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13 Marzo 2010
Stella Morra

5. Il sacramento della passività, e cioè invecchiare aspettando

Commento a: Lc 2, 22-38; Sal 42


Premessa

Il brano su cui riflettiamo oggi è il capitolo 2 di Luca, nella parte centrale. Si tratta di un testo molto noto. Il vangelo di Luca dedica i suoi primi capitoli all’infanzia di Gesù, ed essendo, insieme a Matteo, il vangelo che parla dell’infanzia di Gesù è un testo molto usato nella liturgia e negli incontri perché ha un tono narrativo. Sono raccontini che tendiamo a sentire nelle orecchie in automatico senza riuscire bene a cogliere che, come in tutti i testi evangelici, c’è un’intenzione teologica. Cioè Luca aveva di fronte una comunità e alcuni problemi. Aveva alle spalle l’esperienza del Risorto, era uno che aveva vissuto tutto il compimento di questa storia e che narra la sua storia ai propri interlocutori, a quelli che suppone essere i suoi lettori. La narra già rivolta alla pienezza della storia, non per raccontare l’infanzia ma per dirci molto di più sul Gesù adulto. Ogni testo evangelico ci dice sempre l’insieme della vicenda evangelica: ogni episodio vuole aiutare il lettore a entrare nell’insieme del mistero di Gesù.

Questi testi iniziali rischiano spesso di deviare la nostra attenzione, di farci sorgere delle domande su cui nella Scrittura non c’è risposta. Che tipo di bambino era Gesù? Cosa pensavano i suoi genitori?… Insomma, tutta una serie di questioni legittime che non trovano risposte nel vangelo perché qualsiasi cosa pensassero i suoi genitori è indifferente rispetto alla trasmissione del mistero di Gesù che l’evangelista ci vuole dare. Da questo punto di vista è utile leggere questi testi, non tanto guardando a Gesù, ma a ciò che Luca mette intorno, a quali sono gli altri personaggi che fa interagire con Gesù. È più significativo ‘come’ costruisce l’episodio, non per le notizie che ci dà su Gesù che sono tipiche del racconto della sua vita adulta (miracoli, discorsi e così via); ma per come costruisce una storia dei personaggi che si muovono intorno, che sono la possibilità che l’animo umano ha di rapportarsi a Gesù. Ognuno di questi personaggi esprime una o più possibilità, e da questo punto di vista per noi sono evidentemente interessanti.

L’attesa della Parusia, ovvero: perché abbiamo ancora tempo?

Il vangelo di Luca ha un tema centrale: il ritorno della Parusia. Si rivolge a quelle comunità di origine pagana, che avevano creduto con molta forza alla cosiddetta funzione pedagogica di Israele. Avevano cioè capito tutto quello che era successo, dicevano: “E’ vero, Gesù è uscito da Israele, non siamo pagani, non siamo diventati Ebrei, Gesù è venuto, il tempo è compiuto, tutto è finito, non c’è più niente che deve succedere di serio, dunque, il mondo finirà”. E’ la prima generazione che vive in questa attesa imminente della Parusia, è un po’ la tendenza che oggi chiameremmo fondamentalista. Noi la pensiamo in chiave ideologica, violenta perché la leggiamo con le nostre categorie, quelle del soggetto della singola persona in cui tutto è giocato sulla libertà.

La preoccupazione delle comunità lucane è: che cosa resta da fare? La risposta è: niente! Perché quello che doveva succedere è già successo. Da qui un approccio di forte radicalità, di svalutazione del matrimonio, del fare figli, della professione, del lavoro…

Queste due parole, il compimento e l’ora (“l’ora di Gesù”, “non era ancora giunta la sua ora”, ecc…) sono due parole chiave di Luca che scrive il Vangelo per rispondere esattamente a questa domanda: che cosa c’è da fare nel frattempo? Che la Parusia accada adesso oppure accada fra mille anni lo sa il Signore (“Solo il Padre conosce l’ora”).

Noi diciamo “nessuno è obbligato a credere, ma nel frattempo io che sono credente che cosa devo fare? Devo fare delle cose strane, iper religiose per distinguermi, oppure faccio le cose che fanno tutti: mangio, vivo, lavoro, dormo, mi ammalo, guarisco… e allora non si comprende più che sono un credente”. Noi abbiamo lo stesso problema: perché abbiamo ancora tempo? Perché Dio ci dà questo tempo?

I Cristiani, dal medioevo fino al 1800, avevano trovato una loro risposta, quella che ci dicevano i nostri nonni: “Siamo in una valle di lacrime, siamo nati per soffrire, abbiamo questo tempo per essere messi alla prova, per meritarci il Paradiso”. Alla domanda: “Perché c’è ancora tempo? Perché Dio non ha chiuso questa vicenda della storia con Gesù?”, la risposta che il cristianesimo ha dato dal medioevo fino all’800 è stata di carattere morale-giuridico. Il tempo ci è dato come un concorso a premi, con tutte le deformazioni che ne sono derivate. Le stesse contro cui combatteva Luca, riassumibili nella svalutazione della vita concreta (se una cosa ti fa piacere è sicuramente peccato, se in un cosa riesci bene devi fare quella in cui riesci male…). Tutte le deformazioni che discendono involontariamente dal principio: “A cosa serve il tempo?”. Da questo punto di vista Luca è un Vangelo che è stato scritto per correggere il problema della comunità che aveva preso troppo radicalmente il tema della Parusia.

Serve anche a noi a correggere questa risposta che è stata data e che poi ha perso il suo equilibrio originale, ed è diventata una risposta di tipo moralistico. E’ vero, nella storia, come in tutte le storie relazionali, c’è anche una componente di prova. Nella storia con Dio c’è anche la prova che è parte integrante della sfida amorosa, del mettersi alla prova. Ma il suo senso non è la prova. E’ un incubo, non una storia!

Ecco perché ho dato alla lectio sul capitolo 2 di Luca questo titolo: “Il Sacramento della passività e cioè invecchiare aspettando”. Cosa c’è da fare? Perché ci è dato il tempo? La risposta è nella riflessione che faremo insieme. Oggi ragioniamo sul tema della sacralità dell’aspettare, del tempo che passa, della necessità e della importanza che ci sia un tempo.

Il testo

Quando furono compiuti gli otto giorni prescritti per la circoncisione, gli fu messo nome Gesù, come era stato chiamato dall’angelo prima che fosse concepito nel grembo.

Quando furono compiuti i giorni della loro purificazione rituale, secondo la legge di Mosè, portarono il bambino a Gerusalemme per presentarlo al Signore – come è scritto nella legge del Signore: “Ogni maschio primogenito sarà sacro al Signore” – e per offrire in sacrificio “una coppia di tortore o due giovani colombi”, come prescrive la legge del Signore.

Ora a Gerusalemme c’era un uomo di nome Simeone, uomo giusto e pio, che aspettava la consolazione d’Israele, e lo Spirito Santo era su di lui. Lo Spirito Santo gli aveva preannunciato che non avrebbe visto la morte senza prima aver veduto il Cristo del Signore. Mosso dallo Spirito, si recò al tempio e, mentre i genitori vi portavano il bambino Gesù per fare ciò che la Legge prescriveva a suo riguardo, anch’egli lo accolse tra le braccia e benedisse Dio, dicendo:

“Ora puoi lasciare, o Signore, che il tuo servo vada in pace, secondo la tua parola,

perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza, preparata da te davanti a tutti i popoli:

luce per rivelarti alle genti e gloria del tuo popolo, Israele”.

Il padre e la madre di Gesù si stupivano delle cose che si dicevano di lui. Simeone li benedisse e a Maria, sua madre, disse: “Ecco, egli è qui per la caduta e la risurrezione di molti in Israele e come segno di contraddizione – e anche a te una spada trafiggerà l’anima -, affinché siano svelati i pensieri di molti cuori”.

C’era anche una profetessa, Anna, figlia di Fanuele, della tribù di Aser. Era molto avanzata in età, aveva vissuto con il marito sette anni dopo il suo matrimonio, era poi rimasta vedova e ora aveva ottantaquattro anni. Non si allontanava mai dal tempio, servendo Dio notte e giorno con digiuni e preghiere. Sopraggiunta in quel momento, si mise anche lei a lodare Dio e parlava del bambino a quanti aspettavano la redenzione di Gerusalemme.

Quando ebbero adempiuto ogni cosa secondo la legge del Signore, fecero ritorno in Galilea, alla loro città di Nazareth. Il bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era su di lui.

Il movimento del desiderio

“Quando furono compiuti gli otto giorni prescritti per la circoncisione gli fu messo nome Gesù come era stato chiamato dall’angelo prima che era stato concepito in grembo”.

Spero che le mie riflessioni vi abbiano resi attenti alla parola compimento. C’è questo tensione tra ciò che è compiuto e il nome che gli viene dato: è come se si creasse una tensione tra quello che accade oggi, il nome che gli viene dato, ciò che la nascita ha compiuto e il prima ancora che fosse concepito a cui questo nome si ricollega. Questo movimento descritto in modo perfetto è il movimento fondamentale del desiderio. Desiderare in modo profondo, quello che muove le nostre vite, funziona esattamente così. C’è un giorno in cui noi riusciamo a dirci che desidereremmo questo piuttosto che quello; quel giorno è un compimento, cioè ha dietro una lunga storia in cui il desiderio si forma, si coltiva e facciamo i fatti con il coraggio di ammetterlo, perché se uno ammette di desiderare una cosa, ammette di essere mancante, ammette di non essere pienamente soddisfatto. Dunque c’è un lungo processo al termine del quale diciamo finalmente il nome che, molto prima che tutto questo processo cominciasse, ci aveva messo in moto.

Il desiderio in molte tradizioni religiose è considerato un’espressione molto negativa. Il Cristianesimo lo considera invece un’esperienza positiva. Non una brama, un possesso, un bisogno, ma esattamente il contrario, un motore fondamentale. Soprattutto il Cristianesimo parte dal principio che il desiderio profondo di noi è posto in noi da Dio: dunque farsene carico e averne il coraggio significa in realtà cercare Dio. Ovvio che questo implica nell’esperienza cristiana un esercizio di discernimento dei desideri. Tutti i grandi maestri dello Spirito elaborano strategie chiamandole in modi diversi. Ignazio lo chiama “discernimento degli spiriti”, Teresa D’Avila “vaglio dei desideri”. Essi offrono strategie perché sono ben consapevoli che non accade niente di vero nella nostra vita se non in seguito ad un desiderio. Noi abbiamo la presunzione assoluta che tutte le cose nella vita accadano per scelta (oltretutto operata “dalle sopracciglia in su”!): cioè valuto una cosa, la ritengo giusta, la scelgo, la faccio. Scelta più volontà. Ora scelta e volontà evidentemente contano, hanno il loro ruolo, ma le cose vere, profonde accadono mosse da un desiderio sul quale una persona ci mette sì scelta, volontà, l’impegno, ma anche tutta una serie di altre cose, come il coraggio, perché altrimenti non si fa carico del proprio desiderio.

Questo breve brano ci presenta due anziani personaggi, figure tipicamente vetero-testamentarie, cioè dell’Antico Testamento, come in tutti i primi capitoli di Luca. Ci dipinge Giovanni il battista, Zaccaria, Elisabetta, fino a Giuseppe come Patriarchi, giusti e sapienti secondo la Legge dell’Antico Testamento. Dunque i due ci fanno un po’ tenerezza, sono particolarmente patetici.

Luca ci sta dicendo che la funzione di Israele dell’Antico Testamento non è solo pedagogica: cioè che essere persone per bene non è un optional.

Cosa c’è da fare nella storia? Innanzitutto essere una persona per bene, poi un cristiano. Questi personaggi consentono l’inizio della vicenda di Gesù. Giovanni battista, Zaccaria, Giuseppe sono coloro che creano il terreno dove Gesù può nascere, crescere, essere educato e vivere. In questa dinamica del desiderio, Luca ci dice cosa c’è da fare nella storia: desiderare ma soprattutto farsi carico del proprio desiderio. Non dire: “la vita è andata così”, “è colpa della mia educazione”, “gli altri non mi capiscono”… l’elenco è facile da ricostruire. È l’atteggiamento di chi butta sempre fuori il proprio desiderio.

Ci viene dato questo titolo – “la dinamica del desiderio” – e poi si ritorna alla storia degli uomini, cioè a quello che accade; e si ricomincia esattamente con le stesse parole: “quando furono compiuti”, cioè la storia di Dio è la storia degli uomini, cominciano con le stesse parole; c’è un compimento necessario, le cose devono avere il loro tempo. Un tempo serve non a noi, ma perché le cose abbiano il loro tempo. Perché non basta decidere che una cosa è fatta perché sia fatta.

Luca sottintende che solo Dio può dire: “sia luce e luce fu”, perché solo Lui è il creatore. Se noi diciamo “sia la luce” non succede niente perché per compiere l’opera di portare la luce in una casa bisogna fare un impianto, collegarsi all’Enel, fare una serie di cose e per questo ci vuole tempo.

“Quando furono compiuti i giorni della loro purificazione rituale, secondo la legge di Mosè, portarono il bambino a Gerusalemme per presentarlo al Signore”.

Bisognerebbe fare un lungo lavoro su questa parola che, nell’originale greco, è molto particolare. Abbiamo in mente la presentazione al tempio; ci sembra una parola felice, poi nel nostro linguaggio comune, quando diciamo ti presento il tal dei tali, intendiamo un’altra cosa. Il riferimento è alla piaga dei primogeniti in Egitto: con quel gesto che salva la vita ai primogeniti di Israele, Jahvé li acquisisce come proprietà propria. Dunque tutti i primogeniti sono proprietà di Dio e vanno riscattati. Israele fa propria la legge di compiere una offerta al Signore: una copia di tortore, due giovani colombe, secondo l’uso antico dello scambio uomo-animale, in cui ciò che io non posso dare di mio lo faccio dare dalla vita di un animale. Compie questo scambio per riscattare i primogeniti, ma qui la parola usata è presentarlo, portarglielo, non portarselo via. E’ strano il gesto del riscatto, è presentato al contrario; si porta al tempio perché nella legge di Mosè il riscatto è contemporaneamente un atto di donazione. Si porta per ricevere di nuovo.

La storia del desiderio degli uomini comincia con un gesto doppio, ambiguo, si dà per riottenere. Si scommette per vincere. Il desiderio più profondo che ci anima e che, se ce ne facciamo carico, ci rende a noi stessi. E’ faccenda di una vita tutta intera: il desiderio di una casa, di un matrimonio, di una laurea…

Accogliere tra le braccia e benedire

Questa è la premessa, poi vengono presentate due figure, un uomo ed una donna. L’uomo è verboso, invadente; la donna è sintetica, di poche parole. Luca è chiamato il vangelo delle donne. Di fronte l’evangelista ha delle comunità pagane che hanno un rapporto diverso con le donne, rispetto alle comunità di provenienza giudaica. Il mondo pagano, quello greco-ellenistico, non aveva ampia presenza pubblica di donne. Luca cerca di mostrare che su questo punto il cristianesimo va bene per gli uni e per gli altri e che il cristianesimo non ce l’ha con le donne.

“A Gerusalemme c’era un uomo di nome Simeone, uomo giusto e pio che aspettava la consolazione di Israele e lo Spirito Santo era su di lui”.

Ancora una delle sintesi di Luca, “uomo giusto e pio” – essere una persona per bene è un punto di partenza senza il quale non si ragiona nemmeno – “che aspettava la consolazione di Israele”, cioè che aveva un desiderio di consolazione per sé e per Israele. Se andate al v. 38, Anna non aspettava la consolazione di Israele ma parla del bambino, “a quanti aspettavano la redenzione di Gerusalemme”, come se lei non aspettasse niente. Semplicemente racconta ad altri e questi aspettavano la redenzione, non la consolazione.

“E lo spirito Santo era su di Lui”. Nei primi capitoli di Luca lo Spirito Santo fa lo straordinario: l’annunciazione, la visitazione di Elisabetta, il racconto del Natale. Luca mostra come la presenza dello Spirito Santo è una cosa molto concreta, reale. Qui abbiamo un problema di genere letterario: l’espressione “lo Spirito Santo era su di Lui”, che cosa vuol dire? Tutti abbiamo fatto la Cresima, abbiamo ricevuto il sigillo dello Spirito Santo. Nel battesimo riceviamo lo Spirito santo; tutte le volte che andiamo a messa sentiamo che il sacerdote prega l’epiclesi, cioè invoca lo Spirito perché scenda sul pane e sul vino. Che significa? Stiamo dicendo semplicemente la norma di ciò che ogni cristiano vive dal momento in cui è battezzato. Oggi sosteniamo che lo Spirito Santo è ‘dentro’ di noi e non più ‘su’ di noi. Siamo diventati più intimisti, infatti non abbiamo più le regole del capo coperto e scoperto, perché non comprendiamo più il segno di qualcosa che sta sopra. “Lo Spirito Santo era su di Lui”, cioè noi scommettiamo sul fatto che ciò che abita la più profonda verità di noi viene da Dio. Facciamo un atto di fede che l’ultima verità di me che mi abita non è un male e che dunque ci si può fidare.

“Mosso dallo Spirito si recò al tempio e mentre i genitori vi portavano il Bambino Gesù per fare ciò che la legge prescriveva anch’egli lo accolse tra le braccia e benedisse Dio”.

Luca ci sta dicendo che la verità profonda di noi chiede che il tempo sia occupato in queste due azioni: accogliere tra le braccia e benedire.

A cosa serve che ci sia ancora tempo? Serve per imparare ad accogliere tra le braccia e benedire la nostra vita, la vita altrui, le cose che accadono, la libertà degli altri. Accogliere tra le braccia, troppo poco rispetto all’amare. Significa prendersi un peso, tenerlo stretto, non farlo cadere; vuol dire delle cose molto concrete. Forse non è la pienezza di tutti gli amori possibili, ma ciascuno di noi ha sperimentato che cosa vuol dire essere abbracciati e sa bene quanto conta, che differenza fa.

Poi c’è la famosa preghiera di Simeone: “Ora puoi lasciare che il tuo servo vada in pace secondo la tua parola…”. Il desiderio di Simeone è un desiderio “ad intra”, è il desiderio della consolazione, è il patto tra lui ed il Signore. E’ la sua vita che si compie, sarà la profezia rispetto ai genitori. Simeone sta nel tempo mosso dallo Spirito, va al tempio, benedice il Bambino, benedice i genitori.

Anna ha un movimento totalmente “ad extra”, lei che non si allontanava mai dal tempio, non parla con loro, ma “sopraggiunta in quel momento si mise anche lei a lodare Dio e parlava del Bambino a quanti aspettavano la redenzione di Gerusalemme”. E’ rivolta al di fuori, non ha un patto con Dio, anzi ha una storia di disgrazie. Si era sposata, aveva vissuto 7 anni con il marito e poi era rimasta vedova ed ora ha 84 anni. Ricordo che secondo le consuetudini del vicino Oriente ci si sposava molto giovani. Questo significa che ha vissuto almeno sessant’anni di vedovanza. Anche Simeone ha un patto: “Non morirai finché non vedrai”.


A cosa ci serve il tempo? A diventare noi stessi, a fare un patto con il Signore, a compierlo, a ricevere e a dare benedizione quanto alle cose che so, che sono, che faccio. Questo è Simeone.

A cosa ci serve il tempo? A parlare del bambino a quanti aspettano la redenzione di Gerusalemme, a sopportare sessant’anni di vedovanza, a reggere di non allontanarsi mai. Questa è Anna.

Luca ci vuole impegnati su due fronti. O meglio vuole metterci in guardia dai due estremi. Per cosa ci serve il tempo? Da una parte per realizzarsi, per illuminarsi, per capire meglio, per crescere (è il cristianesimo come fitness), dall’altra per convertire il mondo. Luca li inserisce tutte due e non è un caso che siano una figura maschile e una femminile: la “ad extra” è femminile e la “ad intra” è maschile, al contrario di tutti gli stereotipi. Avremmo visto meglio una donna che prende in mano Gesù Bambino e un uomo che va fuori a predicare; invece l’uomo prende in braccio Gesù Bambino e la donna va fuori a predicare.

In mezzo c’è quella bella osservazione: “Il padre e la madre di Gesù si stupivano delle cose che si dicevano di Lui”. Cioè la storia non serve solo per scegliere, ma si deve sapere che le scelte non dipendono dallo stupore, dal desiderio, dalla non comprensione. Perché le scelte sono solo una parte di quello che sono. La vita ci mette il resto e ha i suoi tempi e dunque il padre e la madre del Bambino, che già avevano visto gli Angeli alla nascita, i pastori, i Re Magi… si stupiscono di quello che viene detto di Lui.

Poi c’è questa meraviglia. Simeone benedice e dice a Maria: “Egli è qui per la caduta e la resurrezione di molti in Israele come segno di contraddizione – e anche a te una spada trafiggerà l’anima – affinché siano svelati i pensieri di molti cuori”. E’ un benedizione con un contenuto importante: “Una spada ti trapasserà l’anima e siano svelati i pensieri di molti cuori”. Anche qui abbiamo il problema di genere letterario. I cuori sono spaccati perché sono svelati. Quello che Gesù fa è mettere in chiaro, spaccare i cuori, prima di tutto a sua madre.

Perché abbiamo bisogno di tempo? Per aspettare che il nostro cuore ce la faccia a farsi carico di un desiderio degno di essere visto. Dunque una benedizione. Viene detto a Maria che il suo cuore sarà aperto e sarà rivelato il suo desiderio e si vedrà che è un desiderio buono, che è un desiderio di vita per sé e per il mondo.

Invecchiare aspettando

Anna – i versetti che la riguardano sono pochi – è una figura che a me piace moltissimo, tanto che l’ho ripresa nel titolo con l’espressione “Invecchiare aspettando”. Essa incarna l’ostinazione caparbia di costringere la vita a mostrare che non si è desiderato invano. La nostra tendenza è riduzionista, guardiamo più al risultato che al percorso. Dunque se una cosa non funziona una, due o tre volte, non è economico continuare ad insistere. La vita non ha questi ritmi. Bisogna ostinarsi, perché la vita mostri la propria verità per essere all’altezza del proprio desiderio. Ricordate il testo largamente citato, tratto da “Il cielo diviso” di Christa Wolff. In quelle poche righe1 si dice che la protagonista cammina nella sera guardando dentro le finestre illuminate. Rita, così si chiama, è la sola per strada e vede dei riti serali: la minestra, i bambini messi a letto, e pensa stupita come un cumulo di benevolenza consumata durante il giorno, viene rigenerata ogni sera per essere di nuovo disponibile e aggiunge che non teme di essere esclusa dalla ripetizione di quella benevolenza. Quante volte noi temiamo di essere esclusi dalla ripetizione della benevolenza e dunque molliamo l’ostinazione. Quanto è forte questo tema della paura del controllo! Anna non si allontana mai dal tempio, è ostinata nella sua decisione di coltivare la redenzione di Gerusalemme per quello che le è dato.

“Quando ebbero adempiuto ogni cosa, secondo al legge del Signore, fecero ritorno in Galilea, alla loro città di Nazareth”.

Il versetto finale chiude costruendo un parallelismo con il versetto iniziale.

Cosa succede dopo? Si vive. Che altro c’è da fare? A che serve il tempo? A vivere. Anche per Gesù. “Il Bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era su di Lui”. Solo a Gesù e a pochi altri queste cose sono riuscite bene e insieme: crescere e fortificarsi con la sapienza e la grazia. Noi cresciamo per il trascorrere inevitabile dei giorni e del tempo, ma abbiamo delle asincronie tra come ci sentiamo dentro e il numero di anni scritti sulla carta d’identità. Ogni tanto ci fortifichiamo, ogni tanto stiamo fermi: la fortezza non cresce di pari passo con l’età. La sapienza ha dei periodi intensivi, intuiamo una cosa che poi per due anni magari rimane ferma. Qui ci viene detto che il tempo serve per vivere e perché queste dimensioni – il crescere e il fortificarsi – possano arrivare tutte al punto dove devono arrivare, possano aspettarsi l’un l’altra e spingersi.

A questo punto l’associazione con il famoso Salmo 42 (che si intitola “il desiderio della cerva”) è chiara ed evidente. “Come la cerva anela ai corsi d’acqua così la mia anima anela a te o Dio”: forse, al di là della immagine poetica, in questa chiave di lettura l’espressione diventa un po’ più chiara e visibile. La metafora è simile ad un cartone animato. Dice lo stupore di un popolo del deserto abituato a trattare con un quadrupede di mezza taglia, molto elegante e che sta cercando l’acqua per sopravvivere: non è un cammello ma è un animale che ha bisogno di bere. Con questa performance da National Geographic vi faccio vedere la portata del tema del desiderio, sottolineandovi l’ultimo versetto: “Perché ti rattristi, anima mia, perché su di me gemi? Spera in Dio: ancora potrò lodarlo, lui salvezza del mio volto e mio Dio”. Mi sembra il versetto giusto per augurarci Buona Pasqua, per andare verso questo tempo, in cui il Signore ancora una volta ci offrirà la possibilità di stupirci e di chiederci: “Perché mi stavo rattristando, perché non avevo il coraggio di desiderare?”.

Fossano, 13 marzo 2010

(testo non rivisto dal relatore)


1 La giornata, la prima giornata della sua nuova libertà, è quasi finita. Il crepuscolo sta sospeso, basso, sulle vie. La gente torna a casa dal lavoro. Tra le buie pareti delle case scattano i quadrilateri di luce. Ora, hanno inizio le cerimonie private e ufficiali della sera – mille gesti vengono compiuti, anche se alla fine non producono altro se non un piatto di minestra, una stufa calda, una canzoncina per i bimbi. A volte, un uomo segue con lo sguardo la sua donna, che esce dalla stanza il vasellame, e lei non si accorge com’è sorpreso e grato lo sguardo di lui. A volte, una donna accarezza la spalla di un uomo. E’ molto tempo che non l’ha fatto, ma al momento giusto sente che lui ne ha bisogno.
Rita fa un lungo giro vizioso per le vie e guarda dentro molte finestre. Vede come, ogni sera, un cumulo infinito di benevolenza, consumata durante il giorno, si sia rigenerata e riprodotta a nuovo. Non teme di restare a mani vuote nella ripartizione di quella benevolenza. Sa che talvolta sarà stanca, talvolta irritata e rabbiosa. Ma non ha paura.
Pareggia tutto il fatto che ci abituiamo a dormire tranquilli. Che viviamo senza risparmiarci, come se ce ne fosse anche troppa di questa strana sostanza ch’è la vita.
Come se non dovesse avere mai fine.

Christa Wolff, da “Il cielo diviso” ed. E/O

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