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11 Febbraio 2023
Stella Morra

5. Vita e Spirito

Commento a: Lc 2, 21-52


Il percorso di quest’anno

Siamo arrivati al quinto appuntamento di quest’anno che, come sempre, è una tappa un po’ particolare. Le prime quattro tappe sono dedicate a testi dell’Antico Testamento, e la scelta dei brani è di tipo descrittivo: il tema di cui ci occupiamo viene esplorato descrivendo le dinamiche umane più comuni, che troviamo spesso raccontate nell’Antico Testamento. Poi c’è il passaggio al Nuovo Testamento, più spesso al Vangelo, per fare un “salto” cristologico, cioè per vedere il tema non solo in riferimento ad una comprensione profonda delle dinamiche che ci abitano, ma per provare a vederle dal punto di vista che, in modo innovativo, viene proposto da Gesù. Nella storia del popolo ebraico Gesù propone un nuovo rapporto con il sacro, il religioso, ma anche con se stessi, con la comprensione di ciò che è umano: in qualche modo apre una prospettiva ulteriore. Anche noi seguiamo questo percorso, quello tipico della storia della salvezza: il lungo tempo della promessa, in cui si viene preparati a partire da noi stessi, dalla nostra esperienza comune, fino a quella che tradizionalmente la teologia definisce come “pienezza” in Gesù. È uno sfondamento, un’apertura ulteriore, un forzare l’orizzonte.

Stiamo riflettendo sul tema della preghiera e l’aspetto descrittivo ha percorso la parabola a partire dal desiderio originario per cui si prega, che spesso è il desiderio di morire, non necessariamente nel senso della morte fisica, ma in quello più spesso sperimentato di chi dice «basta, non ce la faccio più…». L’abbiamo percorso nel brano di Tobia, poi attraverso l’esperienza della realtà rovesciata di Elia, che inizia con «basta, non sono migliore dei miei padri» ma si colora di sfumature diverse. Siamo arrivati poi all’annuncio della sovrabbondanza nel Salmo 91, in cui il desiderio di morire, se si accetta di cambiare, diventa desiderio di vita e infine, la volta scorsa, la preghiera mossa dal desiderio di benedire prima di morire. Il racconto della morte di Mosè, sulla soglia del compimento della promessa, rovescia in qualche modo il dato iniziale: la preghiera che sempre nasce da un desiderio più o meno esplicito di morire, se percorsa diventa il desiderio di benedire, prima di morire, cioè desiderio di vivere. Desideri che si rivolgono a qualcuno che si ritiene abbia la possibilità di accoglierli e di compierli.

La lectio di oggi

Oggi passiamo la soglia del Nuovo Testamento e proviamo a ragionare su qual è l’attitudine e quali sono le forme della preghiera proposte come innovative, che spezzano – per dirla con parole contemporanee – la coazione a ripetere. Tutto l’Antico Testamento ci mostra una continua ripetizione di dinamiche umane – violenza, potere, paura, schiavitù, ecc.  – che è urgente spezzare. Arriva il tempo del compimento della pazienza di Dio, che spezza la coazione a ripetere di questa umanità uguale a se stessa e fa vedere un altro pezzo di vita, la vita piena.

Leggeremo parte del capitolo due del vangelo di Luca, soffermandoci su tre scene che si possono interpretare in molti modi, ma che ci possono aiutare a sfondare l’orizzonte di una comprensione della preghiera semplicemente come affidamento di un desiderio radicale nelle mani di qualcuno che spereremmo lo possa compiere. In fondo anche questa è una coazione a ripetere, l’affidarsi perché sia qualcun altro a compiere il nostro desiderio, con una modalità tipicamente infantile.

Il testo: Luca 2, 21 – 52

21 Quando furono passati gli otto giorni prescritti per la circoncisione, gli fu messo nome Gesù, come era stato chiamato dall’angelo prima di essere concepito nel grembo della madre. 22 Quando venne il tempo della loro purificazione secondo la Legge di Mosè, portarono il bambino a Gerusalemme per offrirlo al Signore, 23 come è scritto nella Legge del Signore: ogni maschio primogenito sarà sacro al Signore; 24 e per offrire in sacrificio una coppia di tortore o di giovani colombi, come prescrive la Legge del Signore.

25 Ora a Gerusalemme c’era un uomo di nome Simeone, uomo giusto e timorato di Dio, che aspettava il conforto d’Israele; 26 lo Spirito Santo che era sopra di lui, gli aveva preannunziato che non avrebbe visto la morte senza prima aver veduto il Messia del Signore. 27 Mosso dunque dallo Spirito, si recò al tempio; e mentre i genitori vi portavano il bambino Gesù per adempiere la Legge, 28 lo prese tra le braccia e benedisse Dio: 29 «Ora lascia, o Signore, che il tuo servo vada in pace secondo la tua parola; 30 perché i miei occhi han visto la tua salvezza, 31 preparata da te davanti a tutti i popoli, 32 luce per illuminare le genti e gloria del tuo popolo Israele».

33 Il padre e la madre di Gesù si stupivano delle cose che si dicevano di lui.34 Simeone li benedisse e parlò a Maria, sua madre: «Egli è qui per la rovina e la risurrezione di molti in Israele, segno di contraddizione 35 perché siano svelati i pensieri di molti cuori. E anche a te una spada trafiggerà l’anima».

36 C’era anche una profetessa, Anna, figlia di Fanuèle, della tribù di Aser. Era molto avanzata in età, aveva vissuto col marito sette anni dal tempo in cui era ragazza, 37 era poi rimasta vedova e ora aveva ottantaquattro anni. Non si allontanava mai dal tempio, servendo Dio notte e giorno con digiuni e preghiere.38 Sopraggiunta in quel momento, si mise anche lei a lodare Dio e parlava del bambino a quanti aspettavano la redenzione di Gerusalemme.

39 Quando ebbero tutto compiuto secondo la legge del Signore, fecero ritorno in Galilea, alla loro città di Nazareth. 40 Il bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era sopra di lui.

41 I suoi genitori si recavano tutti gli anni a Gerusalemme per la festa di Pasqua.42 Quando egli ebbe dodici anni, vi salirono di nuovo secondo l’usanza; 43 ma trascorsi i giorni della festa, mentre riprendevano la via del ritorno, il fanciullo Gesù rimase a Gerusalemme, senza che i genitori se ne accorgessero.44 Credendolo nella carovana, fecero una giornata di viaggio, e poi si misero a cercarlo tra i parenti e i conoscenti; 45 non avendolo trovato, tornarono in cerca di lui a Gerusalemme. 46 Dopo tre giorni lo trovarono nel tempio, seduto in mezzo ai dottori, mentre li ascoltava e li interrogava. 47 E tutti quelli che l’udivano erano pieni di stupore per la sua intelligenza e le sue risposte. 48 Al vederlo restarono stupiti e sua madre gli disse: «Figlio, perché ci hai fatto così? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo». 49 Ed egli rispose: «Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?». 50 Ma essi non compresero le sue parole.

51 Partì dunque con loro e tornò a Nazareth e stava loro sottomesso. Sua madre serbava tutte queste cose nel suo cuore. 52 E Gesù cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini.

 

L’inizio del brano è lo scenario previo, il percorso fatto fino a qui riassunto in breve:

 

21 Quando furono passati gli otto giorni prescritti per la circoncisione.  C’è un passare del tempo che è prescritto: tutta la prima parte è descrittiva, ma non è inutile né si può saltare; devono passare otto giorni dalla nascita a ciò che può sfondare l’orizzonte. Bisogna passare attraverso un desiderio infantile di morte e un desiderio infantile di fiducia che qualcuno possa trasformare la nostra morte in una benedizione. L’antico desiderio che ci sia un padre, un amico, un amore, qualcuno che ci conduca, che stabilisca una legge.

Dopo questa prescrizione si compie un gesto fondamentale: gli fu messo nome Gesù, come era stato chiamato dall’angelo prima di essere concepito nel grembo della madre. Una parafrasi di Genesi: Dio affida all’uomo il compito di dare un nome agli animali e alle piante; questi ricevono il loro nome da altrove. Gesù si sottopone alla stessa legge: il suo nome è stato dato da un angelo prima ancora che fosse concepito. Nella Scrittura c’è una tensione costante tra pazienza e urgenza. Tutto avviene sempre prima che si veda. C’è sempre una fretta e accanto alla fretta ci sono sempre gli otto giorni prescritti, e bisogna aspettare. Non a caso la preghiera cristiana si struttura secondo la logica del tempo: la liturgia delle ore, l’anno liturgico, il ciclo delle feste… perché il 90% della preghiera è questione di tempo, è in questa tensione tra pazienza, attesa, e urgenza. Il primo grande sfondamento è questo: la preghiera dell’Antico Testamento è quasi sempre preghiera sul presente. Gesù inserisce una costante oscillazione tra attesa e urgenza e secondo me lì sta uno dei luoghi fondamentali della preghiera.

 

 Quando venne il tempo della loro purificazione secondo la Legge di Mosè portarono il bambino a Gerusalemme per offrirlo al Signore, come è scritto nella Legge del Signore: ogni maschio primogenito sarà sacro al Signore; e per offrire in sacrificio una coppia di tortore o di giovani colombi, come prescrive la Legge del Signore. Questi versetti descrivono lo stato dell’arte della Legge di Mosè. In memoria dell’Esodo, della notte in cui morirono i primogeniti egiziani, i primogeniti ebrei sono tutti donati a Dio. Perciò, quando nasce il primogenito maschio bisogna riscattarlo, ri-comprarlo da Dio con l’offerta di due colombe. Secondo la Legge di Mosè bisogna purificare e riscattare. Affacciarsi alla vita richiede purificazione e riscatto rispetto alla Legge antica. Quello che ci viene detto dal versetto seguente è che non è più così, che non sono richiesti purificazione e riscatto, che si può stare in uno stato di preghiera da impuri e Gesù lo ripeterà in molti modi, ad esempio nella parabola del fariseo e del pubblicano. E non c’è neanche qualcosa da riscattare, perché Dio non è possessivo, non tiene per sé, ha fatto il mondo per noi. Per vivere non sono più necessarie condizioni previe.

 

Ora a Gerusalemme c’era un uomo di nome Simeone, uomo giusto e timorato di Dio, che aspettava il conforto d’Israele; lo Spirito Santo che era sopra di lui, gli aveva preannunziato che non avrebbe visto la morte senza prima aver veduto il Messia del Signore. Mosso dunque dallo Spirito, si recò al tempio; e mentre i genitori vi portavano il bambino Gesù per adempiere la Legge, lo prese tra le braccia e benedisse Dio: «Ora lascia, o Signore, che il tuo servo vada in pace secondo la tua parola; perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza, preparata da te davanti a tutti i popoli, luce per illuminare le genti e gloria del tuo popolo Israele». Il padre e la madre di Gesù si stupivano delle cose che si dicevano di lui. Simeone li benedisse e parlò a Maria, sua madre: «Egli è qui per la rovina e la risurrezione di molti in Israele, segno di contraddizione perché siano svelati i pensieri di molti cuori. E anche a te una spada trafiggerà l’anima».

Questa è la prima slide, il primo dei tre quadretti (Simeone, Anna e infine Gesù tra i dottori del tempio) che mostrano possibilità di sfondamento molto interessanti, sulla soglia del Nuovo Testamento. Siamo di fronte a un bambino che non è ancora niente, non insegna, non guarisce, non fa miracoli, con buona pace dei vangeli apocrifi, che infatti anticipano, stanno dalla parte della fretta e sono impazienti di vedere, mostrando un Gesù bambino che fa miracoli e a volte è persino cattivo con gli altri bambini. Qui invece c’è un bambino normale che buoni genitori ebrei portano a compiere ciò che è dovuto per legge.

Siamo sulla soglia, ma su questa soglia ci sono due figure, Simeone e Anna, che sfondano l’orizzonte e vedono ciò che ancora non si vede, perciò pregano e lo fanno, quasi stereotipicamente, da maschio e da femmina. Maschio e femmina come dimensioni che attraversano entrambi i generi, ma che si ritrovano più tipicamente nell’uno o nell’altro.

Ora a Gerusalemme c’era un uomo di nome Simeone, uomo giusto e timorato di Dio: un uomo per bene che aspettava il conforto d’Israele. Simeone si reca al tempio, non era lì ad aspettare, stava a casa sua, con le sue comodità – pantofole e divano, maxischermo e tv. Lo Spirito Santo che era sopra di lui, gli aveva preannunziato che non avrebbe visto la morte senza prima aver veduto il Messia del Signore. Siamo ancora lì, ancora alle prese con morte e vita; c’è una vita che viene tenuta in sospeso, contrariamente a quanto successo a Mosè, che incontra la morte prima di entrare nella Terra Promessa. A Simeone, il primo dopo l’inizio del Nuovo Testamento, viene concesso di non morire senza aver visto.

Mosso dunque dallo Spirito, si recò al tempio; e mentre i genitori vi portavano il bambino Gesù per adempiere la Legge, lo prese tra le braccia e benedisse Dio. Simeone compie due operazioni: vede il bambino e lo riconosce, dunque benedice. Questo è l’altro luogo tipico di una preghiera che ha sfondato l’orizzonte: riconoscere per benedire. Nel racconto delle benedizioni di Mosè non c’è nessun riconoscimento. La sua – inserita più tardi nel testo, quando tutto era avvenuto – è una profezia a freddo. Qui invece c’è nel racconto stesso un riconoscimento. Primo sfondamento: non si prega più solo per desiderio, tantomeno solo per desiderio di morte. Si prega perché si è visto, si è riconosciuto.

Questo è uno dei motivi per cui spesso penso di non saper pregare, di non pregare. Riconoscere a volte è una fatica, a volte è proprio una impossibilità, ma finché non riconosciamo non possiamo benedire. La storia, il mondo, gli altri, non entrano nella preghiera perché ce li mettiamo noi come temi: preghiamo per la pace nel mondo, per i migranti… certo, non fa male, ma senza il mio riconoscimento del mondo così com’è, dei bisogni che ci sono, dei desideri e delle fatiche degli altri, io non posso benedire. Non è che io prego e, siccome sono buono, prego anche per gli altri: poiché io riconosco negli altri i miei fratelli, il volto di Gesù oggi per me, allora posso pregare. E se non riconosco gli altri, non posso pregare.

Simeone, mosso dallo Spirito, riconosce, vede, benedice e – da bravo maschio – benedice prima di tutto per ciò che riguarda lui: Ora lascia, o Signore, che il tuo servo vada in pace secondo la tua parola. La prima frase è «posso andare in pace» perché i miei occhi – i miei occhi – hanno visto la tua salvezza, preparata da te davanti a tutti i popoli, luce per illuminare le genti e gloria del tuo popolo Israele. Simeone benedice Dio dicendo «posso riposare».

Il padre e la madre di Gesù si stupivano delle cose che si dicevano di lui. I genitori di Gesù restano perplessi, e questo è paradossale. Quelli che non riconoscono sono Maria e Giuseppe. Eppure, entrambi avevano qualche strumento per capire che Gesù non era proprio un bambino qualunque, invece, in questa situazione, non riconoscono. Infatti, alla fine del brano, non si dice che Maria benedice, ma che “conservava queste cose nel suo cuore”. Non riconosce, si stupisce, non capisce, e mette lì da parte. Poi nelle omelie si esalta la capacità di Maria di conservare nel cuore… di per sé è un passo a metà. Certo, una cosa a Maria è chiara: bisogna fidarsi di Dio, quindi non butta via nulla, conserva perché non ha ancora riconosciuto e quindi non può ancora benedire. Come sappiamo dai racconti evangelici, Maria ci metterà un po’ ad arrivare a benedire.

Simeone li benedisse e parlò a Maria, sua madre. Di tutto ciò che Simeone disse a Maria, in quasi tutti i commenti e le omelie si conserva soltanto l’ultima frase. L’addolorata, le sette spade, la povera madre il cui figlio morirà in croce… tutto vero, tutto giusto, ma questa è solo l’ultima frase di Simeone: «Egli è qui per la rovina e la risurrezione di molti in Israele, segno di contraddizione perché siano svelati i pensieri di molti cuori. Simeone dice una cosa molto più grave: con Gesù non si bara, saranno svelati i pensieri dei cuori. La logica del desiderio – se desiderio di morte o di vita – sarà resa visibile. Ed è l’operazione che soprattutto i vangeli sinottici raccontano attraverso i miracoli. In quei racconti Gesù svela, attraverso un gesto su un corpo, la verità dei desideri: «che cosa mi chiedi?» spesso dice Gesù a colui che lo invoca, e sembra una domanda retorica, inutile. Invece è una domanda di svelamento dei cuori e segno di contraddizione.

E anche a te una spada trafiggerà l’anima.  E anche tu, Maria, sarai coinvolta in questo. Maria le tiene nel suo cuore perché siano svelate.

Scena numero due:

C’era anche una profetessa, Anna, figlia di Fanuèle, della tribù di Aser. Era molto avanzata in età, aveva vissuto col marito sette anni dal tempo in cui era ragazza, era poi rimasta vedova e ora aveva ottantaquattro anni – un’età da Matusalemme, per quei tempi.  Non si allontanava mai dal tempio, servendo Dio notte e giorno con digiuni e preghiere. E qui già vediamo una prima differenza tra Anna e Simeone: non ha ricevuto una promessa, ma sta lì, figura sempre ripresa nei vangeli e troppo spesso cancellata dalla memoria di lettura dei vangeli. Le donne stanno come Maria Maddalena sta al sepolcro, mentre i discepoli vanno e vengono. Anna sta al tempio e serve Dio.

Sopraggiunta in quel momento, si mise anche lei a lodare Dio e parlava del bambino a quanti aspettavano la redenzione di Gerusalemme. La sua prima conclusione non è «ora lascia Signore…»

Ma è parlare del bambino a quanti aspettavano la redenzione. Proprio l’altra faccia, rispetto a Simeone.

Quando ebbero tutto compiuto secondo la legge del Signore, fecero ritorno in Galilea, alla loro città di Nazareth. Il bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza.  Tutto viene compiuto, tornano a casa e il bambino cresce e si fortifica.

La grazia di Dio era sopra di lui. Questo versetto dovrebbe farci compagnia ogni giorno della nostra vita perché siamo stati battezzati, cioè immersi nella morte e resurrezione di Gesù Cristo, e la grazia di Dio, quindi, è sopra di noi in ogni giorno della nostra vita.

Scena numero tre:

I suoi genitori si recavano tutti gli anni a Gerusalemme per la festa di Pasqua. Quando egli ebbe dodici anni, vi salirono di nuovo secondo l’usanza. Dodici è un numero carico di significati, ma qui è anche l’anno prima del compimento del tredicesimo anno, quello del Bar Mitzvah, la cerimonia religiosa della maggiore età dei maschi ebrei. Ancora una volta, urgenza e attesa: per quasi tredici anni il bambino cresce e si fortifica, non succede nulla; poco prima di quando dovrebbe succedere il “passaggio” alla maggiore età, succede qualcosa. Perché c’è sempre una fretta, un’urgenza.

Ma trascorsi i giorni della festa, mentre riprendevano la via del ritorno, il fanciullo Gesù rimase a Gerusalemme, senza che i genitori se ne accorgessero. Gesù si prende un’autonomia, tipica della maggiore età – che non aveva ancora – e commenta la Scrittura con i dottori della legge, che è esattamente il cuore della cerimonia del Bar Mitzvah, in cui ad ogni bambino viene assegnata una Parashah, un brano della Torah da leggere e cantare secondo il rito, e che diventa la sua Parashah, quella che lo costituisce. Gesù si prende questa libertà un po’ prima, decide autonomamente e discute con i dottori.

 Credendolo nella carovana, fecero una giornata di viaggio, e poi si misero a cercarlo tra i parenti e i conoscenti; non avendolo trovato, tornarono in cerca di lui a Gerusalemme. Dopo tre giorni lo trovarono nel tempio, seduto in mezzo ai dottori, mentre li ascoltava e li interrogava. E tutti quelli che l’udivano erano pieni di stupore per la sua intelligenza e le sue risposte. Al vederlo restarono stupiti e sua madre gli disse: «Figlio, perché ci hai fatto così? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo». Ed egli rispose: «Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?». Ma essi non compresero le sue parole.

Partì dunque con loro e tornò a Nazareth e stava loro sottomesso. Sua madre serbava tutte queste cose nel suo cuore. E Gesù cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini.

Sono più interessanti i commenti laterali che non l’episodio in sé. Qui Gesù, per una volta tanto nel Vangelo, assume un atteggiamento un po’ antipatico: doveva pur capire che sua madre si è agitata non trovandolo. Eppure risponde da “saputello”, e di conseguenza essi non comprendono. Questo è un testo introdotto a posteriori, come un segnale sul futuro. Ma al di là del dato storico in sé, nell’urgenza di forzare l’orizzonte, ci sono due elementi che vengono introdotti: un cambiamento di tutti i legami di dovere – i legami parentali, quelli legati alla maggiore età: c’è una libertà che non solo si può ma si deve assumere. Non c’è preghiera senza libertà, anche più potente dei legami. L’altro elemento è lo stupore: la libertà produce stupore, chi ti sta intorno si stupisce, perché solo la ripetizione non produce stupore. Bisogna essere preparati allo stupore altrui e al nostro stesso stupore. Questi sono elementi che sfondano l’orizzonte: riconoscere, parlare, libertà e stupore. Sono i primi quattro atteggiamenti che ci vengono detti come luogo della benedizione.

Gesù torna a Nazareth, sta loro sottomesso; sua madre conserva tutte queste cose nel suo cuore – non ha del tutto riconosciuto né compreso, ma conserva nel suo cuore. Gesù cresce in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini, come solo a lui, Buddha e pochi altri succede: l’età va di suo, gli anni passano, ma crescere insieme con tutti quei pezzi è operazione complicata. Mettersi dalla parte della vita e non del desiderio di morte è proprio questo: crescere in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini, il più possibile tutto insieme.

  

Fossano, 11 febbraio 2023

Testo non rivisto dall’autore

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