatole e basta, gli siamo costati suo figlio, ma lui ha scelto che noi fossimo e quindi ci tiene così. Noi gli uni per gli altri siamo il luogo dove la verità si fa, perché solo Dio ha di suo tutta la verità e non ha bisogno di noi.

19 annunciando le cose passate e future
e svelando le tracce di quelle nascoste.

Trovo meraviglioso questo versetto perché contiene tutta la nostra fatica, il nostro essere pellegrini. Abbiamo bisogno che qualcuno ci annunci le cose passate e quelle future, perché per il resto dovremmo riuscire a svelare il presente, cioè le cose nascoste. Siamo messi veramente male. Ovvero c’è un passato che rischiamo di dimenticare, un futuro che rischiamo di non saper sognare perché c’è un presente che risulta nascosto a noi stessi. Non è un caso che il Vangelo metterà tra gli apici delle virtù la vigilanza, la capacità di riconoscere i segni dei tempi, di svelare il presente nascosto.

I versetti seguenti ripetono le stesse cose:

20 Nessun pensiero gli sfugge,
neppure una parola gli è nascosta.
21 Ha disposto con ordine le meraviglie della sua sapienza,
egli solo è da sempre e per sempre:
nulla gli è aggiunto e nulla gli è tolto,
non ha bisogno di alcun consigliere.
22 Quanto sono amabili tutte le sue opere!
E appena una scintilla se ne può osservare.

Leggiamo ora gli ultimi tre:
23 Tutte queste cose hanno vita e resteranno per sempre
per tutte le necessità, e tutte gli obbediscono.
24 Tutte le cose sono a due a due, una di fronte all’altra,
egli non ha fatto nulla d’incompleto.
25 L’una conferma i pregi dell’altra,

chi si sazierà di contemplare la sua gloria?

Questi versetti sono l’altra grande chiave del brano. È esattamente l’esplicitazione in termini di natura di quella che noi abbiamo annunciato come una legge della storia: io ascolto perché da solo la verità non ce l’ho, perché se non ho un altro di fronte a me che posso ascoltare non mi è dato di fare la verità. Questa antica legge noi la sappiamo nel concreto: non si può voler bene a qualcuno se non c’è qualcuno, poi ci sono tanti modi per vivere, ma vivere proprio da soli senza qualcuno cui voler bene è abbastanza triste. Ci sono tanti modi di voler bene, tanti livelli, tante possibilità, ma se non abbiamo di fronte un interlocutore che ci fa da specchio, non possiamo vederlo. La struttura antropologica che ci caratterizza di più è il nostro volto. Ciò che dice di me è la mia faccia, ma senza uno specchio non mi è dato di vederla. Noi possiamo sapere di noi solo attraverso ciò che gli altri ci rimandano di noi. In questa legge fondamentale coloro che guardano al mondo attraverso le leggi della natura giungono esattamente alla stessa nostra posizione ovvero tutte le cose sono a due a due, l’una conferma l’altra, perché la completezza è questa duplicità, è questa relazione diremo noi oggi, i cui pregi sono confermati solo dall’esterno. Non posso dire da me i miei pregi, li posso solo ricevere confermati dall’esterno. Così accade nell’esperienza quotidiana: dopo una settimana di estate tutti dicono: che caldo! E dopo una settimana di freddo tutti dicono: ma quando torna l’estate! Molto banalmente ogni cosa l’apprezziamo in relazione a quell’altra, perché apprezziamo l’estate quando fa freddo, e così via in tutte le cose della nostra vita. Questa è la grande legge della storia, l’ascolto dell’altro, l’ascolto della storia, di ciò che io non decido. È l’esatto opposto di pensare che ci si salva a causa delle proprie scelte. Io non trovo la mia verità e quella degli altri perché faccio le cose giuste, perché la logica della vita è un’altra: io trovo la mia verità e quella degli altri semplicemente perché la ricevo dalla capacità di abitare la relazione con gli altri, con la storia. Rimanendo e facendo delle cose al meglio possibile, un po’ alla volta la verità si fa al di là di me e delle mie scelte, anzi si fa meglio di come l’avrei scelta io.

Questo testo mi sembra dunque un buon modo per entrare nel tema dei segni dei tempi. La prossima volta entreremo più nella logica della storia, per cui seguiranno due testi profetici e poi i testi evangelici del nuovo testamento.

Fossano, 13 ottobre 2012

testo non rivisto dal relatore

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