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15 Maggio 2010
Stella Morra

7. Il sacramento della vita, e cioè solo mangiare e pescare

Commento a: Gv 21, 1-14


Premessa

Siamo giunti all’ultimo passo del percorso di Lectio sul tema della Sacramentalità dell’esistenza delle cose e del mondo.

Partiamo dal testo Evangelico. Il percorso che abbiamo cercato di fare ha disegnato, secondo il Vangelo, le dimensioni e le regole del mondo, la narrazione dell’essere al mondo, di come ciascuno di noi capisce e comprende il suo stare dentro le cose. Di come l’essere credenti segnali una differenza.

Nella prima Lectio dicevamo che siamo abituati ad immaginare che la differenza tra credenti e non credenti sia di tipo contenutistico. Mi è piaciuto di tentare di mostrare che non è così. Che in obbedienza a quel testo antico che si chiama “Lettera a Diogneto” – dove si dice: “I cristiani fanno le cose di tutti, parlano la lingua di tutti, mangiano il cibo di tutti” – ci differenziamo per uno stile, che non vuol dire lo stile di buonismo. Per uno stile, cioè per un modo di stare al mondo in cui le cose che ci accadono, che amiamo, che desideriamo sono condivisibili con chiunque, perché sono le cose normali. Stiamo nel mondo come in un Sacramento, come in un qualcosa che non dice l’ultima parola, né su se stesso né su di noi.

Teologicamente abitiamo un “eccedenza escatologica”, cioè abitiamo un pezzo che non è ancora mostrato dalla materia delle cose, delle nostre vite e che però noi sappiamo essere nella verità (la verità delle cose di noi e di quello che noi siamo), nelle mani di Dio. Per questo possiamo stare tranquilli, ma proprio perché è nelle mani di Dio non si legge compiutamente.

Nel percorso delle Lectio, abbiamo mostrato che cosa vuol dire, in termini concreti, questa affermazione.

Questa sera vorrei fare una cosa un po’ al contrario, cioè leggere un testo che non è l’happy end delle favole ma è rassicuratorio, ci consola e ci fa compagnia. Il titolo è “Il Sacramento della Vita, cioè solo mangiare e pescare”. Che cosa significa? Che in fondo è molto più semplice viverle le cose che non dirle, capirle, pensarle, dargli dei nomi, perché la vita ci richiama ad una drammatica realtà concreta. La differenza è fatta da piccole cose, alla portata di ciascuno di noi, bisogna solo imparare a ricordarsene, non lasciare che le piccole cose passino via.

Il testo

Giovanni 21,1-14

[1] Dopo questi fatti, Gesù si manifestò di nuovo ai discepoli sul mare di Tiberìade. E si manifestò così: [2] si trovavano insieme Simon Pietro, Tommaso detto Dìdimo, Natanaele di Cana di Galilea, i figli di Zebedeo e altri due discepoli. [3] Disse loro Simon Pietro: “Io vado a pescare”. Gli dissero: “Veniamo anche noi con te”. Allora uscirono e salirono sulla barca; ma quella notte non presero nulla.

[4] Quando già era l’alba, Gesù stette sulla riva, ma i discepoli non si erano accorti che era Gesù. [5] Gesù disse loro: “Figlioli, non avete nulla da mangiare?”. Gli risposero: “No”. [6] Allora egli disse loro: “Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete”. La gettarono e non riuscivano più a tirarla su per la grande quantità di pesci. [7] Allora quel discepolo che Gesù amava disse a Pietro: “È il Signore!”. Simon Pietro, appena udì che era il Signore, si strinse la veste attorno ai fianchi, perché era svestito, e si gettò in mare. [8] Gli altri discepoli invece vennero con la barca, trascinando la rete piena di pesci: non erano infatti lontani da terra se non un centinaio di metri.

[9] Appena scesi a terra, videro un fuoco di brace con del pesce sopra, e del pane. [10] Disse loro Gesù: “Portate un po’ del pesce che avete preso ora”. [11] Allora Simon Pietro salì nella barca e trasse a terra la rete piena di centocinquantatré grossi pesci. E benché fossero tanti, la rete non si squarciò. [12] Gesù disse loro: “Venite a mangiare”. E nessuno dei discepoli osava domandargli: “Chi sei?”, perché sapevano bene che era il Signore. [13] Gesù si avvicinò, prese il pane e lo diede loro, e così pure il pesce. [14] Era la terza volta che Gesù si manifestava ai discepoli, dopo essere risorto dai morti.

È un testo che abbiamo sicuramente sentito moltissime volte. Nella liturgia però è tagliato in due parti: la pesca miracolosa è un brano, il riconoscimento di Giovanni e Simone che si tuffa è un altro brano. Trovo molto bella l’unità tematica nella sua interezza, la sua apertura e la sua conclusione.

È un racconto piano, semplice. Il testo inizia con “dopo questi fatti” perché nel cap. 20 di Giovanni si racconta la Risurrezione. Questi due capitoli hanno entrambi come protagonisti Simone e Giovanni, le due anime della Comunità primitiva. Siamo infatti abituati a pensare per via di una certa lettura storica, legato al primato di Roma, che le due anime siano: Pietro, che ha vissuto con Gesù, e Paolo, che viene un po’ dopo, ma non per questo è non meno importante. In realtà, all’interno della comunità di coloro che hanno vissuto con Gesù c’erano tante anime diverse. Ognuna ha ricevuto secondo se stesso questa verità dell’Evangelo. Nel Vangelo di Giovanni, si tende a far vedere Pietro e Giovanni come due figure complementari un po’ diverse.

Dopo la morte di Gesù e la sua Risurrezione, la prima constatazione è di una tomba vuota, dove non c’è un cadavere. Dopo questi fatti si inserisce bene un percorso di sacra mentalità: la logica dei Sacramenti infatti si vede sempre dopo, cioè il Sacramento della vita è parlante solo alla fine, mai all’inizio.

Se siamo sulla soglia della nostra esistenza, non vediamo ancora nulla e solo nella memoria (parola importante per il cristianesimo) possiamo capire. È una esperienza molto concreta, reale. Bisogna aver vissuto e dunque essersi confusi, aver perso la strada per poter capire qual era la traccia. Noi siamo spesso preoccupati di fare le scelte giuste per il futuro, cioè siamo dinnanzi a un percorso cercando di capire che cosa fare o non fare, che è un po’ lo stile della Legge, del voler esser giusti.

Certo Dio ci ha dato l’intelligenza. Prima di fare qualcosa, una persona ci pensa ragionevolmente, cercando di avere tutti gli elementi necessari per effettuare quella scelta. La vera lettura sacramentale di ciò che ci accade si fa però sempre dopo, non prima. Si fa alla fine. E’ questa un’altra novità cristiana. Ed è uno dei motivi per cui non dovremmo essere dominati dalla paura, né dal senso di colpa; dall’ansia per ciò che dobbiamo decidere o dal senso di espiazione per ciò che probabilmente abbiamo sbagliato.

Si trovarono insieme

Dobbiamo leggere dopo. Infatti si dice: “Dopo questi fatti Gesù si manifestò di nuovo”.

E’ dopo aver vissuto che Gesù si manifesta, rende visibile ciò che era invisibile, svela. “E si manifestò così”. Come se la prima parte del primo versetto fosse già sufficiente da sola. Dopo che avremmo vissuto vedremo Dio faccia a faccia e il problema non sarà fare i conti di quanti errori ci saranno stati; la domanda sarà se abbiamo abitato questo sacramento, se la vita non è rimasta uguale dopo il nostro passaggio in tutto ciò che ci è capitato di fare e di essere.

“Si trovarono insieme Simon Pietro, Tommaso detto Didimo, Natanaele di Cana di Galilea, i figli di Zebedeo e altri due discepoli”.

E’ la partenza per ogni dopo possibile, se non c’è questo prima, non c’è un dopo e il prima è essere insieme. L’abbiamo sentito dire molte volte: non ci si salva da soli! E’ la logica della legge, quella di dire: “Ok, il cristiano funziona da un’altra parte, si comincia insieme perché è il luogo della Parola scambiata, il luogo delle vite condivise molto concrete, del regno di Dio per un bicchier d’acqua, della domanda che l’altro è per me. Dunque dello stare davanti a me col suo esistere, prima ancora che apra la bocca, ponendomi un domanda e un limite. Questo luogo dell’insieme è il luogo dove è possibile condividere le vite e le parole sulle vite; e dunque è possibile che Gesù, dopo, si manifesti.

Il problema non è se sbaglio di fronte a Dio o alla legge. E’ questa la dinamica su cui noi troviamo una regola del vivere: la domanda che l’altro è.

“Si trovavano insieme”. Qui si mette dentro Simon Pietro, cioè il primo degli apostoli, Tommaso detto Didimo, cioè l’apostolo incredulo, Natanaele di Cana di Galilea, i figli di Zebedeo Giacomo e Giovanni e altri due senza nome. C’è proprio posto per tutto. Oggi diremmo le “appartenenze differenziate”. Giovanni non fa l’elenco dei dodici; ci mostra che si è lì, insieme, essendo ognuno nel luogo dove si è. Essere insieme non vuol dire essere omogenei, tutti uguali con le stesse scelte.

C’è questa secca parola di Simon Pietro: “Io vado a pescare”. Il tono è secco. Insieme fanno l’unica cosa che sanno fare, cioè i pescatori. Come sostiene Sant’Ignazio di Loyola: “Nei tempi di angoscia e di dubbio mantenere il proprio posto, i propri doveri”. I discepoli fanno esattamente questo, vanno a pescare perché è il loro dovere rispetto all’esistenza.

Gli altri dicono: “Veniamo anche noi con te”.

Salgono sulla barca “ma quella notte non presero nulla”. Cioè a volte la vita non funziona. Sono partiti senza troppa convinzione, non hanno pescato nulla, e sono un po’ depressi. La vita, in fondo, è solo “mangiare e pescare”, è fare le cose che ci tocca fare.

Una domanda, non una risposta

“Quando già era l’alba”. Le connotazioni di tempo di Giovanni non sono mai casuali: in mezzo è trascorsa una notte. Non è una faccenda breve il dolore. Forse c’è una lunga vita in mezzo e bisogna continuare a dire “vado a pescare”, cioè a mantenere il proprio posto in una lunga notte dove forse non si pesca niente.

“Quando era già l’alba, Gesù stette sulla riva e i discepoli non si erano accorti che era Gesù”. Tutti i racconti della Resurrezione dicono che i discepoli “non riconoscono”, in particolare modo nel vangelo di Giovanni. Egli mette in successione i racconti dell’apparizione del Risorto e ogni volta i discepoli “non lo riconoscono”. E’ L’indicazione che non è così evidente alla ragione: la fede è l’esercizio di riconoscimento.

Nemmeno dopo essere morto e risuscitato Gesù rinuncia a fare domande. Il Vangelo di Giovanni è caratterizzato da questo tema: il prendere posizione, il credere a fronte dei Segni con l’ambiguità che la vita offre. Nel Vangelo di Giovanni, Gesù si propone sempre con una domanda. E qui basta pensare a quanto abitualmente noi vediamo la Fede come una risposta. Se una persona è credente pensa di avere le risposte, su tutta una serie di problemi: cosa si deve fare in certe situazioni limite, cosa è un valore, che cosa è giusto, che cosa è sbagliato. Invece la fede funziona come una domanda, non come una risposta. Questo è molto chiaro nel Vangelo di Giovanni, perché non siamo più soli a decidere secondo la nostra intelligenza e le nostre ragioni, ma c’è un’altra istanza: l’altro con cui siamo insieme e l’altro che è Gesù, che pone una domanda, che ci dice: “Avete qualcosa da mangiare?”. E tu devi fare il conto di quello che hai, decidere se e quando metterti in gioco. Dobbiamo decidere come rispondere a questo appello, che in genere ci viene rivolto senza chiedere per favore. Gesù dice alla Samaritana: “Dammi da bere!”, e qui dice: “Non avete nulla da mangiare?”. Loro rispondono la verità e cioè: “no”.

Il racconto ci dice che cosa abbiamo da offrire a Gesù. E’ per chi risponde con quello che ha, che la storia va avanti. Non fa differenza che cosa rispondi: se “si!”, se “no!”, se poco, se tanto. Loro dicono “no” e allora Gesù dice: “Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete”. “La gettarono e non riuscivano più a tirarla su, per la grande quantità di pesci”… Sembra un gioco di prestigio!

Nella logica di Giovanni è proprio questo il segno della conversione. In greco, la parola indica proprio fare una conversione, cioè girarsi da un’altra parte (nel cap. 20,16 la Maddalena “si voltò e gli disse in ebraico: ‘Rabbunì!’ – che significa: ‘Maestro’!”). C’è sempre questo tema del cambiare parte; è un invito a guardare le cose da un’altra parte; una rete che, guardata a destra, è piena, a sinistra è vuota. La vita funziona così: mostra prima quello che non vedevamo.

L’amore riconosce, la fede muove

A questo punto troviamo i famosi versetti 7 ed 8, molto commentati dai Padri della Chiesa, un vero programma ecclesiologico. Essi affermano che Giovanni è la figura dell’amore, Pietro quella della fede. L’Amore riconosce: “È il Signore!”, mentre la fede non lo riconosce. Ma se ascolta l’amore poi si tuffa, raggiunge il Signore… La fede fa faticare.

Un altro commento contemporaneo,dice che Pietro si riveste, “perché era svestito”, spogliato. E’ l’immagine di una fede nuda, ridotta all’essenziale. La dinamica è la stessa. C’è un movimento di riconoscimento, di agire, di fare, di vivere e i due movimenti non si possono staccare. In una logica di sacramentalità, bisogna guardare, riconoscere e muoversi, avere il coraggio di tuffarsi. C’è un movimento di essenzialità e contemporaneamente di sovrabbondanza, di rete pienissima. Gli altri discepoli vengono dopo, con “la barca, trascinando la rete piena di pesci”. Sono l’immagine della sequela, ancora una volta non ci si muove da soli. Giovanni riconosce, Pietro si tuffa e gli altri si aggregano. Tutte le parti sono importanti, tutti fanno il quadro della storia. Ognuno di noi è un po’ Pietro, un po’ Giovanni, un po’ gli altri discepoli, un po’ anche il pesce. Per i cristiani tutto questo si chiama Mistero della Chiesa. A turno chi ha un po’ di fiato, tira, riconosce, fa’ un passo avanti, mette il coraggio. Come nella vita.

Il versetto 9 è commozione pura. E’ il Signore che ha posto un’esigenza, che ha fatto vedere una rete piena di pesci. Appena scesi a terra c’è un fuoco di brace con del pesce e del pane. “Dopo tutta questa fatica perché hai chiesto?”. Gesù non ha bisogni, ha solo desideri. Per essere insieme con noi deve porci una domanda, deve esistere di fronte a noi muovendo la nostra vita. Non c’è nulla di più insopportabile che amare qualcuno che non ha bisogno di te. E dunque Gesù ha un desiderio, non di pesce, ma di relazione con noi. Può domandare e insieme preparare un fuoco con del pesce e del pane.

A rimarcare queste cose disse loro Gesù: “Portate un po’ del pesce che avete preso ora”. Non ci rende inutili; anche il pesciolino pescato all’ultimo minuto ha un suo ruolo in questa vicenda. Si colma la fame col pesce già cotto e si cuoce quello appena pescato, perché tutto contribuisca a togliere la fame dell’umanità. Il gesto finale va letto in parallelo con Luca 24, il racconto di Emmaus.

“Gesù disse loro: ‘Venite a mangiare’ e nessuno dei discepoli osava domandare ‘Chi sei?’. Sapevano bene che era il Signore”. C’è questa dinamica del conoscere e del non essere certi, del pudore del riconoscimento.

Questa è la questione seria e grave della nostra vita ecclesiale. C’è un pudore del riconoscimento dei Sacramenti della nostra vita. Da adulti è difficile condividerli perché non osiamo e ci vuole l’accoglienza del Signore per riuscire a condividerli e a superare questo non osare.

In questo gesto Gesù ci dice che il gesto eucaristico è il luogo dove una persona un po’ si osa e non si osa, ma la condivisione è reale perché basta mangiare insieme, non c’è bisogno di tante parole.

“Era la terza volta che Gesù si manifestava ai discepoli”.

La “messa sul mondo” di Teilhard De Chardin

Da questo punto di vista la conclusione viene a pennello con il testo del gesuita francese Pierre Teilhard de Chardin (1881-1955), filosofo, paleontologo come specializzazione laica (infatti, secondo l’antica tradizione, i Gesuiti che studiavano Teologia dovevano possedere anche un’altra specializzazione di alto livello in una disciplina scientifica), paleobiologo, paleoarcheologo, studioso delle origini del cosmo, in un tempo in cui, prima del Concilio, il dibattito sull’evoluzionismo e sul creazionismo era ben più duro di oggi. Fu condannato per le sue teorie scientifico-teologiche, i suoi libri furono messi all’indice. Il difensore che gli fu assegnato da parte della Compagnia di Gesù era il giovane gesuita Henri De Lubac (1896-1991), che dopo il Concilio, molti anni dopo, fu ordinato Cardinale, nel corso della riabilitazione di Teilhard De Chardin, quando De Lubac aveva ormai più di ottant’anni. A questo proposito egli commentò che per un teologo è fondamentale essere longevi per sopravvivere alle proprie condanne e alle proprie riabilitazioni. Teilhard ha passato tanti anni negli altipiani dell’Asia centrale tra Afghanistan, India, etc, alla ricerca di reperti, seguendo tracce dei primi ominidi.

La sua grande teoria è ricapitolativa, cioè dice: in fondo non solo c’è un evoluzione dall’inizio del mondo, ma c’è anche un’evoluzione scientifica, materiale e non solo spirituale della fine del mondo. Tutto il mondo va verso un punto Omega; verso una consumazione della natura in favore di una fine che sarà una trasformazione. Il punto Alfa e il punto Omega come inizio e fine. Già sospeso dall’insegnamento, scrive un libricino che si chiama: “Inno all’Universo”, in cui con gli occhi di uno scienziato guarda il mondo e lo racconta come teologo.

Da questo libretto è tratto il testo che trovate sul calendario delle Lectio.

“Poiché ancora una volta, o Signore, non più nelle foreste dell’Aisne, ma nella steppe dell’Asia sono senza pane, senza vino, senza altare”.

Questo capitolo si chiama “Messe sull’Universo”. Lui era sospeso a divinis, non poteva celebrare ed era sperso in una steppa dell’Asia. Guardando la rete piena, invece che vuota dice: “Mi eleverò al di sopra dei simboli, sino alla pura maestà del reale e ti offrirò io, tuo sacerdote, sull’altare della terra totale, il lavoro e la pena del mondo. Lì in fondo, il sole, appena incomincia ad illuminare l’estremo lembo del primo oriente. Ancora una volta, sotto l’onda delle sue fiamme, la superficie vivente della Terra si desta, vibra e riprende il suo formidabile travaglio”.

È l’immagine di un’alba in cui la partenza energetica, anche in senso scientifico, della luce del sole, è ciò che consente, non solo agli uomini di alzarsi, cominciare la giornata e mettersi a lavorare, ma anche a tutto il sistema intero di assumere il suo formidabile travaglio.

“Sulla mia patena (piatto dove si posa l’Ostia, ndr) porrò o Signore la messe attesa di questa nuova fatica. E nel mio Calice verserò il succo di tutti i frutti che oggi saranno spremuti. Il mio calice e la mia patena sono le profondità di un’anima ampiamente aperta alle forze che tra un istante da tutte le parti della terra si eleveranno, convergeranno nello Spirito”. Lui dice: “Non ho un calice, non ho una patena, ma il mio Calice e la mia patena sono questa anima ampiamente aperta”.

“Vengano pertanto a me il ricordo e la mistica presenza di coloro che la luce ridesta per una nuova giornata”. Quest’anima aperta è recettiva del sacramento del mondo. “Venga a me il ricordo e la mistica presenza”. Poi c’è un bel paragrafo: “Ad uno ad uno, Signore, li vedo e li amo tutti quelli che mi hai dato come sostegno e gioia naturale della mia esistenza”.

E’ il primo gradino: la famiglia, le persone con cui sono cresciuto. La gioia naturale, nel linguaggio dell’inizio ‘900, erano riferiti ai rapporti familiari.

“Ad uno ad uno, conto anche i membri di quell’altra e tanto cara famiglia che, a poco a poco, a partire dagli elementi più disparati, è stata riunita attorno a me dalle affinità del cuore, della ricerca scientifica e del pensiero”. Questi sono gli amici.

“Più confusamente, ma tutti senza eccezione, evoco coloro la cui folla anonima costituisce la massa innumerevole dei viventi: quegli ignoti che mi circondano e mi sostengono a mia insaputa, quelli che vengono e quelli che se ne vanno, e soprattutto quelli che, nella verità od in seno all’errore, hanno fede nel progresso delle cose e – nell’ufficio, nel laboratorio o nella fabbrica – oggi, con passione, inseguiranno la luce.

Moltitudine agitata, imprecisa o distinta, la cui immensità ci spaventa, oceano umano le cui lente e monotone oscillazioni incutono il dubbio persino nei cuori più credenti: voglio che, in questo momento, il mio essere risuoni al suo mormorio profondo. Tutto ciò che, durante la giornata, crescerà nel mondo, tutto ciò che in esso diminuirà – ed anche tutto ciò che vi morirà – ecco, o Signore, l’elemento che mi sforzo di raccogliere in me per presentarlo a Te. È questa la materia del mio sacrificio, quell’unico sacrificio di cui Tu abbia voglia.

Una volta, trascinavano nel tuo tempio le primizie del raccolto e il fiore del gregge. L’offerta che Tu attendi realmente, quella di cui Tu senti ogni giorno il misterioso bisogno per sfamarti e dissetarti, è nulla meno dell’accrescimento del mondo travolto dall’universale divenire”.

“Avete qualcosa da mangiare?” Detto dai pescatori, significa ciò che accade, quello che fate, il divenire, apporta il frutto di cui Dio ha misteriosamente bisogno.

“Ricevi, o Signore, questa Ostia totale che la creazione, mossa dalla Tua attrazione, presenta a Te nell’alba nuova. Questo pane, il nostro sforzo, so bene che, di per sé, è solo una disgregazione immensa. Questo vino, la nostra sofferenza, non è purtroppo, sinora, che una bevanda dissolvente. Ma, in seno a questa massa informe, hai messo, ne sono sicuro perché lo sento, un’irresistibile e santificante aspirazione che, dall’empio al fedele, ci fa tutti esclamare: «O Signore, rendici uno!»”.

Lui dice che tutta questa fatica, questo dolore che sta per prepararsi in una giornata nel mondo, in sé, non è ancora sufficiente. E’ troppo poco perché è ancora solo la fatica e il dolore, ma già dentro ha questa drammatica domanda di essere di più di se stesso, di essere un Sacramento.

Anche la Lettera a Diogneto dice rispetto al pane eucaristico: questi chicchi che erano sparsi e che macinati, sono diventati un solo pane; questi acini d’uva che erano divisi e che pestati diventano un unico sangue. Così noi: macinati, perché ciò che è dato mostri dopo la sua unità.

“E, poiché, in mancanza dello zelo spirituale e della sublime purezza dei tuoi santi, Tu mi hai dato, o Signore, una simpatia irresistibile per tutto ciò che si agita nella materia oscura, poiché riconosco in me, senza rimedio, ben più di un figlio del Cielo, un figlio della terra, salirò stamane, in pensiero, sulle più alte vette, carico delle speranze e delle miserie di mia madre, e lassù, in forza di un sacerdozio che solo Tu, credo, mi hai conferito, su tutto ciò che, nella carne dell’uomo, si prepara a nascere od a perire sotto il sole che spunta, io invocherò il Fuoco”.

E’ bella questa conclusione! Sono più figlio della terra che un figlio del Cielo! “Con l’eredità di questa madre terra salgo e invoco l’Epiclesi (il gesto di invocare lo Spirito), il fuoco che si fa nell’Eucarestia, con questo Sacerdozio che Tu mi hai dato”.

Per Lui è un tema forte perché è stato sospeso a divinis. Questo capitolo spiega bene il fatto che Teilhard accetta fino in fondo di non poter celebrare l’Eucarestia ministeriale, ma che nessuno può impedirgli di celebrare questa messa sul mondo.

E’, in fondo, ciò che compete ad ogni battezzato. Ad ognuno di noi la capacità di una messa sul mondo, che rende il mondo intero Sacramento di quell’unità a cui siamo chiamati, attraverso il pescare e il mangiare, cioè attraverso le cose normali in cui siamo.

Fossano, 15 maggio 2010

(testo non rivisto dal relatore)

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