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15 Ottobre 2022
Stella Morra

1. Il desiderio di morire

Commento a: Tb 3, 1-17


Allora quest’anno, dopo un po’ di confronto con il Consiglio abbiamo scelto un tema apparentemente, tra virgolette, semplice. Noi spesso abbiamo dei percorsi, almeno causa mia, un po’ cervellotici, un po’ complicati, punti di vista molto trasversali. Quest’anno abbiamo scelto un punto di vista semplice, perché ci sembrava necessario per noi stessi, innanzitutto. Dopo questi anni del Covid, le difficoltà, la fatica di recuperare delle relazioni, del ritrovare equilibri di vicinanze e distanze, e la fatica di capire quello che ci succede intorno, oltre che quello che ci succede dentro, abbiamo in qualche modo pensato che bisognava tornare ai fondamentali, cioè tornare ad alcune domande di base che ci accompagnano, che accompagnano la vita dei credenti o comunque degli interroganti, cioè chi non si accontenta di una visione puramente materiale delle cose così come sono e si fa delle altre domande. Tornare ai fondamentali per cercare di riprendere soprattutto delle fonti di energia. In questi anni, la Parola di Dio è sempre stata per me un poco la miniera in cui abbiamo trovato, ognuno a modo proprio, secondo la propria sensibilità, però in una certa misura anche insieme e quindi con un bel equilibrio tra personalmente e insieme nella libertà, ciascuno di farne in qualche modo l’uso che voleva. Contemporaneamente, un filo che si è tessuto attraverso gli anni di comunanza, che già questa è una bella impresa, abbiamo sempre trovato nella Parola di Dio una fonte di energia.

Io personalmente dicevo al Consiglio che sono in una fase della vita in cui mi sembra di essere totalmente dissanguata, cioè di fare una fatica pazzesca a trovare un luogo che non mi succhi energia, sangue, vita, o che me ne succhi un po’, ma anche me ne dia un po’. Ognuno di noi nella propria esistenza ha trovato dei luoghi, delle relazioni, delle persone, situazioni magari molto diverse che gli davano un po’ di fiato, per cui poi il giorno dopo si alzava un po’ meglio con un po’ più di energia. Io faccio una grande fatica rispetto a questo in questo tempo della mia vita e dunque proponevo agli amici del Consiglio, che in qualche modo si sono ritrovati in questa cosa, di interrogarci sul tema della preghiera. Uno di quei temi apparentemente facili, uno dice: come? Sono 20, 30 anni che bazzicate per monti di Chiesa e non avete idea di cosa è la preghiera? Poi, si può insegnare la preghiera? ha dei metodi? è una roba con manuale di istruzioni? Eppure non so, mi sembra che è tra le prime domande che ci si fa quando da adolescenti, quando ci si affaccia a questi mondi, sia per accettarli, che per rifiutarli. Sono le prime domande che in genere ci si fanno, poi si mettono da parte, non perché si è trovato una buona risposta, spesso si è trovato un modo per sé, una specie di equilibrio si fanno alcune cose, non si fanno, si sceglie. Ma è come se tutta questa roba qui rimanesse sullo sfondo, non più interrogata, e invece forse è proprio da adulto, quando la vita si fa un po’ più spessa, quando ci sono, come in questo tempo molto condiviso, non solo individualmente nelle biografie di ciascuno ma anche in modo un po’ di fronte a tutto il mondo, che uno si chiede: Vabbè ma che scopo ha pregare? Che cosa vuol dire? Che cosa mi dà? Che cosa non mi dà?

Nel Consiglio ragionavamo, per esempio: per molti di noi dopo il Covid tornare a Messa è stata un’esperienza un po’ destabilizzante e per molti non si è più realizzata, perché nemmeno in questo grande tesoro della liturgia, su cui ci siamo interrogati tanto e che molto ci ha accompagnato, ci sembrava più di riuscire a trovare qualche cosa di significativo. Poi, potevamo un po’ brontolare sui preti, che sono completamente squagliati per il 90%. Vero, le celebrazioni che non si possono proprio più reggere, tante cose così, però alla fine la questione rimane la stessa e cioè: noi dove troviamo energia? Pur nel realismo di sapere che non è più l’energia che si trova da adolescenti, che si nutre anche dell’energia fisica di essere un ragazzo, per cui hai fiato da vendere. Sicuramente siamo tutti un po’ più calmini, però bisogna ritrovare un’energia di fondo e allora su questa cosa, specie in un tempo di così grandi transizioni, in cui la forma di tutto sta cambiando e anche la forma del credere, uno dei gesti che dovrebbe essere più o meno quotidiano della vita credente, che è l’atteggiamento di preghiera dov’è andato a finire? Ha un’altra forma? Chiede delle altre cose? Io non lo so, io sono molto perplessa e un po’ schizofrenica. La vita come è, le persone, eccetera, mi chiedono tantissimo e poi non lo so: dovrebbe esserci un altro spazio, un altro tempo per stare fermi, zitti, pensare? E mi riviene la stessa domanda che avevo a 15 anni: ma cosa devo pensare? Cioè tutto il giorno penso, penso a come reagire alla persona che ho davanti, penso alla situazione che responsabilità mi chiede, penso a come assumermi le responsabilità che la vita mi ha dato, cosa devo fare per il mio lavoro, eccetera, e poi mi devo mettere lì a pensare a che? Me lo chiedevo già 15 anni e continuo a chiedermelo, da un certo punto di vista.

Allora, abbiamo un po’ deciso di affrontare il tema di fare questo percorso e il titolo è particolarmente provocatorio, proprio in questa direzione di un cambio di forma si chiama: Mano, respiro, parola: la carne dell’incontro. La preghiera forse è una di quelle dimensioni che chiede di essere ripensata radicalmente, in cui le preghiere, forse, non ci raggiungono più, non sappiamo più come, dove, quando utilizzarle. Una delle cose che si sente di più dire da tutti gli adulti è: non ho tempo di pregare, sono troppo stanco, eccetera. Ma se la preghiera è qualcosa di contrario alla vita, allora, o hai sbagliata la preghiera, o è sbagliata la vita! Non so come dire, Non può essere che la preghiera sia qualcosa che non trova il suo spazio, che non trova il suo luogo, perché è esattamente la carne dell’incontro, è il quotidiano dell’incontro, è il non eccezionale, è il non straordinario, è quella dimensione di relazione che viviamo nelle nostre relazioni più significative, che spesso rischiamo di sottovalutare. Perché è lì, è nelle piccole cose, nel dirsi buongiorno al mattino, non ha sempre grandi comunicazioni epocali, ma poi, se non ci fosse, ci mancherebbe assai nelle relazioni.

Questa cosa è fatta di mano, di respiro, di parola, cioè ha bisogno di luoghi. Io ho un po’ scelto questi tre e vorrei introdurre un po’ il ragionamento con la citazione che sta anche sul programma, su cui però vorrei spendere due parole, che è una citazione dal libro di Sonnet La scorciatoia divina, che è un libro che forse quest’anno sarebbe la buona occasione per leggere, lo trovo un libro meraviglioso, e dice così: Quando Rashi – che è un sapiente del mondo ebraico, un maestro di Talmud – quando Rashi commenta che soltanto per Adamo le mani divine sono venute in soccorso della parola creatrice. Già questa è un osservazione che non avevo mai fatto finché non ho letto molti anni fa questo testo. Dio crea con la parola e noi molto insistiamo su questo: la Parola di Dio, la parola creatrice, ma quando deve creare Adamo usa anche le mani, non solo la parola. Dice: sia la luce e la luce fu, ma non dice: che sia Adamo, lo fa, allora quando Rashi commenta che soltanto per Adamo le mani Divine sono venute in soccorso della parola creatrice, fremo per il tocco di Dio sulla mia pelle, del palmo che sul mio torso aderisce alle distensioni del respiro e alla ostinazione del cuore. Sulla pagina biblica, spalancata, si è posata, leggera, la mia mano.

Ho un po’ l’impressione che, se io dovessi oggi dire che cos’è per me la preghiera, direi che è questo, che è un tocco senza particolari pensieri, è sentirsi toccati sul ritmo delle distensioni del respiro. Non toccati colpiti, in cui va contro il ritmo del nostro respiro, no toccati come si tocca negli affetti, o come la mia fisioterapista ha cominciato a fare dopo l’operazione, in cui quasi non sentivo la mano sulla gamba, perché la ferita, eccetera, tutto è troppo delicato, bisogna seguire, bisogna che la mano si adegui al corpo. Allora: il tocco di Dio che si adegua e, dall’altra parte, sulla pagina biblica, si posa la mia di mano. Toccati e toccare con il ritmo del respiro e certo poi ci sono delle parole, perché ci sono sempre, ma è un gesto che, non lo so, personalmente mi evoca il senso più profondo della preghiera, insomma questo per dare un po’ il titolo generale.

Mi piacerebbe che in questo percorso, un po’ come abbiamo fatto rispetto alla Parola di Dio, senza troppo tematizzarlo, ma anche però poi alla fine rendendocene conto, ci rendessimo conto che c’è qualcosa di molto personale, ma che forse c’è anche qualcosa di molto comune, che c’è un filo sottile che ci lega rispetto a queste cose, che possiamo in qualche  misura condividere, perché tutti abbiamo lo stesso respiro, più affaticato, più profondo, più fiato, meno fiato, ma tutti abbiamo lo stesso respiro.

Ecco questo è un po’ il senso, la successione dei brani la potete poi vedere nel programma. Come al solito ci sono quattro brani, un po’ più descrittivi, dell’Antico Testamento, che cercano di offrirci una riflessione su delle dinamiche molto comuni e poi quattro brani del Nuovo, che sono un po’ diversi, perché sicuramente Gesù spezza un po’ la logica sacrificale sacrale della preghiera, come tempo dato a Dio, pagato in una specie di prezzo, e la trasforma appunto in qualcosa di più profondo, di più legato e collegato alla vita, non in uno spazio separato. Quindi questo è un po’ diciamo la logica del percorso, come sempre, poi magari, a mano a mano, si capirà meglio.

La lectio di oggi

E dunque: il brano di oggi. Sul brano di oggi proprio per le ragioni dette fino a qua…
[commento sulla discussione in chat sulla citazione condivisa che è la stessa sul foglio del programma, dal libro La scorciatoia divina di Sonnet, che è un biblista] … Allora dicevo, in qualche modo partendo dalle cose che ci siamo dette, mi è sembrato che bisognava anche qui partire dai fondamentali e uno dei fondamentali del rapporto dell’Atrio con la Scrittura è il libro di Tobia. È uno dei testi da cui siamo partiti, che ci ha mosso molto, che ci ha accompagnato in questi anni, che ci ha attraversato in mille modi diversi. Perché la storia di Tobia ci ha intercettato in un tempo delle nostre vite, quando appunto abbiamo cominciato, in cui ci siamo veramente fortemente rispecchiati, non solo come individui ma anche come una analisi della condizione in cui stavamo, condizione di chiesa, condizione del paese.

La storia di Tobia è la storia di una adultità: Tobi e Tobia, il padre e il figlio, sono il vecchio e il nuovo dentro di noi, e il vecchio è buono, non è niente di male anzi prova a fare tutte le cose bene: cerca di rimanere nell’esilio senza il tempio, in una condizione completamente cambiata, di rimanere fedele alla legge, non compromettersi, non violare le leggi della purità. Forse come abbiamo fatto noi, tentando di rimanere dei bravi ragazzi di parrocchia, che andavano a Messa per bene, che facevano tutta una serie di cose, man mano però rendendoci conto che il tempo dell’esilio, quello senza tempio, dove Tobi si trova, dove gli israeliti solo pochi e non hanno più i punti di riferimento fondamentali della loro esperienza di fede, delle forme concrete della loro esperienza di fede, questo tempo è completamente cambiato e bisogna dunque inventare un altro modo, forse più inquietante, di stare dentro l’alleanza con Dio. E dunque la storia di Tobia il giovane, che di fronte alla disgrazia di Tobi, che guarda caso, come ultima disgrazia, diventa cieco, cioè non è in grado di vedere, non può più vedere la realtà, non ce la fa e tutti i primi capitoli del libro di Tobia, i primi tre, sono pieni di scavare tombe, si parla solo di morti, perché si sperimenta la sterilità di forme giuste, anche che sono state utili e belle, ma che sono totalmente sterili, che producono semplicemente morti. Allora di fronte a questo c’è la botta di genio, la decisione di mandare Tobia, il giovane, in un viaggio, a cercare un patrimonio e un matrimonio: i soldi, che il padre aveva messo da parte presso un parente e per i quali Tobia deve portare con sé un documento, e contemporaneamente – ma questo non si sa all’inizio – il matrimonio, il munus della madre, il munus fecondo. Non solo il munus del padre il patrimonio ma il munus fecondo che sarà realizzato dall’incontro con Sara e dal matrimonio: gli ultimi due capitoli di Tobia sono pieni di: “State bene… possiate vedere i figli dei vostri figli… state in salute”, sono pieni di futuro. Ci siamo sentiti, per tanti motivi, interrogati fortemente da questo libro e lo scatto, il passaggio, è intraprendere un viaggio.

Allora, dicevamo, ho riletto alcune delle cose che avevamo fatto allora: “Lasciare la riva, per andare verso un’altra riva”. Il problema è che adesso ci troviamo, 30 anni dopo aver lasciato una riva, ad essere in mare aperto: non c’è l’altra parte, non abbiamo attraversato un ponte, da una riva all’altra, ma abbiamo coraggiosamente lasciato una riva delle forme statuite e adesso stiamo nuotando senza vedere se c’è un’altra sponda e dov’è. La misura del guado è molto più lunga di quello che credevamo e quindi siamo ancora lì, siamo ancora a Tobia, siamo durante il viaggio, non abbiamo ancora trovato il patrimonio e nemmeno il matrimonio, siamo ancora alle prese con un angelo mentitore. Raffaele è fantastico, perché non dice una cosa vera in tutto il libro di Tobia, mente sempre e racconta cose stranissime, è la perfetta figura dell’angelo: colui che spiazza, colui che sposta, che costringe, giocando totalmente la propria correttezza. Non è corretto mai e bisogna fidarsi di uno scorretto per riuscire a intraprendere il santo viaggio, perché se ti affidi alla correttezza delle norme quello che produci sono tombe, né patrimoni, né matrimoni, solo tombe.

Su questo credo che è una cosa su cui dovremmo riflettere molto tutti insieme, ma è anche una cosa su cui io sto riflettendo parecchio, perché in fondo abbiamo tutti una specie di nostalgia – che le nonne avrebbero detto che si si possa fare la frittata senza rompere uova – cioè che si possa intraprendere un viaggio anche molto ampio, senza per questo dover fratturare qualcosa della propria esperienza precedente. Beh, non è vero, serve una scorrettezza per attraversare il mare e la scorrettezza ci mette nella posizione giusta, cioè ci mette nella posizione di richiedenti o, se volete, di oranti. Quella di essere fragili, vulnerabili – queste parole si sono usate tantissimo in questi due anni – non è una esperienza poetica, è proprio l’esperienza di avere un buco grosso così, cioè, e anche di aver fatto qualche cazzata di avere fatto più o meno delle cose di cui non si è particolarmente orgogliosi. E quando Papa Francesco dice che è in quella ferita e in quella frattura che si infila la grazia di Dio, non dice una cosa occasionale, dice un meccanismo fondamentale dell’esperienza credente. Ha usato un esempio che ho trovato molto efficace quando è andato a L’Aquila, dicendo che c’erano tutte le nubi su L’Aquila e non riusciva ad atterrare e poi a un certo punto si sono squarciate le nubi e dice: «C’è stata una ferita nel mantello nuvoloso, il pilota è stato bravo e ha beccato quella apertura ed è atterrato» e lui diceva così: «Per noi Dio può atterrare solo nelle nostre ferite, non in luoghi di forza, di bravura».

In fondo ci rimane dentro quest’idea meritoria del Cristianesimo e dunque: correttezza, coerenza, ascesi, tutta una serie di cose, rimane sempre un po’. Allora in questo muoversi, nuotando in mare aperto, si colloca la questione della preghiera la preghiera si dà solo, si diventa oranti solo se si ha davvero bisogno di qualcosa, se ci si percepisce come fratturati da qualche parte, piccola, grande, che capiamo solo noi, che capirebbero tutti, oggettiva, soggettiva. Qui c’è solo l’imbarazzo della scelta, non è necessariamente solo un guaio concreto ma può esserlo, può esserlo perché spessissimo le nostre paturnie mentali si concretizzano poi in elementi molto concreti. Il nome del nostro dolore è difficile da nominare e quindi ogni tanto lo nominiamo attraverso questo o quell’altro avvenimento o situazione, che almeno si può raccontare. Allora questo mi pare un po’ il punto di partenza: per essere oranti bisogna essere un po’ disperati.


Il testo:
Tb 3, 1-17

3 1Con l’animo affranto dal dolore, sospirai e piansi. Poi iniziai questa preghiera di lamento: 2«Tu sei giusto, Signore, e giuste sono tutte le tue opere. Ogni tua via è misericordia e verità. Tu sei il giudice del mondo. 3Ora, Signore, ricòrdati di me e guardami. Non punirmi per i miei peccati e per gli errori miei e dei miei padri. 4Violando i tuoi comandamenti, abbiamo peccato davanti a te. Ci hai consegnato al saccheggio; ci hai abbandonato alla prigionia, alla morte e ad essere la favola, lo scherno, il disprezzo di tutte le genti, tra le quali ci hai dispersi. 5Ora, quando mi tratti secondo le colpe mie e dei miei padri, veri sono tutti i tuoi giudizi, perché non abbiamo osservato i tuoi comandamenti, camminando davanti a te nella verità. 6Agisci pure ora come meglio ti piace; da’ ordine che venga presa la mia vita, in modo che io sia tolto dalla terra e divenga terra, poiché per me è preferibile la morte alla vita. Gli insulti bugiardi che mi tocca sentire destano in me grande dolore. Signore, comanda che sia liberato da questa prova; fa’ che io parta verso la dimora eterna. Signore, non distogliere da me il tuo volto. Per me infatti è meglio morire che vedermi davanti questa grande angoscia, e così non sentirmi più insultare!».

7Nello stesso giorno a Sara, figlia di Raguele, abitante di Ecbàtana, nella Media, capitò di sentirsi insultare da parte di una serva di suo padre, 8poiché lei era stata data in moglie a sette uomini, ma Asmodeo, il cattivo demonio, glieli aveva uccisi, prima che potessero unirsi con lei come si fa con le mogli. A lei appunto disse la serva: «Sei proprio tu che uccidi i tuoi mariti. Ecco, sei già stata data a sette mariti e neppure di uno hai potuto portare il nome. 9Perché vorresti colpire noi, se i tuoi mariti sono morti? Vattene con loro e che da te non dobbiamo mai vedere né figlio né figlia». 10In quel giorno dunque ella soffrì molto, pianse e salì nella stanza del padre con l’intenzione di impiccarsi. Ma, tornando a riflettere, pensava: «Che non insultino mio padre e non gli dicano: «La sola figlia che avevi, a te assai cara, si è impiccata per le sue sventure». Così farei precipitare con angoscia la vecchiaia di mio padre negli inferi. Meglio per me che non mi impicchi, ma supplichi il Signore di farmi morire per non sentire più insulti nella mia vita». 11In quel momento stese le mani verso la finestra e pregò: «Benedetto sei tu, Dio misericordioso, e benedetto è il tuo nome nei secoli. Ti benedicano tutte le tue opere per sempre. 12Ora a te innalzo il mio volto e i miei occhi. 13Comanda che io sia tolta dalla terra, perché non debba sentire più insulti. 14Tu sai, Signore, che sono pura da ogni contatto con un uomo 15e che non ho disonorato il mio nome né quello di mio padre nella terra dell’esilio. Io sono l’unica figlia di mio padre. Egli non ha altri figli che possano ereditare, né un fratello vicino né un parente per il quale io possa serbarmi come sposa. Già sette mariti ho perduto: perché dovrei vivere ancora? Se tu non vuoi che io muoia, guarda a me con benevolenza: che io non senta più insulti».

16In quel medesimo momento la preghiera di ambedue fu accolta davanti alla gloria di Dio 17e fu mandato Raffaele a guarire tutti e due: a togliere le macchie bianche dagli occhi di Tobi, perché con gli occhi vedesse la luce di Dio, e a dare Sara, figlia di Raguele, in sposa a Tobia, figlio di Tobi, e così scacciare da lei il cattivo demonio Asmodeo. Di diritto, infatti, spettava a Tobia prenderla in sposa, prima che a tutti gli altri pretendenti. Proprio allora Tobi rientrava in casa dal cortile e Sara, figlia di Raguele, stava scendendo dalla camera.

 

Commento:

3 1Con l’animo affranto dal dolore, sospirai e piansi. Poi iniziai questa preghiera di lamento: 2«Tu sei giusto, Signore, e giuste sono tutte le tue opere. Ogni tua via è misericordia e verità. Tu sei il giudice del mondo. 3Ora, Signore, ricòrdati di me e guardami. Non punirmi per i miei peccati e per gli errori miei e dei miei padri. 4Violando i tuoi comandamenti, abbiamo peccato davanti a te. Ci hai consegnato al saccheggio; ci hai abbandonato alla prigionia, alla morte e ad essere la favola, lo scherno, il disprezzo di tutte le genti, tra le quali ci hai dispersi. 5Ora, quando mi tratti secondo le colpe mie e dei miei padri, veri sono tutti i tuoi giudizi, perché non abbiamo osservato i tuoi comandamenti, camminando davanti a te nella verità. 6Agisci pure ora come meglio ti piace; da’ ordine che venga presa la mia vita, in modo che io sia tolto dalla terra e divenga terra, poiché per me è preferibile la morte alla vita. Gli insulti bugiardi che mi tocca sentire destano in me grande dolore. Signore, comanda che sia liberato da questa prova; fa’ che io parta verso la dimora eterna. Signore, non distogliere da me il tuo volto. Per me infatti è meglio morire che vedermi davanti questa grande angoscia, e così non sentirmi più insultare!».

Il brano continua ma ci fermiamo un attimo, questa è la preghiera di Tobi: è interessante perché è ancora lui, è ancora in qualche modo nello schema precedente. Dio ha comunque ragione e la preghiera di lamento non è un salmo imprecatorio, in cui dice: Si è forse addormentato il custode di Israele? È una preghiera che parte dicendo: ok, tu hai tutto giusto, noi siamo dei peccatori, tu hai fatto bene a metterci in questa situazione di m****, però: esilio, disprezzo, gli insulti. Detto questo, se posso dire la mia: così è meglio non vivere! È interessante perché non chiede che l’esilio sia risolto, dice: no, no, hai ragione! Noi abbiamo peccato, abbiamo fatto, quindi, va bene, è giusto quello che fai, niente da dire, però, guardami: non gliela faccio più! E quindi: risolvila per me, non per lui, per il mondo, risolvila per me: fammi morire! Morire è meglio che vivere!

All’inizio c’è questo testo, con cui si inizia, sospirai e piansi, il mondo ebraico ha una grande considerazione delle lacrime, secondo dei commentatori le lacrime sono la sovrabbondanza dell’anima che esce dagli occhi e nel ‘500 c’era una messa votiva, con un apposito rituale, per chiedere il dono delle lacrime. La storia di Silvano del Monte Athos è una grande storia di lacrime, in cui a un certo punto il Signore gli appare e gli dice: «Tieniti consapevolmente nell’inferno e non disperare». Le lacrime sono qualcosa di fondamentale, sono la prima ostinazione della preghiera, anche se uno non sta pensando a Dio, non fa dei pensieri devoti, non chiede niente, anche se piange e basta, piange perché la sovrabbondanza della sua anima esce dagli occhi. Perché un’anima XXL in una vita small non ci sta, in una vita che vorremmo, per esempio, a misura dei nostri affetti… e dunque eterna… e che coloro a cui vogliamo bene ci fossero.

Il punto di partenza della preghiera possono essere le lacrime e – diciamo – il segno di ciò che dicevo prima: bisogna essere un po’ disperati per pregare, da qualche parte, non necessariamente in un modo che si potrebbe raccontare a chiunque, e poi appunto le sue osservazioni sono: iniziai questa preghiera di lamento e poi leggete le prime righe: tu sei giusto… sei misericordioso, sei giudice, ricordati, l’invocazione della memoria.. e uno dice: scusa, ma dove starebbe il lamento in questo? Ma il lamento sta in una parola: ricòrdati di me e guardami. Questa parola è pazzesca, tutti facciamo l’esperienza di guardare di sottecchi qualcuno, per vedere cosa guarda, dai giornalisti politici, che fotografano di nascosto i pizzini, agli adolescenti innamorati, che dicono all’amica: guarda se mi guarda! Perché loro non possono girarsi, sarebbe troppo plateale, però, se la tua amica del cuore guarda, vede se ti guarda. Perché guardarsi, appunto, è dagli occhi da cui escono le lacrime e se anche la nostra potenzialità di relazione – e forse certe volte pregare – è solo guardare qualcosa, guardare una riga di un testo, che sia un salmo o un testo della Parola di Dio, anche un romanzo, guardare fuori dalla finestra un cielo particolarmente bello o particolarmente brutto, guardare vedendo, la lamentazione è lì, la lamentazione è: non ti dimenticare di me, guardami.

Poi ribadisce: ok, hai ragione, non sto contestando il tuo giudizio, noi abbiamo peccato e tu hai fatto bene a mandarci in esilio, giusto così, dobbiamo imparare la lezione, ma guardami: io non ce la faccio più! Non invoco la tua giustizia, invoco il tuo sguardo, e dunque, poiché invoco il tuo sguardo, per me è meglio morire. Mi fa sempre molta impressione quando nella Scrittura ci sono, in alcune occasioni, alcuni personaggi che invocano la propria morte, perché invocare la propria morte è un passaggio duro. Io poi di carattere tendenzialmente sono una lottatrice, cioè non una depressa, per cui, insomma, devo stare veramente molto male, ma molto, molto male, per arrivare a pensare una cosa così. Però, negli ultimi anni, mi è successo, mi è successo di pensare: io non ce la faccio più, non ho niente da dire, accetto la realtà per quella che è, è un dato di fatto, non ho niente da recriminare, ma basta così, non ho più fiato, basta così. E credo che per molti di noi questa questione dovrebbe essere una questione che, diventando grandi, dobbiamo porci: dove si nutre il desiderio di morire, perché tutti ce l’abbiamo, da qualche parte, piccolo, nascosto, non ancora emerso, ma tutti ce l’abbiamo da qualche parte. Dove si nutre? Dove si radica? Nella stanchezza? Nel dire, vabbè, come dicevano gli antichi: andiamo al riposo eterno? O come ha fatto scrivere sulla sua tomba Flaiano: Non preoccupatevi, è solo sonno arretrato, che potrebbe anche essere, ma dove si nutre, perché c’è un desiderio, c’è un desiderio di vivere e c’è un desiderio di morire, ci sono, ci abitano entrambi. Questa è la prima grande preghiera di questo capitolo, è la preghiera di Tobi, che ancora sta nel paradigma precedente, il testo poi continua così:

  7Nello stesso giorno a Sara, figlia di Raguele, abitante di Ecbàtana, nella Media,

Un’altra persona, giovane, sempre del mondo ebraico, sempre in esilio, ma già proiettata nell’altro mondo, forse noi, cioè che già è cresciuta nell’altro mondo, che non ha la struttura di rapporto con la divinità che ha Tobi, il padre.

  capitò di sentirsi insultare da parte di una serva di suo padre, 8poiché lei era stata data in moglie a sette uomini, ma Asmodeo, il cattivo demonio, glieli aveva uccisi, prima che potessero unirsi con lei come si fa con le mogli. A lei appunto disse la serva: «Sei proprio tu che uccidi i tuoi mariti. Ecco, sei già stata data a sette mariti e neppure di uno hai potuto portare il nome. 9Perché vorresti colpire noi, se i tuoi mariti sono morti? Vattene con loro e che da te non dobbiamo mai vedere né figlio né figlia».

Questa è la premessa. Sara ha un problema bello grosso, perché questa faccenda di non riuscire a sposarsi e a generare prole è una maledizione speciale in Israele, non si può mettere al mondo il Messia tanto atteso se non si mettono al mondo figli. Quindi è una questione poi cambierà col NT questo ragionamento, ma qui è ancora molto forte e si sceglie questo racconto, questa leggenda di Tobi proprio per dire: Sara è colpita dalla maledizione, più maledizione che ci sia, che fa sì che una serva, in una società gerarchica, possa insultarla, cioè talmente questa maledizione la rende una schifezza che persino una serva può dirle: vattene con loro, che in romanesco si direbbe: va a morì ammazzato, sarebbe una maledizione di grande portata e Sara di fronte a questo insulto:

10In quel giorno dunque ella soffrì molto, pianse e salì nella stanza del padre con l’intenzione di impiccarsi.

Sara non prega Dio di farla morire, in prima battuta decide per sé, fa già parte del mondo nuovo, decide di, basta così, il desiderio di morire è fortissimo.

  Ma, tornando a riflettere, pensava: «Che non insultino mio padre e non gli dicano: «La sola figlia che avevi, a te assai cara, si è impiccata per le sue sventure». Così farei precipitare con angoscia la vecchiaia di mio padre negli inferi. Meglio per me che non mi impicchi, ma supplichi il Signore di farmi morire per non sentire più insulti nella mia vita». 11In quel momento stese le mani verso la finestra e pregò: «Benedetto sei tu, Dio misericordioso, e benedetto è il tuo nome nei secoli. Ti benedicano tutte le tue opere per sempre. 12Ora a te innalzo il mio volto e i miei occhi. 13Comanda che io sia tolta dalla terra, perché non debba sentire più insulti. 14Tu sai, Signore, che sono pura da ogni contatto con un uomo 15e che non ho disonorato il mio nome né quello di mio padre nella terra dell’esilio. Io sono l’unica figlia di mio padre. Egli non ha altri figli che possano ereditare, né un fratello vicino né un parente per il quale io possa serbarmi come sposa. Già sette mariti ho perduto: perché dovrei vivere ancora? Se tu non vuoi che io muoia, guarda a me con benevolenza: che io non senta più insulti».

Sara dunque compie una preghiera ben diversa, è molto diversa da quella di Tobi, non riconosce una giustizia in Dio, non si pone il problema, ma dice, ok, se io mi impicco renderò la vecchiaia di mio padre insopportabile, faccio danno a una persona che amo. Non lo farò, però tu, Signore, tu puoi farlo di farmi morire, fammi morire perché non ho un desiderio per vivere e, se proprio non vuoi che muoia, che io non senta più insulti, fammi campare bene, che sarebbe il ragionamento che facciamo noi. Se la finiamo qua, la finiamo qua, se non la finiamo e allora: fammi campare bene. Non so se riesco a rendere la diversità della preghiera e soprattutto se riesco a trasmettere come non c’è niente di sacro in questa preghiera, nasce da un sanguinare della vita. Sara non si fa un problema etico sul suicidio, non dice: e poi Dio si arrabbia ancora di più se mi suicido, perché non ci si deve suicidare, la vita, bla bla. È molto con i piedi piantati, rispetto ai propri desideri e alla propria vita, ed è la vita intera, ma non la vita in astratto, sono le cose che vive, le sue sofferenze, la sua fatica, il suo desiderio di un marito, che segnalano a Dio la mano che segue il respiro. E poi ci sono i versetti 16 e 17, gli ultimi due del capitolo, che sono la svolta, che mi fanno sempre pensare tanto, tanto, in particolar modo il 16.

  16In quel medesimo momento la preghiera di ambedue fu accolta davanti alla gloria di Dio 17e fu mandato Raffaele a guarire tutti e due: a togliere le macchie bianche dagli occhi di Tobi, perché con gli occhi vedesse la luce di Dio, e a dare Sara, figlia di Raguele, in sposa a Tobia, figlio di Tobi, e così scacciare da lei il cattivo demonio Asmodeo. Di diritto, infatti, spettava a Tobia prenderla in sposa, prima che a tutti gli altri pretendenti.

C’era infatti una parentela che Sara non sapeva, una parentela sconosciuta: quando Tobia si presenterà, si scoprirà che è il parente che ha diritto a prenderla in sposa, anche se nessuno lo sapeva.

  Proprio allora Tobi rientrava in casa dal cortile e Sara, figlia di Raguele, stava scendendo dalla camera.

La loro preghiera è accolta, Dio risponde positivamente a ciò che chiedono: allora – ci verrebbe da dire – crepano tutte e due! Hanno chiesto di morire, Dio accoglie la loro preghiera e li fa morire! E invece no! Hanno chiesto di morire: Dio accoglie la loro preghiera e dunque non li fa morire, ma manda Raffaele, un mentitore scorretto, un angelo che fa gesti di magia idolatrici per i punti di vista del mondo ebraico, uno che fa tutto sbagliato, uno scorretto a 360°, uno che rompe tutte le righe. Quando Tobia incontrerà il pesce, che poi gli consentirà di cacciare Asmodeo da Sara, si dice che Tobia, su invito di Raffaele, prende il pesce e fu subito innamorato di Sara, che non sapeva nemmeno che esisteva, non l’aveva ancora vista, non l’aveva incontrata, non sapeva che c’era, ma il suo cuore si innamora, perché è in un altro luogo dove avvengono le cose. Le cose vere avvengono in un altro luogo e in fondo l’esperienza della preghiera non è altro che: andare a ricercare dove avvengono le cose vere, a volte nel nostro cuore, nella nostra psiche, a volte nella relazione con gli altri, a volte nel testo della Parola di Dio. L’esercizio della preghiera è l’esercizio di andare a cercare a rinvenire dove accadono le cose vere, perché la loro preghiera sia accolta e dunque possano vivere e dunque

  fu mandato Raffaele a guarire tutti e due.

La storia inizia con il viaggio di Tobia, ma Raffaele viene mandato non per Tobia, ma per guarire Tobi e Sara, il che però cambia la vita a Tobia. Funziona esattamente così, Dio accoglie le nostre preghiere, facendo un’altra cosa, per un altro, e dunque succede una cosa che non è quello che avevamo chiesto, ma che funziona, che va bene, anche se è quello che apparentemente era alla radice del nostro dolore. Poi invece accade, continua nella sua ineluttabilità, che fa parte della nostra storia com’è, ma succede qualcos’altro, di vero, da un’altra parte. Il vecchio Tobi torna vedente, da bravo credente, molto preoccupato della correttezza. Era diventato cieco, e qui si sprecherebbero gli esempi su tutti i nostri amici preti, a cui riconosciamo buona fede, ma che spesso hanno le scaglie sugli occhi, cioè non vedono, semplicemente non vedono, di essere in un altro luogo in un altro tempo in un altro modo. Tobi viene guarito perché comincia a vedere, Sara viene guarita perché Tobia la raggiunge, sfida il rischio di morire con un pesce magico e dunque con un’opera di magia, che agli Ebrei stava abbastanza qua l’idea, con una cosa un po’ scorretta anche lui, caccia il demonio e possono dare l’inizio al matrimonio, che diventa più importante del patrimonio, e le ultime due righe sono, dal mio punto di vista, non lo so se sono pazza, forse sì, sono bellissime:

  Proprio allora Tobi rientrava in casa dal cortile e Sara, figlia di Raguele, stava scendendo dalla camera.

La storia rimane normale, non si vede niente, è già successo tutto, ma non si vede ancora niente. Tobi rientra dal cortile in casa e Sara scende dalla camera, dove aveva pensato di impiccarsi, per tornare nella stanza comune, dove si trascorreva la giornata, cioè non è successo niente. La storia fa i suoi passi e bisogna attendere, altri tre capitoli, perché le cose succedano e si vedano, perché la storia si muove con il proprio passo. E in questa storia, che si muove con il proprio passo, bisogna però sforzarsi di – come dire – seguire un angelo mentitore, decidere, magari per i motivi sbagliati, di non impiccarsi, di non scegliere la via della morte continuare a rischiare la vita, cercando dove accadono le cose vere. Io mi fermerei qua.

Fossano, 15 ottobre 2022
Testo non rivisto dal relatore


Al termine della Lectio divina del 15 ottobre 2022 si è fatto riferimento ad un testo relativo al libro biblico di Tobia: si tratta di “La storia di Tobia: nascere vecchi e morire bambini”. Il libro (pubblicato dall’editrice Ave, ora esaurito) è la rielaborazione scritta di un percorso spirituale-esistenziale che un gruppo di giovani-adulti delle diocesi di Fossano e Mondovì seguì nel 1992 durante un campo scuola estivo. Il libretto è disponibile in PDF e si può scaricare quiLa storia di Tobia

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