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17 Ottobre 2009
Stella Morra

1. Mondo come sacramento, e cioè abbiamo risposte o domande?

Commento a: Mt 16, 1-12; Sal 126


Premessa

Negli ultimi anni abbiamo collegato il tema delle lectio al piano pastorale diocesano, ma senza farci condizionare eccessivamente, senza sentirci in dovere di fare esattamente la stessa cosa. Quindi, tenendo presente l’orientamento, se ci ritroviamo, se funziona nel nostro percorso, ci teniamo vicino a quel tema. L’anno scorso il tema diocesano era sulla doppia cittadinanza – essere cittadini di due città, cioè della vita di fronte a Dio e di fronte alla nostra realtà più concreta, umana – e ci siamo mossi su quel tema. Quest’anno la diocesi ha scelto il tema che, in qualche modo, è l’altra metà di quella faccenda, cioè l’idea dell’essere cittadini del mondo a pieno titolo, prendendo in considerazione i problemi concreti: ambiente, economia, le questioni sociali, culturali che ci troviamo ad affrontare. Da questo punto di vista ci sembrava un po’ difficile e non proficuo fare un percorso di lectio frammentato, con un tema diverso per ogni incontro. Tra l’altro, poi, è sempre molto rischioso andare a cercare nella parola di Dio la risposta a questioni troppo concrete, legate al nostro tempo e alla nostra cultura che, ovviamente, non hanno una risposta diretta nella parola di Dio. Il problema ecologico nel primo e secondo secolo dopo Cristo non era la stessa cosa che abbiamo di fronte nel momento in cui noi, oggi, ci interroghiamo sulla nostra responsabilità di fronte al creato, sulla questione dell’ambiente. Ci siamo chiesti come mantenere questa questione sullo sfondo e abbiamo scelto questo tema, che ci sembra più adatto ad un percorso di lectio, e nello stesso tempo fondante: Pregare il mondo abitato. Il cosmo come sacramento.

In questo titolo le parole sono pesate una per una; faccio alcune sottolineature, poi ci torneremo durante il percorso.

In tempi come questi, in cui siamo provocati a “far interagire” la parola di Dio con i vari problemi della storia, abbiamo la responsabilità di dare soprattutto un’indicazione di metodo, non risposte concrete ai singoli problemi. In altri termini: bisogna diffidare di chi troppo immediatamente afferma che c’è una e una sola soluzione ai problemi della storia (indipendentemente dal fatto che noi siamo d’accordo o no).

Dall’altra parte, però, questo atteggiamento non può significare l’assenza, cioè non possiamo limitarci a dire: “Dunque non dobbiamo fare niente o possiamo fregarcene”. Piuttosto l’idea che noi consideriamo il mondo come un mondo abitato, cioè un mondo che non è solo le cose da una parte e gli umani dall’altra; da una parte le questioni di coscienza e dall’altra i problemi su cui basta essere efficienti, concreti, trovare buone soluzioni. Ma immaginiamo il mondo come un mondo abitato perché è il frutto della creazione. I cristiani credono che il mondo è una realtà complessa fatta di esseri umani, di cose, di animali, di relazioni, di storia, di tempo, di scelta. Per questo abbiamo usato questa espressione: il mondo abitato, perché è un insieme molto complesso, non è facilmente divisibile e, soprattutto in questo tempo, sempre meno si può dividere le cose e dire: bene, io sono una persona per bene, non ho fatto niente di male, in fondo non ho ucciso nessuno, non ho rubato, è il mondo che va a catafascio; perché, per esempio, sempre più andiamo scoprendo come il non essere abitanti presenti a questo mondo è già un modo di scegliere, come l’essere abitanti che pensano solo a una soluzione per sé o per la propria coscienza e non pensano mai a soluzioni comuni, ‘politiche’ è già un modo di scegliere. Il mondo abitato vuol dire tutta questa cosa.

La seconda parola importante è sacramento. Noi pensiamo al mondo abitato non per motivi culturali, non perché l’ecologia è tema di attualità e va di moda; ognuno di noi, di fronte a Dio, sa, o cerca di sapere ogni giorno, che niente di ciò che vediamo è semplicemente quello che è; né le cose, né le persone, né i gesti, né le parole, per chi è credente non sono mai solo la loro materialità, sono sempre un sacramento. Personalmente credo che su questo dovremmo riflettere molto, perché anche quando ci diciamo credenti finiamo sempre per essere un po’ materialisti, non tanto perché diamo valore al denaro, alle cose, ma perché in fondo siamo troppo immediatamente portati a pensare che una cosa, una scelta, una parola, siano esattamente quello che sono, punto e basta, niente di più. Di per sé, per chi è credente, ogni cosa è sacramento della presenza della voce di Dio; ogni persona, ogni parola, il bene come il male. Certo, non è sempre così facile scoprire che cosa Dio dice, ma noi crediamo che Dio non ha smesso di parlare, e che a causa dell’incarnazione ci parla ogni giorno attraverso i corpi, le storie, le persone.

La terza parola importante del titolo è pregare il mondo abitato. Chi frequenta da tempo l’atrio sa che l’atrio non corre troppo il rischio di essere spiritualista, cioè sa che non abbiamo la manìa di pensare che è solo questione di buoni pensieri e buone energie e tutto si risolve, no; però crediamo anche che rimettere al centro l’atteggiamento della preghiera sanamente intesa, come intesa dalla tradizione cristiana, che non è strane attitudini sentimentali o interiori, la preghiera per i cristiani è sapere che le soluzioni, quelle vere, che contano e che durano, sono quelle di Dio. Io devo fare tutto quanto mi compete, perché l’intelligenza che ho viene da Dio, perché quello che ho viene da Dio, perché la capacità di scegliere viene da Dio. Devo fare tutto quello che so perché la mia intelligenza viene da Dio, perché la mia volontà, la mia comprensione della realtà mi mettono in grado di fare, ma sapendo che il mio problema principale non è cercare le soluzioni, perché le soluzioni vengono dalla mano di Dio. Da questo punto di vista ci sembrava importante mettere anche a tema questa dimensione.

I temi di quest’anno sono: il mondo come sacramento, e poi alcuni dei sacramenti che ci è dato di incontrare. Ognuno di noi probabilmente ne incontra molti altri, ma questi sono alcuni che fanno parte della nostra tradizione umana, il sacramento della meraviglia, quello della libertà, della sconfitta, della pluralità, della passività, delle cose e della vita. Cioè, un esercizio, alla luce della parola di Dio, per tentare di allenare i nostri occhi a vedere il mondo come sacramento, a vedere le cose nella loro realtà e concretezza, ma contemporaneamente anche quello che non sta immediatamente nelle cose. Quando diciamo sacramento –questa è una precisazione puramente terminologica- da una parte ci vengono in mente i sette sacramenti, secondo la nostra tradizione; sono una connessione tra un’azione liturgica, la nostra vita in termini di responsabilità e di esperienza antropologica –esperienza del nascere, del cibo, ecc. Da questo punto di vista, tutte le volte che diciamo sacramento, proprio a causa di questa identificazione con i sette sacramenti, abbiamo un’automatica riduzione al sacramento come un atto puntuale, una cosa che succede, al punto che tutti ormai pensiamo che la prima comunione è un sacramento, mentre è sacramento la comunione, non la prima e basta. La prima comunione non è niente di particolare. Poiché riteniamo che l’Eucaristia è l’esperienza fondante della quotidianità cristiana, la prima volta che i piccoli accedono a questo sacramento la festeggiamo, è un momento bello, importante. Ma a forza di fare questo, pare che sia la ‘prima’ comunione il sacramento. In questo senso abbiamo una riduzione puntuale, cioè riduciamo il sacramento a un giorno, una festa, un momento, un tempo. E così anche per gli altri, l’esperienza di confessarsi ecc., che accade quel giorno lì. E’ vero, i sette sacramenti hanno un aspetto puntuale, ma di per sé il dato sacramentale non è un dato puntuale, ma un modo, uno stile, un atteggiamento, una opzione di esistenza che dura tutta la vita cristiana e ne tocca ogni aspetto. Spesso oggi si sente dire, in modo abbastanza diffuso, che un cristiano vive in modo eucaristico, ma rischiamo di non capirne il significato; il cristiano dovrebbe vivere in modo eucaristico. Questo vorrebbe dire che il problema non è quante volte fai l’eucaristia o se la fai oppure no, ma il problema è che la logica sacramentale, il paradigma, dovrebbe essere il modo con cui ti muovi nella vita, rispetto a tutte le cose della tua vita, non a una o all’altra. Da questo punto di vista forse bisogna un po’ capire cosa intendiamo quando diciamo la parola sacramento. E dunque io parto da un’ipotesi, per capirci da qua in poi, che è: ogni cosa è un segno, non si esaurisce in sè, rimanda a qualcos’altro, è più grande di se stessa, ma insieme non è solo un segno, se no useremmo la parola segno, ma, in un certo modo, anche la presenza della cosa a cui rimanda. Faccio un esempio molto banale per capirci: se io dico che la fotografia è un segno di quella persona, dico esattamente un segno, non è un sacramento, perché la fotografia mi rimanda alla persona, ma in sé la fotografia non ha niente di quella persona, ha la sua immagine esteriore, ma non mi dice che la persona è lì. La logica sacramentale cristiana dice che tutto è sacramentale e che nel sacramento, in un certo modo, si dà anche la realtà a cui si rimanda. E questo a causa di un fatto fondamentale che è l’Incarnazione, cioè Dio si è fatto uomo in Gesù Cristo, dunque in Gesù Cristo quelli che l’hanno incontrato, i suoi contemporanei, quelli che lo vedevano –e i vangeli ce lo testimoniano- venivano rimandati a Dio, -pensate a tutti i dibattiti nel vangelo in cui i discepoli chiedono: mostraci il Padre, facci vedere il Padre. Gesù non è un’altra cosa; e’, in un certo modo, cioè non in modo evidente, la presenza di Dio e allora i vangeli ci dicono per esempio che guarisce, che ha potere, e la gente si domanda: da dove gli viene questa autorità? Perché scaccia i demoni? Come ha fatto a ridonare la vista al cieco? Si chiedono perché quello che intravedono è una forma dell’essere presente di ciò a cui Gesù rimanda. Non è solo un profeta che rimanda a Dio, Isaia, Geremia …, ma è un ‘sacramento’ di Dio, cioè rimanda a Dio e contemporaneamente ne segnala la presenza reale. Ovviamente tutto il dibattito degli ultimi venti secoli nel cristianesimo è su quel ‘in certo modo’, perché: in quale modo? Una cosa sola è sicura: in modo non chiaro, in modo ambiguo, in modo che lascia l’interlocutore nella possibilità di dire forse è così, forse è cosà ! Non è mai ultimativo. La presenza sacramentale è una presenza non ultimativa. Non ti mette mai di fronte all’evidenza, ma ad una domanda: Cosa penso di questo? Da chi penso venga questa autorità? Come penso che costui abbia fatto questo miracolo? E questo è proprio dello stile sacramentale. Già con quanto appena detto c’è un bel po’ da pensare sul nostro modo di stare nel mondo. Se l’atteggiamento di un cristiano è l’atteggiamento sacramentale, non solo dobbiamo chiederci che cosa ci vogliono dire le cose, ma dobbiamo accettare una legge di ambiguità.

Distinguere i segni dei tempi

Il testo di oggi è tratto dal capitolo 16 di Matteo, i primi dodici versetti; è un testo strano, che ha dei paralleli negli altri sinottici; ho scelto il testo di Matteo perché è quello più duro, più netto, ma può essere interessante leggere anche gli altri sinottici.

Questo testo viene immediatamente dopo il secondo racconto della moltiplicazione dei pani – in Matteo ci sono due narrazioni della moltiplicazione dei pani; Gesù moltiplica i pani una volta per cinquemila e l’altra per settemila persone. Dopo questo racconto della moltiplicazione, cioè dopo un ‘segno’ (nei vangeli i miracoli sono detti ‘segni’), dopo che Gesù ha ripetuto per la seconda volta un ‘segno’, c’è questo episodio che abbiamo letto. I farisei e i sadducei chiedono un segno, Gesù li rimprovera molto aspramente, con parole molto dure – è raro trovare delle parole così dure nel vangelo –“…non sapete distinguere i segni dei tempi? Una generazione perversa e adultera cerca un segno, ma nessun segno le sarà dato se non il segno di Giona. – eppure lui ha appena dato dei segni! -. E lasciatili, se ne andò”. E poi c’è la seconda parte del testo con il dibattito con i discepoli sul pane.

Il soggetto della prima parte del brano sono i farisei e i sadducei. Attenzione, però; Matteo fa un parallelo molto netto, il soggetto della seconda parte sono i discepoli. E tutti e due ricevono un rimprovero. Le due parti sono parallele. E’ bello sottolineare che noi leggiamo sempre la prima parte e nella nostra testa diciamo: eh sì, i farisei e i sadducei sono cattivi, volevano uccidere Gesù, non capiscono. In realtà Matteo ci dice che questa confusione sui segni succede a tutti, ai farisei e ai sadducei, che mette insieme. Matteo probabilmente scrive per comunità di origine ebraica, dunque conosce bene la distinzione tra farisei e sadducei, che erano molto distanti tra loro, come la destra e la sinistra, conservatori e liberal. I farisei erano liberali in fatto di teoria, cioè sostenevano che la legge, la Torah, va interpretata e può mutare con il tempo, e rigidi in fatto di comportamenti: moralisti, ma intellettualmente aperti. I sadducei erano, in qualche modo, l’esatto contrario: erano misericordiosi, un po’ lassisti sul piano dei comportamenti – la vita è complicata, possono succedere tante cose- ma molto rigidi sulla teoria: la legge non può essere mutata, c’è scritto questo e a questo bisogna attenersi. Poi se uno non ce la fa, va beh, si trova il modo di espiare. Erano un po’ le due facce di un giudaismo che stava in una grande transizione, perché al tempo di Gesù – infatti dopo la morte di Gesù cadrà il tempio, cambierà radicalmente il giudaismo- c’era stato questo grande incontro, da una parte, intellettualmente, con il mondo greco, dall’altra, praticamente, con la dominazione romana, che avevano trasformato molto non tanto la teoria dell’ebraismo, ma il suo modo di possibilità di essere dei buoni ebrei – esattamente il tempo in cui siamo noi! Apparentemente l’impatto con le nuove culture, con i cambiamenti, ci ha reso ‘impossibile’ essere dei buoni cristiani secondo l’apparato di comportamenti, abitudini, devozioni, che per i nostri nonni era più o meno naturale e nemmeno così problematico. Poi non è che fossero tutti buoni cristiani, c’erano i buoni cristiani e quelli non tanto buoni anche una volta, ma più o meno si sapeva cosa voleva dire. Oggi siamo in una situazione molto più confusa, più complessa; se dovessimo definire chi è un buon cristiano, credo che solo qui dentro questa sala, avremmo già venti definizioni diverse, che dipendono dal fatto che ad ognuno di noi sta più a cuore una cosa piuttosto che un’altra o una gli sembra più importante di un’altra. Nella stessa situazione, dalla politica alle cose più private, gente che si dice cristiana, e che non abbiamo motivo per pensare che non lo sia, fa delle scelte opposte. E allora cosa facciamo? Non ci parliamo perché se no litighiamo!? Siamo esattamente in questa situazione di grande transito. Qui si dice, i farisei e i sadducei, ma dopo si dice anche i discepoli. I discepoli erano brava gente, un po’ più semplice, fuori da questi dibattiti tra farisei e sadducei, tra loro non c’erano molti intellettuali e avevano intravisto in Gesù qualcosa di fondamentale, si erano messi alla sua sequela perché lui li aveva chiamati; seguivano un’intuizione nuova, ma non sapevano bene dove andava a parare e la dimostrazione è che in questo testo ci mettono un po’ prima di riuscire a capire di cosa Gesù stia parlando; non sono così immediati. Fino alla risurrezione di Gesù, fino alla Pentecoste, ma anche dopo che Gesù è risorto, quando Gesù appare come risorto, i vangeli ci dicono che i discepoli pensano sia un fantasma, non capivano … Rispetto ai farisei e ai sadducei abitano la transizione avendo intuito qualche cosa, ma navigando a vista, senza troppa comprensione. Dunque ci stanno dentro tutti: quelli che hanno pensato qual è la soluzione per la transizione, di destra o di sinistra, e quelli che hanno intuito qualcosa, ma non sanno bene qual è la soluzione. Per Matteo stiamo tutti in questo dibattito sui segni. C’è una differenza: i farisei e i sadducei, dice Matteo, si avvicinarono ‘per metterlo alla prova’, non per sapere, per conoscere, per chiarirsi le idee, perché, certo, loro rappresentano quelli che in qualche modo hanno già capito quale è la soluzione e quindi vogliono mettere alla prova Gesù. E dunque Matteo ci dice: meglio non aver capito qual è la soluzione, perché è meglio mettersi alla sequela di Gesù.

La logica dei segni: domande, non risposte

“E gli chiesero che mostrasse loro un segno dal cielo”. E’ buffo; il vangelo ha appena finito di raccontare un segno grandioso che si presenta come una soluzione: la gente ha seguito Gesù, ha fame, Gesù è commosso dalla fame della gente, moltiplica i pani –alcuni sanno che Gesù li ha moltiplicati, altri non sanno da dove arrivi quel pane, ma sta di fatto che tutti si riempiono la pancia, dunque il problema è risolto. Un segno proprio come lo intenderemmo noi, un segno che risolve un problema. E’ appena accaduto questo. I farisei e i sadducei si avvicinano per chiedere un segno. Tradotto in termini contemporanei dovremmo dire: le prove non bastano mai. Funziona come gli amori, la tentazione è grandissima; tutte le favole raccontano che gli amori tra la principessa e il cavaliere comportano sempre tre prove: di abilità, di forza o di coraggio; e tre prove sono una favola; il problema è che trentamila sono un incubo. Cioè, ognuno di noi è permanentemente tentato, in una situazione come un amore, cioè in una situazione vitale, in una situazione che non comporta tanto un dato matematico o scientifico, ma in una situazione di rapporto che, dunque, cambia ogni giorno, è permanentemente tentato di mettere sempre alla prova l’altro, di chiedere sempre segni. Solo che ad un certo punto uno si rende conto che non può stressare l’altro fino all’infinito, ad un certo punto deve darsi un po’ pace, perché se no non si arriva da nessuna parte. Qui ci viene detto che anche dalla parte di Dio i segni non basterebbero mai, dal nostro punto di vista. Cioè, poiché la nostra storia con lui evolve, saremmo permanentemente tentati di dire: e va beh, no, adesso io potrei credere veramente se Dio mi facesse questo o mi facesse vedere quest’altro; poi magari Dio lo fa anche, o lo facciamo noi, o la vita gira così e uno dice: sì, va be’, quello era un problema, però adesso è risolto … se io capissi chiaramente cosa vuol dire questo, se Dio mi facesse capire veramente questo … Cioè la logica dei segni è per noi insopportabile perché noi vogliamo risposte, non domande. Il problema, però, è che le cose serie della vita sono delle domande e non delle risposte –e tra l’altro il loro bello è nell’essere delle domande. E’ dal punto di vista del commercio, del mercante che la soluzione, le risposte –ricordate il testo del vangelo che racconta la parabola dell’uomo ricco che costruisce i granai e dice: adesso riposati, anima mia, e, il vangelo dice: quella notte stessa morì e noi diciamo: caspita, che sfortuna. Ma in realtà il problema è che le cose serie della vita non hanno mai un punto in cui possiamo dire: riposati anima mia, sono completamente soddisfatto. Non siamo mai completamente soddisfatti! E non è nemmeno un male; siamo vivi perché siamo insoddisfatti; siamo vivi perché siamo curiosi; siamo vivi perché abbiamo dei desideri; siamo vivi perché quello che abbiamo avuto ci pare sempre meno di tutto quello che sta davanti a noi. Il problema è come abitiamo questo desiderio di segni, perché se lo abitiamo in senso mercantile, di accaparrare segni, di cercare soluzioni, diventiamo vivi ma egoisti. Se invece lo abitiamo come il motore che ci fa vincere la paura dell’altro, dell’ignoto, del cambiamento, il desiderio che ci spinge, per cui ci riconosciamo fratelli nel fatto di essere tutti ‘desideranti’, cioè se abbiamo il coraggio di abitare le domande, di non muoverci solo nella logica delle soluzioni, a quel punto diventiamo un sacramento.

Interpretare e distinguere

Gesù risponde così: “Quando si fa sera voi dite bel tempo perché il cielo rosseggia, e al mattino oggi burrasca perché il cielo è rosso cupo. Sapete dunque interpretare l’aspetto del cielo e non sapete distinguere i segni dei tempi”.

Questa espressione, i segni dei tempi, è stata ripresa dal Vaticano secondo. Ovviamente nel vangelo c’è sempre stata ma dopo i primi tre o quattro secoli era un po’ caduta in disuso, non ricorreva più, perché il cristianesimo si era spostato, dopo i grandi concili, verso il sesto secolo, in questa ambiguità del sacramento, sull’aspetto delle risposte, ha costruito un grande sistema di verità. E poi la transizione in cui noi siamo ci ha costretti, e il Vaticano secondo ne è il segno, a riprendere in mano la questione delle domande, perché la transizione non ci consente più di avere l’impressione che tutto sia stabilito, che basta ripetere ciò che è sempre stato fatto. E allora il Vaticano secondo è andato a ripescare nella sapienza del vangelo questa parola, questa espressione. E Gesù dice: sapete interpretare l’aspetto del cielo e non sapete distinguere i segni dei tempi. La differenza dei verbi non è da poco, anche nell’originale greco: l’aspetto del cielo si interpreta, e noi saremmo portati a dire che anche i segni dei tempi si interpretano, e invece qui si dice: e non sapete distinguere i segni dei tempi. C’è una differenza; il discorso che ho fatto fin’ora sul sacramento non significa semplicemente che le cose sono sacramento e spetta a noi interpretarle: ognuno la pensa come vuole, ognuno interpreta come gli pare, perché questa, ancora una volta, è la logica del mondo. Qui il problema è distinguere, non interpretare! Distinguere negli elementi di realtà. E qui c’è una questione che vi sembrerà molto delicata, ma non lo è affatto, è una questione molto seria. Faccio un esempio concreto e forse banale, come al solito, però magari chiarisce: quando c’è una discussione tra due persone che si vogliono bene, che hanno un legame di amicizia, di amore o di famigliarità e si comincia a discutere su una cosa qualsiasi, in genere ci si incaponisce e si comincia con l’orgia delle interpretazioni – tu hai detto, forse volevi dire, forse non hai fiducia in me; no, ma tu avevi detto prima che …- le interpretazioni in genere rendono impossibile uscire dalla questione e alla fine si esce solo con un colpo di reni, cioè spostando la questione da un’altra parte, perché tutte le interpretazioni sono possibili, di per sé. Com’è che una discussione prende un’altra piega? Quando non si interpreta, ma si distingue, cioè quando uno dice: ok, hai ragione, forse in questa situazione io mi aspettavo questo, non è venuto, io mi sono sentito ferito. Quando io distinguo, per esempio, ciò che mi aspettavo dalla realtà che è accaduta e sono in grado di vedere che alcune cose attengono alla realtà, che l’altro non ha fatto niente di grave, che però effettivamente io mi aspettavo qualcosa che non è accaduto e posso anche dirti: in fondo speravo che tu capissi che cosa io mi aspettavo. Ma la distinzione dei piani rende possibile ragionare. E’ chiara la distinzione tra interpretare e distinguere? E’ esattamente così in questo caso. Qui il problema non è interpretare il mondo come un sacramento e allora uno dice: lo sfavillìo dalla finestra mi dice dalla parte di Dio che … perché questa è una follia, ma è distinguere. Distinguere il piano della realtà, distinguere le diverse libertà che sono in gioco, cosa attiene alla mia scelta, cosa no, cosa io posso mutare, cosa non posso mutare, cosa attiene alla libertà di qualcun altro, cosa attiene alla logica della vita com’è, cosa attiene a certe impostazioni o ad altre … I segni dei tempi sono innanzitutto da distinguere.

E Gesù allora, almeno secondo il vangelo di Matteo, dice questa frase durissima: “Una generazione perversa e adultera cerca un segno, ma nessun segno le sarà dato se non il segno di Giona. E lasciatili se ne andò”. E’ una frase dura ed anche un po’ ingiustificata; ha fatto miracoli fino qui e ne farà ancora. Cosa vuol dire, nessun segno le sarà dato? Segni ne ha dati, e anche molti. Qui Matteo ci vuole far capire che, appunto, Gesù non entra in questa logica, non si offre all’interpretazione. Il segno di Giona, che è stato tre giorni nel ventre della balena, è unanimemente interpretato come la morte e la risurrezione di Gesù. Il profeta Giona viene buttato giù da una nave e viene inghiottito da una balena; sta tre giorni nella pancia della balena e poi viene sputato su una spiaggia. Su questo, per esempio, il vangelo di Giovanni costruisce il fatto che dal venerdì pomeriggio al sabato sera, secondo lui, passano tre giorni. Gesù muore il venerdì pomeriggio, risuscita nella notte tra il sabato e la domenica e dice: è stato tre giorni nel sepolcro. Non è stato tre giorni nel sepolcro, ma un giorno e mezzo scarso, secondo la cronologia. Però Giovanni usa questo esempio; era molto diffusa questa interpretazione allegorica del testo di Giona,come la figura del Cristo. Qui si dice: non sarà dato nessun segno se non il segno di Giona ed è il raddoppiamento del raddoppiamento del sacramento. Matteo mette in bocca a Gesù un’immagine, non dice: se non la mia morte e risurrezione, che sarebbe stato diretto. Un’immagine per indicare la morte e risurrezione, che è comunque un evento sacramentale difficile da distinguere, soprattutto nel durante, di qualche cosa, che è l’amore di Dio per tutta l’umanità, la salvezza che ha preparato per tutti, mette tutto sotto il segno di un segno che è il segno di un altro segno. Crea una successione di segni e dice: nessun segno gli sarà dato, di quelli che sono chiesti; nessun segno definitivo, ultimativo; noi dovremmo dire, nessuna risposta, ma solo il moltiplicarsi delle domande. Chiedete risposte e avrete il moltiplicarsi delle domande; questo è il significato di questa frase. Per questo il titolo della riflessione di oggi è: il mondo come sacramento, cioè: abbiamo risposte o domande? La fede cristiana è una risposta o una domanda? L’abbiamo già detto molte volte: io credo che in questo siamo veramente troppo figli degli ultimi tre secoli in cui l’idea era che le verità della fede hanno una risposta per tutto. Ma la fede funziona come un amore. Un amore non è una risposta, è una domanda, perché sbilancia la mia vita. Il che non vuol dire che sia una domanda intellettuale, che dopo sto inquieto; sto anche inquieto, certi giorni, e certi giorni sto contento e basta, ma è qualche cosa che mi chiama fuori di me. Un amore si pone nella mia vita come un’esigenza in cui spesso mi arrabbio perché mi arrabbio del fatto di sentirmi obbligato a rispondere a quella esigenza e mi fa girar le scatole che non sono più ‘libero’, dove per libero intendo che posso decidere solo per me, che posso fare quello che mi pare, che non devo rendere conto a nessuno, che sarebbe un’ideale di libertà totalmente astratto. Negli amori, la presenza dell’altro, prima ancora che dica qualsiasi cosa, che abbia un certo carattere, il fatto solo che ci sia e che sia nella mia vita, anche se non aprisse nemmeno la bocca, poiché lui per me è importante, e io gli ho riconosciuto che sia importante, dentro di me, prima ancora di averglielo detto, questa cosa mi chiama fuori di me, mi costringe a fare i conti non solo tra me e me, ma tra me e il sentimento che ho verso questa persona. In questo senso l’amore è una domanda, non una risposta. Mi crea guai, non me li risolve. Ma non stiamo parlando di una questione semplicemente intellettuale, non sono domande o risposte mentali. Noi invece siamo molto abituati a ragionare sul cristianesimo come una specie di cassetta degli attrezzi che ha una risposta per tutti i problemi, dove ci sono delle verità: i cristiani pensano questo, o quello; su questo problema hanno questa risposta, su quello, quell’altra. Invece l’esperienza della scrittura ci dice che l’esperienza del cristianesimo è la domanda che Dio pone nella nostra vita perché noi non vogliamo più vivere da soli, perché volgiamo, da lì in poi, vivere con questa permanente domanda che è Dio nella nostra esistenza, con l’esigenza costante di fare i conti con un’altra libertà, che mi tira fuori da me.

Capire e ricordare

“E lasciatili se ne andò”. Poche volte, nei vangeli, Gesù se ne va di brutto, sono quattro o cinque episodi in tutti i sinottici. E’ proprio il segno della distanza. Gesù se ne va, non discute e si ritrova con questi discepoli a cui dice: “Guardatevi dal lievito dei farisei e dei sadducei”.

Perché usa l’immagine del lievito? Matteo gliela mette in bocca perché possa giocare con il miracolo della moltiplicazione dei pani di prima. Non sappiamo se Gesù ha usato questa immagine, ma a Matteo serve letterariamente per tirare i discepoli dentro a questa questione. Un po’ perché l’esperienza del lievito –per noi che lo compriamo al supermercato l’esperienza è diversa- ma il fatto di mantenere vivo il lievito era uno degli impegni dei popoli antichi: bisognava fare in modo che la catena non si spezzasse perché non lo trovavi più. C’è un lievito che va a male, che è figura in tantissimi proverbi, perché è pericoloso, irrancidisce tutto ciò che tocca, perché ha la capacità di costruire l’espansione del male. Ai sadducei si rimprovera che richiedono segni, ma ai discepoli si dice: attenzione, potete diventare dei motori del male, qualcosa che contamina, che fa marcire tutta la farina che tocca. Il rimprovero ai discepoli è molto più duro. “Guardatevi dal lievito dei farisei e dei sadducei”. Il lievito è un moltiplicatore.

E i discepoli non capiscono e Gesù dice loro: “Perché, uomini di poca fede, andate dicendo che non avete pane? Non capite ancora e non ricordate…” –questi due verbi, capire e ricordare, sono paralleli ai due verbi visti prima: interpretare e distinguere. Le due attitudini richieste al discepolo sono di capire e di ricordare. Distinguere è richiesto a tutti, è l’attività base; se uno vuole migliorare un po’ uno deve capire e ricordare. Su capire, bene, ci siamo, noi abbiamo sempre voglia di capire, su ricordare un po’ meno. Soprattutto, ricordare cosa?

“Non capite ancora e non ricordate i cinque pani, i cinquemila…” Nessun segno gli sarà dato; non ricordate che i segni ci sono già stati? Questo viene chiesto di ricordare. I segni, nell’esperienza credente, la sacramentalità del mondo, si legge sempre nella memoria. Bisogna ricordare quanti e quali segni abbiamo ricevuto.

“Allora essi compresero che egli non aveva detto che si guardassero dal lievito del pane, ma dalla dottrina dei farisei e dei sadducei”. Cioè, attenzione: il mondo è un segno, è un sacramento, ma non abbiamo immediatamente la possibilità di interpretarlo, se non come una domanda, e a partire dal ricordare. Noi, quasi quasi, saremmo convinti che Dio parla nel mondo, che il mondo è un sacramento, ma dal nostro punto di vista i segni dei tempi dovrebbero darci delle risposte. Cioè: il mondo è un sacramento nel senso che io che sono buono, mi metto, penso, rifletto, ascolto e finalmente so qual è la cosa giusta. Ma il mondo va interpretato come una domanda. I segni dei tempi, nella tradizione biblica, e anche secondo il vaticano secondo, sono quelle cose che ci chiedono conto della nostra fede al punto da farci capire meglio ciò che Gesù ha insegnato, cosa che non avremmo capito senza questi segni che venivano dai tempi. I segni dei tempi non sono, come noi oggi tendiamo ad interpretare, dei problemi a cui noi siamo chiamati a dare la risposta cristiana, sono il contrario, sono la domanda che il mondo ci fa per la nostra inadeguatezza di cristiani; e che ci convertono, non che convertono il mondo. Il vaticano secondo in questo è chiarissimo, indica tre come esempi dei segni dei tempi e dice: l’aspirazione dei popoli alla pace, che abita molto di più fuori dalla chiesa che dentro la chiesa; i giovani e le loro domande e la richiesta di emancipazione e il cambiamento di ruolo delle donne. Sono tre questioni che nascono fuori dalla chiesa perché noi non siamo stati all’altezza del vangelo, non abbiamo capito fin dall’inizio, per esempio, che bisognava servire la pace, e quindi ci convertono, questi segni dei tempi.

L’indicazione del Salmo

Quest’anno, per sovrabbondanza di parola di Dio e perché l’idea è “pregare il mondo abitato”, ad ogni incontro, tranne l’ultimo, è abbinato un salmo. Salmo che forse ci può accompagnare a riprendere alcuni temi emersi durante la riflessione. Il salmo indicato per questa volta è molto conosciuto. E’ un salmo che viene sempre citato sui temi della memoria, del ricordare ciò che il Signore ha compiuto, i segni ricevuti, la libertà – quando il Signore ricondusse i prigionieri di Sion. E’ un salmo che negli ultimi due versetti invita a distinguere: “Chi semina nelle lacrime mieterà con giubilo. Nell’andare, se ne va e piange, portando la semente da gettare, ma nel tornare, viene con giubilo, portando i suoi covoni”. Riprende questi temi perché mostra come la storia ha dei tempi e bisogna ricordare che il seme è già cresciuto una volta, per poter fare l’atto di fiducia di seminare ancora.

L’idea è quella di indicare ogni volta un salmo; a volte, come oggi, mi sembra evidente il collegamento, per cui non necessita di un lungo commento, altre volte lo commenteremo un po’ di più, e se vogliamo può farci compagnia nel mese, tra una lectio e l’altra.

Fossano, 17 ottobre 2009

(testo non rivisto dal relatore)

Lectio 2009/2010

DataTitoloCommento a:
14 Novembre 2009
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Mc 2, 1-12; Sal 1
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20 Febbraio 2010
Stella Morra
4. Il sacramento della sconfitta, e cioè abitare una fine
Mc 14, 1-11; Sal 130
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13 Marzo 2010
Stella Morra
5. Il sacramento della passività, e cioè invecchiare aspettando
Lc 2, 22-38; Sal 42
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17 Aprile 2010
Stella Morra
6. Il sacramento delle cose, e cioè possibile o impossibile?
Mc 10, 17-31; Sal 23
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15 Maggio 2010
Stella Morra
7. Il sacramento della vita, e cioè solo mangiare e pescare
Gv 21, 1-14
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