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17 Aprile 2010
Stella Morra

6. Il sacramento delle cose, e cioè possibile o impossibile?

Commento a: Mc 10, 17-31; Sal 23


Premessa

La dimensione sacramentale dell’esistenza è caratteristica propria dell’esperienza cristiana e su questo aspetto noi riflettiamo troppo poco. Siamo talmente abituati ai sacramenti come singoli atti, soprattutto quelli pensati ai bambini (prima comunione, cresima, battesimo), che non riflettiamo abbastanza sulla struttura tipica dell’esistenza cristiana. Che cosa è che fa del Cristianesimo, il Cristianesimo? E’ l’Incarnazione. Il corrispondente al tema dell’incarnazione è appunto la sacramentalità dell’esistenza, cioè a causa del modo con cui Dio ha voluto incontrarci “Dio ha preso carne” la carne non è più solo carne, ogni carne, ogni cosa è quello che è, e insieme è anche altro. Un Cristiano, da questo punto di vista, potrebbe essere definito colui che vive fedele alle cose e capace di vedere altro, e di fare altro, di essere altro. Il paradosso del Cristianesimo e la necessità di essere realisti e idealisti contemporaneamente, allo stesso modo, di appoggiare la propria esistenza sul fatto che tutto ciò che è lì è fondamentale, niente di ciò che è lì è indispensabile.

Lo stile corrispondente all’incarnazione è uno stile che prende sul serio le cose, la carne, il mondo, il cosmo, il tempo, e che contemporaneamente mentre lo prende sul serio sa che tutto questo non è l’ultima parola, non è l’unica cosa. Questo sembra complicatissimo, ma è più complicato spiegarlo che farlo, ciascuno di noi sa che per esempio nell’educazione dei figli paradossalmente devi fare attenzione ad ogni parola, perché ogni parola è importante, ogni atteggiamento può in qualche modo aiutarli o frenarli, ma contemporaneamente sai che non c’è niente che tu puoi dirgli che sia definitivo e risolutivo. I figli osservano tutto ciò che fai, ma nessuno dei gesti che si fanno sono giusti al punto che i figli siano educati e abbiano capito che cosa fare. Il paradosso è appunto l’importanza di ogni cosa e il limite di ogni cosa sono insieme, perché sarà solo la storia condivisa con il figlio, le parole e i silenzi, i gesti giusti e quelli sbagliati, assommato alla sua libertà che rimane, alla fine forse dà un’educazione. Nessuno di noi può campare pensando per ogni parola che dice quale potrà essere l’effetto. Dall’altra uno deve vigilare non sulle singole parole, ma su cosa gli viene in mente, cioè deve essere lui un adulto fatto il meglio possibile affinché nessuna parola sia risolutiva, ma che tutte le parole siano importanti. Essere vigilanti affinché globalmente il modo di ragionare e di agire siano comprensivi dell’attenzione a colui che hai davanti, questo è l’unico modo per tenere insieme e vivere l’importanza di ogni parola e l’insufficienza di ogni parola. Un cristiano è uno che vive così: ogni cosa, ogni parola, ogni gesto, ogni avere, ogni occasione della storia è importante, ma non è sufficiente. Adesso si capisce la nostra disattenzione sulla sacramentalità, perché è come se riflettessimo su ogni singola parola, ma non sull’insieme generale, ci chiedessimo se il singolo comportamento è giusto o sbagliato, ma non qual è lo stile globale sacramentale della nostra esistenza, dentro cui ci sta anche l’esperienza del fallimento e della sconfitta, cioè non è uno stile perfezionista, ma comprende anche la possibilità di errore. Ragionando su questo abbiamo trovato dei testi per riflettere su alcune caratteristiche a partire da come questa faccenda crea un’ambiguità, è un problema di equilibri, non è una soluzione una volta per tutte, c’è una grammatica, c’è il tema dell’attenzione, la necessità di uno stile, di essere attenti, vigilanti evangelicamente. Attenti a ciò che viene da fuori, come in questo ci sia il limite, la sconfitta, non è un tema di perfezione, ed in ultimo la riflessione su l’attesa e il compimento. Una vita sacramentale non si fa senza il tempo, e il tempo non è semplicemente che le ore passano. Il tempo è il territorio e il luogo dove tutto questo può accadere, bisogna avere del tempo condiviso per potere fare delle somme, come dice Simeone, ora tutto è compiuto, non è progettuale la sacramentalità, non possiamo programmarla prima. Unica cosa che si può progettare è di essere attenti e allora passato il tempo forse si può dire cosa abbiamo tenuto.

Il sacramento delle cose

Il testo di oggi offre una riflessione su una questione specifica, dopo il percorso fatto fin ora si potevano prendere molti casi concreti: il potere, le relazioni, l’amore, e vedere cosa succede ad essere sacramentali nelle cose. Tra i molti casi io ne ho scelto uno il sacramento delle cose, del possedere o del non possedere, che paradossalmente rischia di essere un po’ trascurato nei termini di sacra mentalità. Noi siamo abituati ad avere un ragionamento strettamente morale sulle cose: buono e cattivo, giusto e sbagliato. In genere, proprio perché strettamente morale, siamo abituati a pensare che il ragionamento morale è perfetto e il comportamento non c’entra niente. Il ragionamento tipico, ad esempio sul denaro, è che dovremmo essere tutti più poveri, poi quando uno dice di quantificare non in assoluto, ma qui ed oggi in quanti euro si traduce la soglia di povertà. Penso che non riusciremmo a metterci d’accordo, nel senso che dato che bisogna essere più poveri e la cosa è molto generale, alla fine ognuno fa un po’ come vuole, e per un verso è giusto, ognuno ha la propria responsabilità in rapporto alle cose, ma dall’altra parte è anche il sintomo di essere profondamente generici che rischia di non tradursi in niente. Il denaro è una delle cose che a causa della sua potenza simbolica ha un alto tasso di assuefazione, se ciascuno di noi per esempio campa con mille euro al mese e poi improvvisamente ne ha duemila, per i primi due mesi si sente Paperon de Paperoni, poi si sente normale e poi pensa come facevo a campare con mille euro al mese? Se poi passa a quattromila nel giro di un anno gli sembrerà di nuovo il minimo per vivere.

L’esempio del denaro vale anche per le altre cose, gli esseri umani esercitano la loro libertà e ci impediscono l’assuefazione, se uno si allarga troppo prima o poi quello che ti sta di fronte ti blocca, ma quello che non ha una libertà come le cose non ci blocca mai, o meglio la realtà ci blocca quando ci sentiamo un sacco sfortunati. Le cose non hanno una libertà di fronte a noi e quindi hanno un alto tasso di assuefazione perché la misura la facciamo solo noi, ho due giacche, mi serve una terza giacca? Mi serve soprattutto se ne ho vista una che mi piace e soprattutto la giacca stessa non mi dice ne hai già due datti una regolata. Il caso della sacramentalità delle cose mi sembrava interessante perché è il luogo tipico in cui noi siamo misurati con il reale, ma anche essere vigilanti da soli, nessuno può dire a me se io ho bisogno o no di un’altra giacca, lo so solo io ed è una decisione che posso prendere solo io.

Ragionando sul denaro avevamo ricavato due idee fondamentali: amministratori o possidenti riferiti ai brani evangelici in cui in uno c’è la figura dell’amministratore che sta per cadere in disgrazia e non sa come cavarsela e allora dice: “zappare non ho la forza, mendicare mi vergogno” allora chiama i debitori del padrone e gli fa uno sconto, e Gesù dice “il padrone lodò quell’amministratore infedele, fatevi amici con ingiuste ricchezze”. Ma come? Quello frega il padrone, poi lo frega anche dopo e Gesù dice che ha fatto bene? Qualcosa non torna. La riflessione fatta allora è che l’amministratore si mette nel posto giusto, amministra non possiede del suo.

L’altro brano in cui raccoglie molto grano, costruisce granai, riempie tutto, poi dice “riposati anima mia”, il commento di Gesù è “stolto quella stessa notte ti verrà chiesta la tua anima, cosa te ne farai di tutti i granai pieni?”, anche qui il ragionamento non torna, ma come quello era onesto, ha guadagnato del suo non doveva amministrarlo?

Nell’evangelo c’è qualcosa di strano nel rapporto con le cose, perché quello che viene negato non è avere o non avere le cose, ma pensare che le cose siano nostre, pensare di esserne padroni, anche quando ce le siamo onestamente guadagnate. Dobbiamo sempre trattarle come i beni di un altro, dunque possiamo scialacquarle, possiamo fare sconti a tutti, tanto non è roba nostra, le cose non richiedono correttezza. Secondo questa logica, è facile spendere i soldi degli altri. Le prospettive aperte da questo punto di vista sono molte, pensate ai santi che hanno sempre vissuto di provvidenza, noi li pensiamo sempre come degli sventatoni. Uno deve un po’ garantirsi, non si può mica campare di sola provvidenza, in realtà la figura dei santi che vivono di provvidenza ci mandano l’idea che loro non spendono mai del loro, in genere sono ottimi organizzatori, non è che se ne fregano del denaro, ma trattano sempre il denaro come delle cose che spostano, ma non accumulano nei loro granai, non pensano che sia una loro proprietà, è dei poveri, dunque ne arriva, forse anche tanto, allora lo organizzano e lo spendono, con leggerezza, perché non spendono del loro.

In questo quadro ho scelto il capitolo 10, di Marco molto conosciuto, in cui mi piacerebbe farvi vedere elementi più ampi, il cui sottotitolo è possibile o impossibile? In cui la questione è proprio questa in cui la sacramentalità delle cose è possibile o è una pura teoria impossibile? Essendo persone di questo mondo, gente normale, che non campa sulle spalle di qualcun altro, né di rendita. Si può davvero considerare le cose in maniera sacramentale?

Il testo – Mc 10,17-31

17Mentre usciva per mettersi in viaggio, un tale gli corse incontro e, gettandosi in ginocchio davanti a lui, gli domandò: «Maestro buono, che cosa devo fare per avere la vita eterna?». 18Gesù gli disse: «Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo. 19Tu conosci i comandamenti: Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non dire falsa testimonianza, non frodare, onora il padre e la madre».

20Egli allora gli disse: «Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza». 21Allora Gesù, fissatolo, lo amò e gli disse: «Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri e avrai un tesoro in cielo; poi vieni e seguimi». 22Ma egli, rattristatosi per quelle parole, se ne andò afflitto, poiché aveva molti beni.

23Gesù, volgendo lo sguardo attorno, disse ai suoi discepoli: «Quanto difficilmente coloro che hanno ricchezze entreranno nel regno di Dio!». 24I discepoli rimasero stupefatti a queste sue parole; ma Gesù riprese: «Figlioli, com’è difficile entrare nel regno di Dio! 25È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio». 26Essi, ancora più sbigottiti, dicevano tra loro: «E chi mai si può salvare?». 27Ma Gesù, guardandoli, disse: «Impossibile presso gli uomini, ma non presso Dio! Perché tutto è possibile presso Dio».

28Pietro allora gli disse: «Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito». 29Gesù gli rispose: «In verità vi dico: non c’è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi a causa mia e a causa del vangelo, 30che non riceva già al presente cento volte tanto in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi, insieme a persecuzioni, e nel futuro la vita eterna. 31E molti dei primi saranno ultimi e gli ultimi i primi».

Ho voluto leggerlo tutto perché normalmente nella liturgia viene letto diviso in due parti. Questo crea un piccolo problema perché abbiamo l’episodio del giovane ricco da una parte e il discorso di Gesù dall’altra, mentre è l’insieme che ci dà la chiave di lettura.

Prima osservazione, un tale gli corse incontro, nel vangelo di Marco il segno della fretta, del correre, dell’affrettarsi è il segno che noi oggi diremmo del kairos, del tempo favorevole, della grazia che passa, c’è sempre una buona scoperta di fronte alla fretta.

Nella logica di lettura sacramentale c’è di più, quando dicevo che il tempo è una caratteristica fondamentale, ci va tutto il tempo perché il sacramento si compia, ci va il tempo della vita perché la vita lo mostri. Spesso l’esperienza della sacramentalità è un’esperienza di memoria, noi viviamo le cose, poi le riguardiamo e le ricomprendiamo in profondità che nel momento in cui le vivevamo non avevamo avuto l’occasione di cogliere.

Il tempo non è irrilevante, ma il tempo non è tutto uguale, rispetto alla sacramentalità ci sono delle accelerazioni, non è un fatto meccanico, a volte è più lento, minuti che non passano mai e serate piacevoli in cui passa veloce e non ci si accorge di fare tardi. Il tempo del sacramento prevede sempre un’accelerazione, un momento di crisi, di indecisione, di spostamento degli equilibri. Passare dal camminare al correre vuol dire spostare il baricentro corporeo per non cadere, e se bloccate un fotogramma della corsa il piede dietro è già sollevato, quello davanti non è ancora appoggiato. Di per sé può essere l’immagine di uno che cade, c’è un momento di sospensione, in cui non sei appoggiato da nessuna parte, poi il piede si appoggia, ma è più facile cadere se uno corre rispetto a uno che cammina.

La sacramentalità delle cose è sotto il segno della fretta, della corsa, dello sbilanciamento, se uno si organizza l’esistenza in modo da tenere tutto fermo, tutto in ordine, tutto equilibrato, non succede niente, le cose parlano sempre meno, più le nostre vite sono organizzate, meno le cose parlano, bisogna mettere un po’ di fretta alle cose, sbilanciarle un po’. La poetessa Patrizia Cavalli dice: “una fretta pietosa che scompigli”. Le cose non parlano nell’equilibrio, ma nello squilibrio. Questo è un elemento decisivo perché spesso noi diciamo che la nostra vita è fatta di cose normali, non facciamo niente di speciale, non mi succede ogni due minuti una visione angelica, di estasi. Io compro il pane, vado a lavorare, preparo pranzo, facciamo le cose che fanno tutti, che cosa mi dice questo da parte di Dio?

Questo gli corre incontro, si mette in ginocchio e fa una domanda, mette scompiglio. Per far parlare le cose bisogna muoverle.

“gli domandò: «Maestro buono, che cosa devo fare per avere la vita eterna?». Non è una brutta domanda viene fatta anche gentilmente e Gesù gli dà una risposta secchissima. Marco non lo fa mai parlare troppo, però normalmente è abbastanza tenero. Qui gli dà una risposta molto secca: 18Gesù gli disse: «Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo».

Quello che viene messo in discussione è la lettura morale. Se tu mi chiedi che cosa fare per avere la vita eterna solo in termini di buono e cattivo non ci siamo proprio. Cosa c’entra la bontà? Il problema non è essere buoni. L’aggettivo buono riguarda Dio, di buono c’è solo Dio, tutti noi siamo un po’ buoni quando ci riesce, un po’ cattivi, un po’ confusi, un po’ incerti, un po’ né buoni, né cattivi. Questa frase che spesso viene saltata è la chiave di tutto il testo. Gesù dice che la categoria buono si usa solo fuori dalla storia. La storia non è buona, è un po’ buona, un po’ cattiva, un po’ confusa. Gesù in questo momento è uomo, sta sulle strade della storia, è come noi. La domanda è sbagliata. Il problema non è prendere dieci, fare tutti i compiti. Inoltre aggiunge per essere ancora più chiaro: Tu conosci i comandamenti: Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non dire falsa testimonianza, non frodare, onora il padre e la madre”. Per essere delle persone per bene non c’è niente di nuovo da sapere. Ognuno di noi sa bene che per esempio non rubare è meglio che rubare, essere giusti è meglio che essere ingiusti, il nostro problema non è il cosa, ma il come.

Esempio: quando siamo lì a decidere di pagare la giusta mercede alla badante a casa nostra, che significa fare un contratto regolare, versarle i contributi. Però così quanto costa? non ce la faccio. Allora faccio un contratto per metà delle ore, le altre le pago in nero… cioè cominciamo a fare una percorribilità del non rubare, una interpretazione e dall’altra parte bisogna sempre essere radicali? Bisogna essere perfetti, non togli neanche due centesimi, non bisogna rubare mai… questo è disumano. Perché è vero che ci sono molte cose che non sono solo un aggiustamento, ma sono una concretizzazione realista. Allora Gesù dice se mi chiedi il cosa, allora è chiaro, essere persone per bene non è così difficile da spiegare, ma solo a Dio gli riesce di essere sempre giusto, sempre vero, sempre amorevole, solo Dio ha la possibilità di essere sempre tutte queste cose al massimo della loro radicalità.

Traduco ancora una volta: se la tua domanda è cosa devo scegliere per salvarmi, togliti dalla testa che le scelte salvino, le scelte non salvano e comunque cosa devi scegliere è chiaro. La risposta del giovane è interessante. Per motivi letterari c’è un parallelismo tra ciò che lui dice qui e ciò che Pietro dice alla fine del brano. C’è un dato molto radicale da parte di Gesù, essi rimangono scioccati, poi la realtà che offrono è molto meglio di quello che si sentono. La realtà di noi stessi è molto meglio di come la pensiamo, se invece di confrontarla con la perfezione, con la bontà, la confrontiamo con il ragionamento che Gesù ci offre: quello della sacramentalità delle cose.

20Egli allora gli disse: «Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza». Essere persone per bene è tutto qui? Probabilmente il giovane non sta dicendo che lui lo è, ma dice lo so, fa parte della mia vita, non sarei qui a chiederti cosa devo fare di più. Le cose della nostra vita poi alla fine non sono così male, se no non saremmo qui con il desiderio di Dio nei nostri cuori, di andare più avanti, di capire di più. La parola di Dio, probabilmente, viene seminata su un buon terreno, che dunque porterà frutto, basta uscire dalla logica di voler essere i primi della classe, perché se il frutto che cerchiamo è essere i primi della classe ce ne andremo tristi perché ci dobbiamo mettere in competizione con Dio. Non ci viene bene, vince lui alla fine e come minimo saremo sempre secondi.

21Allora Gesù, fissatolo, lo amò e gli disse: «Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri e avrai un tesoro in cielo; poi vieni e seguimi». Su questa frase maree di retorica, ma per tradurla con un linguaggio del novecento la questione è ridare al denaro il suo valore d’uso. Non è roba tua, quello che hai vendilo, mettilo in circolo, dallo ai poveri, vieni e seguimi e rimetti in circolo anche te, la tua vita. Traducendo con un linguaggio più esistenziale, riprenditi la tua libertà dalle cose, le cose servono, circolano. Sant’Ignazio ha un commento molto bello su questa frase, parla del magis, una parola latina che vuol dire il di più, ed è una di quelle parole che fa parte dell’istruzione base dei gesuiti. Il problema non è cosa sia questo magis, ma che ci sia un magis, cioè che in ogni luogo in cui siamo rimettiamo in movimento tutto per fare un altro gradino, quanto valga il gradino in termini di altezza, questo non è importante, l’importante è che quando facciamo da zero a un millimetro ci deve venire di nuovo di corsa di fare da un millimetro a due millimetri e così via, cioè deve venirti un altro magis. C’è sempre un di più e Sant’Ignazio lo spiega poi come gli esegeti contemporanei hanno detto che poi Gesù dice il centuplo, la sovrabbondanza. Hai dato questo, ricevi cento volte tanto, perché il passare ogni volta a rimetterti in movimento con le cose, e dunque continuare a spostare l’assuefazione, metterti ogni volta a seguire Gesù provoca il ricevere cento volte tanto.

22Ma egli, rattristatosi per quelle parole, se ne andò afflitto, poiché aveva molti beni. A questo punto questa frase è chiara, il problema non è che era avaro, che non voleva rinunciare ai beni, ma era assestato, non vedeva la possibilità di altro e questo è il problema. Va via ma non è giudicato, Gesù non smette di amarlo, il prezzo di un rapporto scorretto con le cose è la nostra tristezza, questo purtroppo nessuno di noi lo crede fino in fondo, finché non ne fa l’esperienza. Generalmente la facciamo sotto la spinta di una necessità più forte che non una nostra scelta. Nessuno può spiegare ad un altro quanto le fatiche che fai per un figlio in un momento di crisi possono essere ripagate dal sorriso che ne viene fuori, e quanto non ti importa di tutto ciò che hai pagato in stanchezza, impegno. Questo non è una scelta, hai dato via tutto quello che avevi e dopo di che non sei triste, invece quando ti capita di non dare via, di trattenere, di essere un po’ avaro, alla fine non sei contento, e questo è una cosa che non si spiega, bisogna fidarsi una volta e provare.

Allora c’è la seconda parte del testo che è la stessa cosa ridetta in termini di concetti invece che di episodi: “Gesù, volgendo lo sguardo attorno, disse ai suoi discepoli: «Quanto difficilmente coloro che hanno ricchezze entreranno nel regno di Dio!». C’è la stessa secchezza precedente, è strano perché Gesù è sempre possibilista, opera miracoli, caccia demoni, parla con autorità, e di fronte alle cose, alla ricchezza sembra scoraggiato e dice quanto difficilmente coloro che hanno ricchezze entreranno nel Regno di Dio.

I discepoli rimasero stupefatti a queste sue parole; ma Gesù riprese: «Figlioli, com’è difficile entrare nel regno di Dio! 25È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio». E’ paradossale ma le cose ci zavorrano pesantemente, se noi siamo quello che abbiamo non andiamo più da nessuna parte, perché la difficoltà è reale, è tutta nell’esercizio della nostra libertà, le cose non hanno una libertà.

L’altro con la sua libertà, con le sue richieste, anche con i suoi torti mi salva perché stando di fronte a me mi squilibra continuamente, per questo Gesù ci dice la nostra salvezza sono i poveri perché stando di fronte a noi con una richiesta ci spostano, non consentono assuefazione. Le cose invece che non esprimono la loro libertà perché non ce l’hanno ci consentono assuefazione.

Essi, ancora più sbigottiti, dicevano tra loro: «E chi mai si può salvare?». Stiamo parlando di pescatori di Galilea, l’immagine non è il Ricco Epulone o Erode, l’immagine della ricchezza nel Vangelo. I discepoli sono dei poveracci, ma loro domanda è che è così difficile? La questione non è la quantità di denaro, ma la relazione alle cose. Gesù dice la frase seguente che è la consolazione e la nostra fiducia : «Impossibile presso gli uomini, ma non presso Dio! Perché tutto è possibile presso Dio». Ci dice che la povertà non è una scelta, è una grazia, io devo mettere l’urgenza, la fretta, la disponibilità, il tempo, ma è Dio che ci rende liberi rispetto alle cose perché è solo lui che può farlo e questo è un dono da chiedere, su cui avere fretta, insistenza.

E’ bellissimo ciò che dice Pietro: «Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito». Quello che potevamo fare lo abbiamo fatto, risponde come il giovane ricco, che le cose le sa fin dall’infanzia Gesù gli rispose: «In verità vi dico: non c’è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi a causa mia e a causa del vangelo, 30che non riceva già al presente (magis) cento volte tanto in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi… Questo elenco non è casuale, non si sta parlando di gioie spirituali, sta parlando di cose ben precise e concrete, “insieme a persecuzioni, e nel futuro la vita eterna”.

Il magis è raddoppiato, ma insieme alle cose ci sono le persecuzioni, cioè a dire questa non è l’etica del successo, non è dire bisogna fidarsi di Dio e diventi ricco sfondato. Il ragionamento è che ciò che ti viene reso è la libertà dalle cose, e quindi il di più, quello che da solo non potresti avere mai. Non sei più legato alle cose, non dipendi dalle cose, sono le cose che dipendono da te, e dunque hai tutto quello che ti basta.

Il salmo scelto come accompagnamento è il salmo del Buon Pastore, già il primo versetto basterebbe in questa logica. Il Signore è il mio pastore non manco di nulla perché è un pastore per bene, provvede perché le cose siano sufficienti per il suo gregge, non c’è niente che può mancare.

SALMO 23 (22)

1 Il Signore è il mio pastore:

non manco di nulla;

2 su pascoli erbosi mi fa riposare,

ad acque tranquille mi conduce.

3 Mi rinfranca, mi guida per il giusto cammino,

per amore del suo nome.

4 Se dovessi camminare in una valle oscura,

non temerei alcun male, perché tu sei con me.

Il tuo bastone e il tuo vincastro

mi danno sicurezza.

5 Davanti a me tu prepari una mensa

sotto gli occhi dei miei nemici;

cospargi di olio il mio capo.

Il mio calice trabocca.

6 Felicità e grazia mi saranno compagne

tutti i giorni della mia vita,

e abiterò nella casa del Signore

per lunghissimi anni.

Questa è un’immagine di molte cose, un po’ in modo provocatorio sotto gli occhi dei nemici, addirittura si ostenta sovrabbondanza assoluta, ma attenzione le condizioni sono nel primo e nell’ultimo versetto, questo accade se il Signore è il tuo pastore e se abiti la casa del Signore. Questo accade se non sei un possidente, ma un amministratore, i guai sono di un altro, tu ne hai solo il bene.

Fossano, 17 aprile 2010

(testo non rivisto dal relatore)

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