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21 Gennaio 2023
Stella Morra

4. Benedire e morire

Commento a: Dt 33, 1-6; 34,1-12


Riprendiamo il nostro percorso dopo un incontro intermedio dal quale è emerso che il tema da cui siamo partiti, la preghiera di morire, il desiderio di morire, in molte sfaccettature, in molti modi diversi per ciascuno, non necessariamente in forma depressiva, ha attraversato le riflessioni di molti. Io credo che in qualche modo questo rimanga il punto focale di questa prima parte del percorso delle lectio.  Queste lectio intorno al tema della preghiera, da molti anni facciamo così, sono basate nella prima parte su testi del primo testamento e nella seconda parte su testi evangelici o delle lettere. In questa prima parte in qualche modo tendiamo a percorrere di più le dimensioni umane, antropologiche, quelle comuni a tutti, che una sapienza come quella del popolo di Dio ci racconta. Concludiamo con la lectio di oggi proprio questa prima parte.

La lectio di oggi

Dicevo, mi sembra che questo punto, del desiderio di morire, sia un po’ il fuoco della faccenda perché poi alla fine, tra tanti desideri e tante vicende della vita, fatiche o gioie, passaggi complicati o passaggi lieti, alla fine c’è sempre la stessa domanda: si tratta di decidere ogni volta se ci si mette dalla parte della vita o da quella della morte. Di fronte alle cose serie della vita c’è sempre la stessa domanda radicale, che ha molti colori, molte forme, molti possibili svolgimenti, ma il problema è sempre un po’ lo stesso: se ci si mette dalla parte della vita, cioè del creativo, di ciò che nasce, di ciò che guarda al futuro o se, più o meno impercettibilmente, non necessariamente in modo tragico, magari in modo anche molto sfumato, ci si mette dalla parte della morte, se ci si lascia totalmente identificare dalla fatica che si vive. In questo senso, più andavo avanti in queste riflessioni, più mi sembrava veramente che questo è un po’ il punto qualificante di questa riflessione. La vera unica preghiera che in qualche modo ci abita sempre è “fammi vivere, dammi la forza, l’energia, la fantasia, la creatività, la testardaggine perché io possa ancora vivere”. Anche quando si chiede “fammi morire”, per stanchezza o per delusione.

Il secondo passo su cui ci siamo fermati, col primo libro dei Re, era l’impatto tra questo e la realtà, tra questo e le realtà che sono normalmente rovesciate, dove apparentemente non succede niente perché questa nostra lotta profonda tra vivere e morire nel novanta per cento dei casi non ha degli effetti immediati visibili, non è un momento eroico, spesso è un momento molto sotterraneo. Elia ha vinto e dunque si ritrova perdente e dunque vuole morire e dunque, poiché Dio ascolta la sua preghiera, vivrà.

La volta scorsa abbiamo visto il terzo passaggio che era il Salmo, con questo tema della poesia come sovrabbondanza. Rispetto alla fatica di decidere se vivere o morire c’è la poesia che lancia al di là, c’è una preghiera poetica, irrazionale, infantile che chiede di più, tutto e più di tutto: “non mi basta vivere, voglio anche vivere felice; non voglio essere triste, voglio essere protetto in un rifugio al sicuro”.

In questa dinamica arriviamo oggi a un testo che ho faticato molto a scegliere perché è un testo che linguisticamente, dal punto di vista proprio del testo, non mi piace tanto, un testo un po’ secco, un po’ asciutto.  Ha una storia letteraria molto complicata, è fatto di tanti pezzi messi assieme, ci si inciampa a leggerlo. È tratto dai capitoli 33 e 34 di Deuteronomio, cioè proprio la conclusione. Deuteronomio è un libro complicato che ha una storia letteraria e testuale molto complessa. In più è anche un libro che nella tradizione interna di lettura, sia dell’antico popolo d’Israele, sia nella lettura che ne fanno poi i cristiani, è un libro della rivincita. Deuteronomio vuol dire “seconda legge”.  C’è questa seconda legge, il ritrovamento ipotetico della legge nelle rovine del tempio, a partire da una situazione che, nello sfondo, è un po’ quella che viviamo tutti noi. L’antico popolo d’Israele, che aveva come elemento decisivo e importante la legge, cioè l’alleanza con il dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, si era perso la legge, si era perso il testo della legge e lo ritrova tra delle rovine ed è un po’ la situazione in cui, mi sembra, ci troviamo oggi noi. È come se ci fossimo persi l’evangelo in mezzo a costruzioni, vicende della storia, problemi.

In questo contesto il Deuteronomio cerca di rimettere un po’ le cose a posto, rimettendo al centro quello che va al centro, con la rilettura potente della legge. Il Deuteronomio si conclude con il racconto della morte di Mosè, in questi due capitoli, che è esattamente il punto di chiusura della prima fase, dell’infanzia di Israele, del Mar Rosso, delle scene battagliere, del mare che si spalanca, delle preghiere raccolte. Con la morte di Mosè, in qualche modo la morte del padre, si chiude il tempo dell’infanzia d’Israele. A questo punto si colloca questo testo che ho intitolato “Benedire e morire” perché l’ultima cosa che Mosè fa è benedire; dice una preghiera a Dio non per sé, ma per il popolo e poi muore e si chiude il cerchio, si chiude con il desiderio di morire. Mosè prima di morire si mette ancora una volta dalla parte della vita, benedice, è vivo fino a un minuto prima di morire.

 

Il testo: Dt 33, 1-6; 34, 1-12

33 1Ed ecco la benedizione con la quale Mosè, uomo di Dio, benedisse gli Israeliti prima di morire. 2Egli disse:

«Il Signore è venuto dal Sinai, è spuntato per loro dal Seir, è apparso dal monte Paran, è arrivato tra miriadi di consacrati:dalla sua destra, per loro, il fuoco della legge.

3Certo, egli ama i popoli; tutti i suoi santi sono nelle tue mani, mentre essi, accampati ai tuoi piedi, ricevono le tue parole.

4Una legge ci ha ordinato Mosè, un’eredità per l’assemblea di Giacobbe.

5Vi fu un re in Iesurùn, quando si radunarono i capi del popolo, tutte insieme le tribù d’Israele.

6Viva Ruben e non muoia, benché siano pochi i suoi uomini».

34 1Poi Mosè salì dalle steppe di Moab sul monte Nebo, cima del Pisga, che è di fronte a Gerico. Il Signore gli mostrò tutta la terra: Gàlaad fino a Dan, 2tutto Nèftali, la terra di Èfraim e di Manasse, tutta la terra di Giuda fino al mare occidentale 3e il Negheb, il distretto della valle di Gerico, città delle palme, fino a Soar. 4Il Signore gli disse: «Questa è la terra per la quale io ho giurato ad Abramo, a Isacco e a Giacobbe: «Io la darò alla tua discendenza». Te l’ho fatta vedere con i tuoi occhi, ma tu non vi entrerai!».

5Mosè, servo del Signore, morì in quel luogo, nella terra di Moab, secondo l’ordine del Signore. 6Fu sepolto nella valle, nella terra di Moab, di fronte a Bet-Peor. Nessuno fino ad oggi ha saputo dove sia la sua tomba. 7Mosè aveva centoventi anni quando morì. Gli occhi non gli si erano spenti e il vigore non gli era venuto meno. 8Gli Israeliti lo piansero nelle steppe di Moab per trenta giorni, finché furono compiuti i giorni di pianto per il lutto di Mosè.

9Giosuè, figlio di Nun, era pieno dello spirito di saggezza, perché Mosè aveva imposto le mani su di lui. Gli Israeliti gli obbedirono e fecero quello che il Signore aveva comandato a Mosè.

10Non è più sorto in Israele un profeta come Mosè, che il Signore conosceva faccia a faccia, 11per tutti i segni e prodigi che il Signore lo aveva mandato a compiere nella terra d’Egitto, contro il faraone, contro i suoi ministri e contro tutta la sua terra, 12e per la mano potente e il terrore grande con cui Mosè aveva operato davanti agli occhi di tutto Israele.

 

 

Commento:

È un testo complesso, nel senso che non ha un bel suono tondo, ma se lo leggiamo nel nostro tipo di ricerca, che non è quello esegetico-storico-critico, vediamo una cosa interessante. Questo pezzo è lo stato di fatto, è dire: “io sono qui, il popolo è qui, Mosè è qui”. Noi potremmo dire su questi versetti, mano a mano, percorrendoli: “Io sono qui? E in quale misura, fino a dove?

33 1Ed ecco la benedizione con la quale Mosè, uomo di Dio, benedisse gli Israeliti prima di morire.

Questa frase io la trovo molto potente. Vorrei che si potesse dire di me, il giorno dopo che sarò morta: “Ecco la benedizione con la quale questa donna, donna di Dio, ha benedetto i suoi amici”. Mettersi dalla parte della benedizione fino all’ultimo respiro perché si è uomo/donna di Dio. Dunque l’unica preghiera che ti rimane, non ce n’è un’altra, non è la preghiera “fa che io viva” e nemmeno “fa che io muoia”, ma l’unica preghiera che ti rimane è una benedizione, è dire bene. Abbiamo tante volte riflettuto sul tema della benedizione e credo che mai come in questo periodo tutti sappiamo esattamente il peso che ha questo atteggiamento. Tutti sappiamo che dire bene è una gran fatica e certe volte sembra quasi impossibile. È molto più istintivo maledire, è più immediato. L’ultima parola di Mosè, che pure si è adirato, è stato collerico, ha punito, l’ultima sua parola, dicevo, è una benedizione. Quindi “io sono qui” e, poiché uomo/donna di Dio, fino alla mia ultima parola sto dalla parte della vita, dunque di una benedizione.

2Egli disse: «Il Signore è venuto dal Sinai, è spuntato per loro dal Seir, è apparso dal monte Paran…

Il Sinai è il luogo delle tavole della legge, dell’alleanza nel mezzo della peregrinazione del deserto, il luogo dove Dio si è manifestato. Mosè dice: “Ricordatevi, tutto comincia da lì”. Il primo elemento della benedizione è il dono di tornare alle proprie radici, dove tutto è cominciato. C’è un bel po’ di storia tra il giorno in cui ognuno di noi ha sentito qualcosa di importante, per cui si è messo più o meno confusamente e consapevolmente alla sequela del Signore, e il momento attuale. Eppure la piccola fiammella originaria era talmente forte che siamo ancora qui. Allora la prima benedizione è ritornare alla fiammella originaria.

…è arrivato tra miriadi di consacrati:

 Il Signore è arrivato lì, è arrivato da quella fiammella iniziale da quel momento in cui nasce l’origine di una passione che ancora ci accompagna, ma è arrivato tra miriadi di consacrati. Non so che cosa questa immagine vi evoca. A me dice: non è una storia di solitari, miriadi di consacrati. C’è una storia prima di noi e ci sarà una storia dopo di noi, c’è un popolo dentro cui questa nostra origine personale è solo un pezzo, è dentro una grande compagnia della fede perché il Signore non arriva mai da solo.

… dalla sua destra, per loro, il fuoco della legge.

Questa immagine del fuoco della legge mi piace tantissimo e in questo momento quanto vorrei che questo fuoco fosse acceso.

3Certo, egli ama i popoli; tutti i suoi santi sono nelle tue mani, mentre essi, accampati ai tuoi piedi, ricevono le tue parole.

Versetto bellissimo. Come dire: tranquilli, c’è spazio per tutti. Dio ama tutti i popoli, ma questo popolo privilegiato attraverso Mosè, figura di ogni padre, ha delle parole da dire e da dare. Riceviamo gli uni dagli altri le parole.

4Una legge ci ha ordinato Mosè, un’eredità per l’assemblea di Giacobbe.

La legge è il principio della Libertà, non dell’obbligo perché solo se c’è una legge siamo tutti sottoposti a un dato oggettivo, se non c’è una legge siamo in balia di ogni autoritarismo e di ogni manipolazione. Se c’è una legge possiamo essere liberi. La legge è il principio di ogni libertà e questa è la nostra eredità.

5Vi fu un re in Iesurùn, quando si radunarono i capi del popolo, tutte insieme le tribù d’Israele.

Questa frase è di difficile interpretazione perché non c’era un re in Israele, almeno nel periodo a cui si riferisce questo testo. A Mosè non è mai stato attribuito il titolo di re, quindi chi è il re si spiega solo in connessione a Iesurùn. Iesurùn è un vezzeggiativo, come quando si dice alla propria figlia: “Sei la mia principessa”. Qui Mosè dice a Israele: “Sei il mio principe”, “Quando siete tutti insieme, siete i miei prìncipi”.

Poi ci sono una serie di versetti che ho saltato nella citazione perché contengono le benedizioni specifiche che Mosè fa per ogni tribù. Ci sono le benedizioni ai figli di Giacobbe, a quelli che saranno i capostipiti.  Ognuno è caratterizzato per quello che, in realtà, succederà dopo a quella tribù. La cosa interessante è che la benedizione non è mai generica, la benedizione ha un nome e un cognome. Ognuno è colto nella sua storia, nei suoi doni e anche, se le leggerete, nei suoi errori.

34 1Poi Mosè salì dalle steppe di Moab sul monte Nebo, cima del Pisga, che è di fronte a Gerico. Il Signore gli mostrò tutta la terra: Gàlaad fino a Dan, 2tutto Nèftali, la terra di Èfraim e di Manasse, tutta la terra di Giuda fino al mare occidentale 3e il Negheb, il distretto della valle di Gerico, città delle palme, fino a Soar. 4Il Signore gli disse: «Questa è la terra per la quale io ho giurato ad Abramo, a Isacco e a Giacobbe: «Io la darò alla tua discendenza». Te l’ho fatta vedere con i tuoi occhi, ma tu non vi entrerai!».

Tutti coloro che sono stati in un viaggio in Israele hanno visto il Giordano dalla parte di Israele. Una delle cose che, se uno può, vale la pena di fare è andare in Giordania e andare sul monte Nebo. E’ curioso che in Giordania, fin dal momento in cui atterri all’aeroporto di Amman, trovi dappertutto la scritta “Welcome to the Holy Land” che fa un po’ impressione perché la Terra Santa per noi non è la Giordania. Pur non essendo la Giordania una terra ebraico-cristiana, è ricca di luoghi archeologicamente legati a questa memoria. Quando si arriva al monte Nebo si vede il Giordano dall’altra parte, dall’alto e non dal basso, non a livello fiume, ma su questa altura che è un’altura abbastanza a strapiombo. Non si vede tutto quello che è citato nel testo, ma si vede la terra, la città delle palme, la valle verde del Giordano in mezzo a un territorio molto arido. A Mosè, salito dalle steppe di Moab in alto sul monte Nebo, il Signore fa vedere tutto e dice: “Questa è la terra che ho giurato avrei dato alla mia discendenza. Adesso l’hai vista, ma tu non vi entrerai”. Mosè è fermo sulla soglia. Mosè è davvero tutti noi: sulla soglia. Vede, ma non può entrare. È esattamente quello che tutti sperimentiamo: vediamo la vita, ma non la possiamo possedere. Ogni tanto ce ne arriva un pezzetto, per grazia, ma poi scappa via perché siamo sulla soglia. Eppure non possiamo smettere di guardare.

5Mosè, servo del Signore, morì in quel luogo, nella terra di Moab, secondo l’ordine del Signore.

Mosè muore in terra straniera, questa sarà sempre un’ossessione per il popolo ebraico, morire ed essere sepolti in terra straniera perché la terra, la nostra terra, la terra che Dio ci ha dato, è l’unica vera patria. Mosè muore in questo luogo secondo l’ordine del Signore. Si chiude il cerchio che passa attraverso alla benedizione.

6Fu sepolto nella valle, nella terra di Moab, di fronte a Bet-Peor. Nessuno fino ad oggi ha saputo dove sia la sua tomba.

Mosè è figura cristologica, non c’è un cadavere. Anche di Mosè non si può celebrare il funerale definitivo. È il primo segnale di quella che è la vera promessa di Dio: chi muore dopo aver benedetto, non muore mai del tutto, non ha una tomba sulla quale mettere una pietra.

7Mosè aveva centoventi anni quando morì. Gli occhi non gli si erano spenti e il vigore non gli era venuto meno.

Era vivo fino a quando è morto, era vivo davvero. Il grande di quell’epoca, per chi viveva un po’ più a lungo rispetto alla vita media, era la cecità. Ma gli occhi di Mosè non si erano spenti, aveva potuto vedere, cioè la sua vita era viva.

8Gli Israeliti lo piansero nelle steppe di Moab per trenta giorni, finché furono compiuti i giorni di pianto per il lutto di Mosè.

Morire secondo benedizione ha un suo tempo, ma un tempo che finisce, si compiono i giorni di lutto. C’è un totale senso di compiutezza in questa storia.

9Giosuè, figlio di Nun, era pieno dello spirito di saggezza, perché Mosè aveva imposto le mani su di lui. Gli Israeliti gli obbedirono e fecero quello che il Signore aveva comandato a Mosè.

La vita continua attraverso Giosuè a cui Mosè aveva imposto le mani, il passaggio dell’eredità, del ruolo. Imporre le mani è un segno antichissimo di passaggio, di continuità. Mosè lo aveva fatto rispetto a Giosuè e il popolo obbedisce a Giosuè, va avanti.

10Non è più sorto in Israele un profeta come Mosè, che il Signore conosceva faccia a faccia,

Dicevo all’inizio mi piacerebbe si potesse dire di me che ho benedetto fino all’ultimo giorno della mia vita; allo stesso modo mi piacerebbe si potesse dire di me che il Signore mi conosceva faccia a faccia. C’è una logica in questo, per cui la chiusura del cerchio di una preghiera che riguarda la radicalità della vita e della morte è uno stato di continuità, è questo essere faccia a faccia, mettendosi dalla parte della vita.

E dunque vorrei concludere con questo testo che abbiamo tante volte già citato. È tratto dalla poesia “La morte di Mosè” di Bonhoeffer. La conclusione di quella poesia dice così:

Tu che punisci i peccati e perdoni volentieri,
Dio, questo popolo io l’ho amato.
Aver portato la sua vergogna e i suoi vizi
e aver visto la sua salvezza: questo mi basta.
Reggimi, prendimi! Il mio bastone si incurva,
preparami la tomba, o fedele Iddio».

A me è molto caro questo testo. È qualcosa che in qualche modo mi sembra chiuda il cerchio. C’è un desiderio di vita e di morte paradossale, probabilmente, ma necessario perché di questo si tratta. Non si tratta di singoli comportamenti, di singole preghiere, di fare questa o quella devozione. Si tratta di mettersi dalla parte della vita e della benedizione.

Intervento: Mi è venuto in mente il libro del cardinal Martini su Mosè, quello che diceva che la vita di Mosè è divisa in tre periodi di 40 anni a completare i 120 anni. Verrebbe voglia di rileggerlo.

Risposta: il libro si intitola “Vita di Mosè” e come dici merita davvero di essere letto, però non è sulla morte, ma sulla vita di Mosè.

Intervento: vorrei aggiungere una piccola cosa a queste grandi cose che ha detto Stella, una pensiero su Mosè che mi piace tanto. Quando Mosè entra nella tenda del convegno per parlare con Dio faccia a faccia, perché erano amici dunque si parlavano faccia a faccia, si deve velare il volto per nascondere a tutti quelli che lo guardano lo splendore del suo volto. Questo uomo che splende dopo aver parlato con Dio, il suo amico, e che muore benedicendo, pieno dei regali che la vita può offrire, è quello che a un certo punto “acchiappa Dio per la collottola” e gli dice: “E va bene: noi siamo un popolo di testoni, noi siamo un popolo di dura cervice. Ma tu ci hai portato fino a qui e adesso tu ci tiri fuori dai guai, altrimenti ti tieni questo popolo e io me ne vado.” Ho fatto una traduzione molto folkloristica, ma credo non inesatta, almeno nel suono del testo. Quest’uomo è quello che dentro un amore fa quello che si fa negli amori: si ricatta (ricatta ovviamente è parola che va edulcorata). Credo che questo sia la il nucleo bello della benedizione. Chi può dirsi amico di Dio può dirgli: “Io sono arrivato fino a qui, quasi quasi per colpa tua. Non ti rinnegherò, ma adesso tu ci togli dai guai, perché noi siamo quelli che tu conoscevi e siamo il tuo popolo.” Credo che questa sia una verità del cuore che ci si può permettere.

Fossano, 21 gennaio 2023
Testo non rivisto dall’autore

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